Per i settant’anni della Luna dei Borboni (1952) di Vittorio Bodini. Un’edizione commentata a cura di Antonio Mangione

Si prenda, ad esempio, l’aggettivo “sorcigno”, che compare nella prima lirica della sezione La luna dei Borboni, ed è riferito al cavallo che “camminerà a ritroso sulla pianura”, simbolo di una storia che nel Sud non riesce a procedere. Ebbene questo aggettivo,  che significa “dal pelo grigio topo”,  è ripreso da un atto notarile del Seicento, ed è il colore dei cavalli dei vetturini leccesi, come lo stesso poeta scrisse in una lettera a Oreste Macrì. Ancora, nel commento alla poesia intitolata Lydia Gutiérrez, si cerca di fare luce su questa enigmatica figura femminile, che, nell’ipotesi di Mangione fondata su un’attenta lettura dei dati interni al testo, è “probabilmente una canzonettista di caffè concerto”, conosciuta dallo scrittore negli anni della guerra a Roma.

            Nelle note sono messi nella dovuta evidenza pure i “modelli” imprescindibili di Bodini: innanzitutto gli spagnoli García Lorca e Alberti, poi Montale e gli ermetici meridionali, come Quasimodo e  Sinisgalli. Così pure frequenti sono i riferimenti alla pittura: Picasso, Klee, Roualt, Van Gogh, De Chirico, Mafai, ecc. Solo alla fine lo studioso espone il suo sintetico commento, in cui pure non mancano annotazioni metriche, retoriche e strutturali, servendosi di un linguaggio critico di rara densità e concisione. In tal modo egli riesce anche a chiarire alcuni snodi della poetica bodiniana, come quando parla di “invenzione surrealistica attraverso la percezione realistica” o della “europea vocazione poetica e culturale di Bodini”.

            Ma dal commento e dalle note emerge anche un’interpretazione complessiva del primo libro poetico di Bodini,  al centro del quale c’è un motivo, quello del Sud, “un Sud tanto reale e vero quanto, da sempre, preistorico e straniato, che il poeta s’inventa come fatto nuovo di poesia”. In questo Sud “inventato” da Bodini, definito giustamente “iperonimo” del Salento, mito e storia, realtà e fantasia si fondono fino a farlo diventare  metafora di una tragica condizione umana. Strettamente collegato ad esso è il motivo dei difficili, contraddittori rapporti che legano il poeta alla sua terra, “un’heimat che a sé lo lega e lo condiziona” (“Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese / così sgradito da doverti amare”).

            Il simbolo di questa wast land, terra desolata e separata, è la luna, archetipo “materno-autobiografico e storico-antropologico”, la luna “borbonica”, maligna e matrigna, col viso “sfregiato” e “i capelli corti”, che al Sud mostra solo la nuca, mentre al Nord si manifesta in tutto il suo materno splendore. Così pure le “foglie di tabacco”, altro elemento caratterizzante della realtà salentina, diventano, proprio come i montaliani “ossi di seppia”, l’emblema di una vita arida e prosciugata, anzi di una non-vita, di una non-storia.

            Da questo pregevole lavoro insomma vengono confermati, una volta di più, tutta la qualità e lo spessore della poesia bodiniana. Ci auguriamo che d’ora in avanti non ci saranno più scuse per critici e antologisti frettolosi i quali,  sia pure a distanza di oltre mezzo secolo, dovranno finalmente  “accorgersi” di essa.

[In A.L. Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009]

Questa voce è stata pubblicata in Bodiniana, Letteratura, Recensione e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *