La condizione umana nella poesia di Giuseppe De Dominicis (Capitano Black) (Parte seconda)

            L’arrivo della primavera però, che cambia completamente veste alla natura e mette nuovo vigore agli animali, non muta il destino dell’uomo, tormentato come sempre dai soliti problemi, miseria, fame,  malattie, tanto che la poesia si conclude con questo interrogativo: “Primavera, li fiuri faci aprire, / e all’omu, dimme, cce nni sai cangiare?” (p. 18; “Primavera, i fiori fai aprire, / e all’uomo, dimmi, che gli sai cambiare?”).

            Nemmeno la scienza, sostiene De Dominicis, in Nfacce allu Cumentu de S. Pascali  (“Dinanzi al Convento di San Pasquale”)[1], è in grado di risolvere i problemi degli uomini. E qui forse affiora un’ eco della reazione antipositivistica che si sviluppa nella cultura non solo italiana ma europea alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. In quest’altra composizione, che prende spunto dalla trasformazione dell’antico convento di San Pasquale a Lecce in manicomio avvenuta nel 1901, il poeta fa di questi due luoghi di reclusione, il convento e il manicomio, quasi una sorta di metafora dell’esistenza umana, tanta è la varietà di tipi e di caratteri che vengono da lui efficacemente sbozzati.  Nella prima parte è rievocata la vita in convento con figure di  monaci  di tutti i generi, contrapposti tra di loro:

mòneci mazzi cu ll’osse e lla pedhe,

ca l’amore de Diu scarfau li cori,

moneci rassi, chini d’allegria,

ca truàstiu cu scanzati la fatìa!

     Moneci de lu studiu scutursati,

muerti tra lli celizzi e lle preghiere;

moneci ca li giurni iti passati

cu nna mangiata e ccu nnu miserere,

la matina allu coru genucchiati

e lla sira facendu llecracere,

intru lli curreduri bu isciu moi

passeggiare de unita, a doi a doi!

                                               (p. 13)

(“Monaci magri con l’ ossa e la pelle, / ai quali l’amore di Dio riscaldò i cuori, / monaci grassi, pieni d’allegria, / che trovaste il modo di evitare la fatica! // Monaci incurvati dal lavoro, / morti tra i cilici e le preghiere; / monaci che avete passato i giorni / con una mangiata e con un miserere, / la mattina al coro inginocchiati / e la sera facendo allegre cene, / tra i corridoi vi vedo ora / passeggiare insieme, a due a due!”).

            Nella seconda, simmetricamente, passa in rassegna  invece la varia umanità di individui ricoverati nel manicomio, anche qui facendo ricorso a un’ampia tipologia:

malati ca se critenu guerrieri,

sciancati ca se sèntenu putienti;

ecche fràcete spatte tabaccuse

se pènzanu ca ‘ncora su’ cccaruse!

     Eccu, passa de ccquai nu ‘mperatore

cu nna curuna a ncapu tisa tisa;

e luntanu se rida: – Amore, amore,

m’ha bbandunatu e ll’anima m’ha ccisa!… –

n’autru stròleca: – Ieu su nnu signore! –

mentre subbra nu pporta la camisa!

nfundu allu curreduru qualchedunu

mina mazzate a ddu nu nc’è nisciunu!

                                               (p. 14)

(“malati che si credono guerrieri, / sciancati che si sentono potenti; / vecchie cadenti, decrepite, tabaccose / credono di essere ancora giovanette! // Ecco, passa da qui un imperatore / con una corona in testa dritta dritta; / e lontano si grida : – Amore, amore, / m’hai abbandonato e l’anima m’hai uccisa!… – / un altro esclama farneticando: – Io sono un signore – / mentre sopra non indossa la camicia! / in fondo al corridoio qualcheduno / dà bastonate dove non c’è nessuno!”).

            Nell’ultima ottava infine i malati di mente vengono  paragonati a naviganti perduti in alto mare, privi di bussola e di carte nautiche, che nemmeno la scienza psichiatrica è in grado di mettere in salvo:

     Ahi,  pôri pacci, pôri naecanti,

perduti de la vita all’àutu mare!

Ahi,  pôri pacci ca iti de nanti

persa la carta de lu naecare;

la scenzia ca bu uarda tutti quanti

nu bu la sape l’ancura menare!…

                                               (p. 15)

(“Ahi, poveri pazzi, poveri naviganti, / perduti nell’alto mare della vita! / Ahi, poveri pazzi che avete davanti / persa la mappa del navigare; / la scienza che vi guarda tutti quanti / non vi sa buttare l’ancora!…”).

               Ma con questa metafora forse il poeta vuole riferirsi alla vita dell’uomo in generale, che  è continuamente a rischio. Tanto è vero che alla fine si chiede se non siano pazzi, a causa dell’amore, anche lui e la sua donna, che pure non sono etichettabili come tali: “Fommu pacci nui puru, Linda mia, / senza nni canuscimu la paccia?” (p. 15; “Fummo pazzi noi pure, Linda mia, / senza conoscere la pazzia”). È evidente insomma che anche per De Dominicis, in questo più generale periodo di crisi, vengono meno tante certezze e la sua poesia incomincia a porsi  domande che restano spesso senza risposta.

            E di tutta una serie di interrogativi, sul senso della vita, sull’origine di essa, sul mistero dell’universo, è disseminata un’altra grande composizione di questo libro, La notte de Santu Martinu, ricca di accenti che non è azzardato definire di sapore leopardiano e pascoliano.  Il titolo originario,  quando apparve su un giornale leccese, era Ditirambu, ma solo l’ultima parte, la terza, rientra pienamente nei canoni di questo genere poetico che consiste, com’è noto, nell’esaltazione del vino e dei piaceri procurati dal vino. La prima e la seconda  parte sono invece una vera e propria poesia di tipo esistenziale, il cui significato più profondo si può riassumere nel verso “lu mundu ete tuttu vanità” (p. 27 ; “il mondo è tutto vanità”). Qui ritorna la sfiducia verso la scienza che non sa dare risposte a domande fondamentali sulla nostra esistenza e non può farci conoscere la “verità” delle cose, nascosta da “nu velu”, termine che richiama da vicino “il velo di Maya” dell’antica sapienza indiana, ripreso poi, com’è noto, da Schopenauer:

Comu lu muscaritulu s’ha ccriatu?

comu nasce de lu erme la farfalla?

     Tante de stidhe ca nci suntu a ncelu,

quale mente le sape mmesurare?

percé la verità porta nu velu,

ca l’omu nu llu pote spugghecare?

     Dimme quale scenziatu l’ha capita

comu se forma a ncapu lu penzieri?

comu ccumenza all’uemmeni la vita?…

                                               (p. 28)

(“Come si è creato il moscerino? / come nasce dal baco la farfalla? // Tante di stelle che ci sono in cielo, / quale mente le sa misurare? / perché la verità porta un velo, / che l’uomo non lo può scoprire? // Dimmi quale scienziato l’ha capito / come si forma nella testa il pensiero? / come comincia agli uomini la vita?…”).

            Ma qui emerge anche il rifiuto di un’altra illusione a cui il poeta aveva leopardianamente creduto fino ad allora, l’amore, che è giudicato anch’esso “vanità”. Perché l’amore, sostiene il poeta, non è quello immaginato da giovinetti, ma è un sentimento che procura solo tormento, inquietudine, sofferenza. Tutto ciò porta a una visione sconsolata dell’esistenza, di grande modernità, perché per l’uomo è impossibile andare oltre i propri limiti e, quando tenta di farlo, gli resta addosso un senso di frustrazione e di impotenza:

     E quandu la mente ole mbrazza lu celu,

de pùrvere a manu se troa na francata;

e quantu cchiù bàutu ole spicca lu uelu,

cchiù mmutu alla terra se sente nferrata!

     E giurnu pe giurnu ni etimu na cosa

cadire sbiadita de cqua intru llu core;

fugghiazza, fugghiazza se spronda la rosa

lassandu lu russu, perdendu la ndore!

                                               (p. 29)

(“E quando la mente vuole abbracciare il cielo, / si trova in mano una manciata di polvere; / e quanto più alto vuole spiccare il volo, / ancora di più  si sente afferrata alla terra! // E giorno per giorno ci vediamo una cosa / cadere sbiadita di qua dentro il cuore; /  una foglia dopo l’altra si sfronda la rosa / lasciando il rosso, perdendo l’odore!”).

            A questo punto è chiaro il rapporto tra angoscia esistenziale e rimedi allucinatori, che possono venire anche dal vino, secondo la prospettiva  aperta da Baudelaire e seguita poi anche dai nostri scapigliati. Questo motivo compare nella terza parte, il vero e proprio ditirambo, che si distingue anche per metrica e ritmo diversi (si passa dalle severe e cadenzate quartine di endecasillabi delle prime due parti alle agili ottave di settenari della terza). L’unica felicità possibile, dice il poeta, si può trovare solo nel vino, nello stordimento procurato dai fumi dell’alcool[2]:

     E cchiù mmutu intru ll’anima

te sienti rusecare,

se na cosa desideri

senza lla puei zzeccare;

e rredhi e curri e spràsemi,

te mangi lu penzieri,

e cerchi a ddu po’ esistere

nn’autra felicità.

     Ma intantu moi la pràtteca

de l’anni me cunsiglia,

ca, se la uei, cercàmula

sulu ‘ntru lla buttiglia;

e avanti, bii, manisciate,

inchi, bedhazza mia,

e doppu poi respundime

se nu bè verità.

                        (p. 29)

(“E molto di più nell’anima / ti senti rodere, / se desideri una cosa / senza riuscire ad  afferrarla; / e cerchi e corri e spasimi, / ti lambicchi il cervello, / e cerchi dove può esistere / un’altra felicità. // Ma intanto ora l’esperienza / degli anni mi consiglia, / che, se la vuoi, cerchiamola / solo dentro la bottiglia; / e avanti, bevi, affrettati, / riempi, bella mia, / e dopo poi rispondimi / se non è verità”).

             Il motivo dell’amore come follia che porta alla morte è al centro  de Lu ballu de li muerti (“Il ballo dei morti”), dove però si dà un’altra soluzione al problema dell’infelicità umana. Questa composizione, che reca il sottotitolo La notte de lu 2 nuembre (“La notte del 2 novembre”), come s’è già detto, vide la luce in un opuscoletto stampato dalla Tipografia Cooperativa di Lecce nel 1902, segno dell’importanza che De Dominicis le attribuiva. Fu poi riportata  in Spudhiculature  “per esserne esaurita l’edizione” (p. 42), come chiarisce la nota dell’autore, senza però la quartina conclusiva. Qui De Dominicis riprende il topos, di origine medievale, della danza macabra, assai diffuso nella poesia romantica europea ma presente anche nell’Ottocento italiano, e non solo tra gli scapigliati (Arturo Graf, ad esempio, compose una Danza dello scheletro[3]). Ma questo motivo è solo il pretesto che permette al poeta di esprimere ancora una volta la sua concezione della vita. Manca del tutto infatti quel compiacimento per l’orrido e il lugubre così tipico degli scapigliati, e gli spiriti di De Dominicis assomigliano piuttosto ai personaggi dell’Antologia di Spoon River  di Edgar Lee Masters (nato, guarda caso, nel 1869, lo stesso anno del poeta salentino), in quanto ciascuno di essi racconta tranquillamente la propria storia, come se stessero seduti intorno al tavolo in una osteria.

            Ma vediamo più da vicino il contenuto di questa lunga composizione. Il due di novembre in un cimitero un defunto, che poi si rivelerà essere un poeta, sveglia tutti gli altri e fa loro un discorso sulla falsità dei parenti e amici che solo in questo giorno si ricordano di loro:

     “Cce chianti su quisti? Su stati na ‘nnata,

pensandu a ttutt’autru tra ccanti e ‘llegria!…

Mo tanta de dogghia sulu osce n’ha rriata?

Cumpagni, lu mundu ete tuttu buscìa!

                                               (p. 37)

(“Che pianti sono questi? Sono stati un’annata, / pensando a tutt’altro tra canti e allegria! / Ora tanto dolore solo oggi gli è arrivato? / Compagni, il mondo è tutto bugia!”).

            Li invita perciò a ballare e a narrare ciascuno la propria vicenda. Incomincia proprio il poeta che racconta la sua storia d’amore interrotta dalla morte a causa di un’improvvisa malattia. Dopo appena un mese però la sua donna, che sembrava inconsolabile, si innamora di un altro. Il secondo spirito rivela di essere stato ammazzato da un uomo con cui la moglie lo tradiva. Il terzo, perché condannato a morte in quanto, sempre per amore, aveva ucciso per rubare. Il quarto infine dichiara la sua indifferenza verso le passioni, dimostrandosi un seguace dell’ideale epicureo dell’ atarassia che, come suggerisce De Dominicis, sembra essere l’unico rimedio possibile ai mali della vita:

     “Ieu, cari cumpagni, all’amore nu crisi,

nu diesi alle fimmene giurni de cchiui:

quandu iddi l’amore, luntanu me misi…

Ci ha statu cchiù sapiu o cchiù pacciu de nui?

     Amai li piaceri; ma simile a nn’apu

ca fiuru pe ffiuru lu mele nde ccogghie;

a nvita nu ntisi dulori de capu,

de l’ùrtimu giurnu nu ntisi le dogghie!

     Amai sulamente cu mmangiu e ccu biu:

tant’àutri malanni cce ssuntu, nu ssacciu.

De cinca pe ppene d’amore muriu

su ieu lu cchiù ssapiu, su ieu lu cchiù ppacciu?”

                                                                       (p. 41)

(“Io, cari compagni all’amore non credetti, / non diedi alle femmine più giorni del necessario: / quando vidi l’amore, mi misi lontano… / Chi è stato più saggio o più pazzo di noi? // Amai i piaceri; ma simile a un’ape / che fiore per fiore il miele ne coglie; / in vita non sentii dolori di testa, / dell’ultimo giorno non sentii le sofferenze! // Amai solamente mangiare e bere: / tant’altri malanni che sono, non so. / Di chi morì per pene d’amore / sono io il più saggio, sono io il più pazzo?”).

            Quando il ballo finisce, il lenzuolo del poeta resta impigliato all’estremità di una croce finché il sole non sorge. Il poeta perciò resta a guardia fuori dalla tomba in attesa di risvegliare i defunti l’anno seguente.

            Questa composizione permette anche di entrare nel vivo del laboratorio poetico del Capitano Blak, il quale per Lu ballu de li muerti si ispira a due liriche di Goethe e di Heine, contaminandole originalmente. Del primo tiene presente la ballata Der totentanz (La danza macabra)[4], dove si racconta appunto di una danza degli scheletri a cui assiste casualmente nel cimitero un campanaro il quale si diverte a rubare il lenzuolo a uno di essi. Questi poi cerca di impossessarsene e sta per riuscirci ma l’orlo del lenzuolo si impiglia a un uncino di ferro. Intanto si sente il suono delle campane e lo scheletro, privo del sudario, perde ogni forza e si sfracella a terra. Da questa ballata goethiana, che prende di mira la moda romantica della poesia cimiteriale, De Dominicis riprende però soltanto il motivo topico della danza macabra e quello del sudario che si impiglia all’angolo di una croce.

            La vera fonte per il Capitano Black, come è stato indicato in un vecchio articolo[5], è piuttosto Heine, da lui tradotto altre volte, e in particolare una composizione, la numero otto, che fa parte della sezione Sogni, compresa nella raccolta Dolori giovanili[6]. Da questa infatti il poeta salentino mutua lo schema della sua ballata, cioè la confessione degli spiriti tutti morti per amore, col ritornello che si ripete ossessivamente, e la figura del giullare, che qui diventa il poeta, oltre a quello della danza macabra. Ma non mancano nemmeno le differenze tra le due composizioni. De Dominicis colloca l’azione della sua poesia il due di novembre e questo gli permette di polemizzare, come s’è visto, contro la falsità dei comportamenti di parenti e amici, che solo in quel giorno si ricordano degli scomparsi. “Cumpagni, lu mundu ete tuttu buscìa!”, dice il poeta con questo verso che  fa il paio con l’altro già citato, “lu mundu ete tuttu vanità”, entrambi forse non immemori di quello di Arrigo Boito, “Tutto nel mondo è burla”, compreso nel libretto del Falstaff verdiano (III atto, parte II)[7], sicuramente noto a De Dominicis. Ma soprattutto qui compare la figura dello scettico, del disincantato epicureo, il quale preferisce tenersi lontano dai pericoli della passione e dell’ amore e godere dei piaceri della vita sì,  ma con moderazione.

            Per finire, esaminiamo ora le tre ultime composizioni del libro, Lu cantu de la vita, Lu cantu de la Morte e Lu giudizziu universale, le quali devono essere considerate facenti parte a pieno titolo di Spudhiculature, e all’interno di questo contesto vanno analizzate, indipendentemente dalla trama sottesa al poema progettato e non terminato e del quale non terremo conto. Non bisogna dimenticare, d’altra parte, che esse furono inserite dall’autore stesso in questo libro, forse perché si collegano strettamente alle altre per alcune precise affinità tematiche. In Lu cantu de la vita, emerge, ad esempio, la consueta sfiducia nei confronti della scenzia [8], che qui deve essere intesa non solo come sapere scientifico ma come conoscenza del bene e del male che l’uomo ha ereditato da Adamo da quando mangiò il frutto dell’albero proibito. In ogni caso la scenzia  non è valsa a sconfiggere la morte. Infatti il sole è sempre al suo posto dall’origine del tempo e ha visto i giorni nascere e morire  e gli uomini progredire dallo stato cavernicolo fino alla conquista del cielo:

Ha bistu l’omu, quandu de piedhi cuperutu

lu rreparaa na rutta de l’acqua e de lu scelu

e llu sta bite moi ‘ntrèpetu, rresulutu,

salire cu scuprisca li campi de lu celu!

                                                           (p. 43)

(“Ha visto l’uomo, quando coperto di pelli / una grotta lo riparava dall’acqua e dal gelo / e lo sta vedendo  adesso intrepido, risoluto / salire per scoprire i campi del cielo”).

            La vita degli uomini invece, nonostante questi progressi straordinari fatti  grazie alla scienza, resta sempre estremamente caduca e precaria e viene paragonata dal poeta, con due efficacissime similitudini,  a stelle cadenti e a faville che durano un attimo soltanto. È, questo, un momento  di grande intensità poetica che costituisce sicuramente uno dei vertici  della  poesia di De Dominicis:

Ma l’uemmeni passara: passara comu stidhe

ca a basciu allu punente pe ssempre su ccadute;

passara comu pàssanu pe ll’aria le fascidhe:

dànu na botta d’ampa, càdenu e ssu’ pperdute!

                                                                       (p. 43)

(“Ma gli uomini passarono: passarono come stelle / che di sotto al ponente per sempre sono cadute; / passarono come passano per l’aria le faville: / danno una botta di vampa, cadono e sono perdute!”).

            Che vale, dunque, si chiede il poeta, la conoscenza del bene e del male, che gli uomini hanno ereditato da Adamo, se non è servita a sconfiggere la morte?

     Cce base dunque, Adamu, lu fruttu ca mangiasti,

la scienza de lu bene, la scenzia de lu male?

Cce ‘rredetà de ùtule all’uemmeni lassasti,

se cu fferma la morte lu fruttu tou nu mbale?

                                                                       (p. 44)

(“Che valse dunque, Adamo, il frutto che mangiasti, / la scienza del bene, la scienza del male? / Che eredità di utile agli uomini lasciasti, / se a fermare la morte il frutto tuo non vale?”).

            Allora, se la scenzia non vale a salvarci dalla morte, ecco il rifiuto de “lu fruttu de la scenza”, de “li frutti de la mente” e il tentativo titanico, faustiano, intrapreso dal protagonista, di impossessarsi del frutto dell’albero della vita che solo può garantire agli uomini l’eterna gioventù.

            Ancora più straordinario Lu cantu de la Morte, con la personificazione della morte, raffigurata, secondo la tradizione iconografica medievale, enorme e con la falce in mano. Ma qui soprattutto colpisce la concezione, che si può definire di tipo quasi preesistenzialista, di una morte indissolubilmente legata alla vita dell’uomo, come di un’altra faccia della stessa medaglia. Infatti il canto incomincia con la descrizione di un incomparabile scenario di bellezza, gioia e felicità, che però dura assai poco perché all’improvviso fa la sua comparsa questa figura “immenza, paurusa, spamentosa” (p. 48; “immensa, paurosa, spaventosa”), che detta la sua legge:

A ddunca iti la vita, de retu ieu nci stau,

ieu rande, onniputente, ca tegnu tuttu a cquai!

     È pe mmie ca li fiuri furniscenu la ‘ndore;

citati, regni, imperi li fazzu ieu cadire,

e ll’omu lu cchiù ntrèpetu ete pe mmie ca more;

cu llu fiatu te fazzu lu sule ddefreddire!

     De lu fiuru ca sicca nde cacciu n’autra rosa,

subbra nnu regnu muertu nasce nu regnu neu;

de l’uemmeni ca spezzu nde fazzu n’autra cosa;

ieu su’ mmorte, su’ vita, su ttutte cose, ieu!

                                                                       (p. 49)

(“Dove vedi la vita, dietro ci sto io / io grande, onnipotente, che tengo tutto qua! // E’ per me che i fiori finiscono l’odore; / città, regni, imperi li faccio io cadere, / e l’uomo il più intrepido è per me che muore; / con il fiato ti faccio raffreddare il sole! // Del fiore che secca ne ricavo un’altra rosa, / sopra un regno morto nasce un regno nuovo; / degli uomini che spezzo ne faccio un’altra cosa; / io sono morte, sono vita, sono tutte cose, io!”)

            In Lu giudizziu universale  infine, che solo per il tema si può accostare a un altro sonetto del Belli, Er giorno der giudizzio[9], si descrive, in una visione dal sapore lucreziano, il ricompattamento  degli atomi che nel giorno del giudizio appunto si ricongiungono tra di loro e ridanno l’originaria fisionomia a volti e corpi degli uomini:

     Nu discetu enendu de migghie luntanu

se ncodha cu nn’ugna, se unisce a nna manu.

     Na stozza de carne de nn’anca de cquai

se scodha  se unisce a nnu razzu de dhai,

     e urrendu e butandu e fissu a nnu muetu

de nanti de coste de coste de retu

     de subbra de sutta qua nnanti a dha mmera

utandu e girandu alla stessa manera…

     e ll’Angelu all’aria sunandu la tromba:

“O muerti, beriti” ― rembomba, rembomba!

                                                           (p. 52)

(“Un dito venendo da miglia lontano / si attacca con un’unghia, si unisce a una mano. // Un pezzo di carne di una gamba di qua / si scolla si unisce a un braccio di là, // e correndo e voltando e fisso a un modo / davanti di lato di lato di dietro // di sopra di sotto qua davanti da quella parte / voltando e girando alla stessa maniera… // e l’Angelo suonando la tromba all’aria: / ‘O morti, risuscitate’ – rimbomba, rimbomba”).

Qui la tensione concettuale dei due grandi “canti” della vita e della morte s’è ormai allentata, ma De Dominicis si congeda dai lettori del suo libro con un autentico pezzo di bravura, segno anche dell’alto livello di perizia tecnica e formale a cui era ormai giunto.

[In Giuseppe De Dominicis  e la poesia dialettale tra ‘800 e ‘900. Atti del Convegno di Studi (Cavallino di Lecce, 17-19 marzo 2005), a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 2005; poi in A.L. Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009]


[1] Su questa composizione cfr. M. D’ELIA, Sulla poesia ‘Nfacce allu cumentu de S. Pascali’ di Giuseppe De Dominicis, Lecce, Adriatica Editrice Sal., 1986, ora in ID., Storia linguistica e culturale in  Terra d’Otranto, Galatina,  Congedo, 1995, pp. 195-208.

[2] Per questo motivo è probabile anche un influsso stecchettiano. Cfr., in particolare, Ebbro e Brindisi, tratte da Postuma, in Le Rime di Lorenzo Stecchetti, Bologna, Zanichelli, 1966, rispettivamente alle pp. 37 e 92-93.

[3] In A. GRAF, Le Danaidi, Torino, Chiantore, 19202, rist., (I. ed., 1897), pp. 70-73.

[4] In J. W. GOETHE, Tutte le poesie. Edizione diretta da R. Fertonani con la collaborazione di E. Ganni. Prefazione di R. Fertonani, vol. primo, tomo I, Milano, Mondadori, pp. 262-264.

[5] V. ZARA, Di un poeta vernacolo leccese, in “Rivista Storica Salentina”, a. VIII, n. 9-12, settembre-dicembre 1913, pp. 269-285.

[6] In Poesie di Enrico Heine, tradotte da F. Amoroso. Canzoniere – Romanzero, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 19-24. Da notare che nel vol. E. HEINE, Il Canzoniere, traduzione di B. Zendrini, vol. I, Milano, Hoepli, 18844, pp. 65-72, questa poesia porta il titolo Il camposanto. De Dominicis tenne sicuramente presente questa traduzione ottocentesca del poeta tedesco.

[7] A. BOITO, Falstaff, in Tutti gli scritti, a cura di P. Nardi, Milano, Mondadori, 1942, p. 1063.

[8] A questo proposito cfr. M. D’ELIA, La ‘scenzia’ nella poesia dialettale di Giuseppe De Dominicis, in AA.VV., Letteratura e storia meridionale. Studi offerti a Aldo Vallone, Firenze, Olschki, 1989, pp. 737-749, ora in M. D’ELIA, Storia linguistica e culturale in Terra d’Otranto, cit., pp. 209-222.

[9] In G. G. BELLI, Sonetti, cit., p. 55.

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