Vittorio Bodini, «Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970)

Nella sua Introduzione lo studioso ci informa che i primi contributi nel volume risalgono al periodo in cui l’autore, tornato a Lecce dopo il suo soggiorno a Firenze, aveva gestito con Oreste Macrì la terza pagina del settimanale leccese «Vedetta Mediterranea»: qui Bodini rielaborò parte delle letture affrontate durante l’esperienza fiorentina, tra cui Kafka, Proust e Joyce, cioè coloro che aprirono la strada al romanzo moderno. L’audacia dello studioso non riguardò solo l’aver trattato autori oggi ritenuti classici imprescindibili ma ai tempi non sufficientemente commentati, o addirittura non ancora totalmente tradotti, come Joyce, la cui opera era disponibile in italiano solo fino al Dedalus; Giannone evidenzia, infatti, come la breve esperienza di Bodini e Macrì in «Vedetta Mediterranea» si ascriverebbe anche alla scelta, in questo caso, di esporre autori discriminati per le loro origini ebraiche, e infatti la pagina venne chiusa dal partito fascista in breve tempo (cfr. p. 11). In Compianto di Joyce, scritto in occasione della morte dell’irlandese, Bodini individua già quella linea di progressione che va dai racconti dublinesi al Dedalus e che culminerà nello sconvolgimento stilistico operato nell’Ulisse: per il critico già nelle prime opere Joyce avrebbe compiuto un superamento di quel canone ottocentesco rappresentato da Maupassant, cioè di un «racconto obbediente alla duplice categoria del carattere e della situazione» (p. 37). Ciò che maggiormente interessa Bodini, però, non sono questioni puramente stilistiche, ma la capacità dimostrata dall’autore di saper cogliere le tensioni del suo tempo, cioè quello «sconvolgimento intervenuto nella coscienza moderna» di cui i suoi personaggi si fanno testimoni, in un «gioco neutro di occasioni» (p. 38). L’attenzione per questo tipo di scritture si conferma in Opinione su Poe e Kafka, che secondo Bodini sono accostabili per il tentativo di scandagliare il «mistero» di una medesima «legge metafisica»: in Poe essa si rintraccerebbe «ai margini estremi della sensibilità umana», dunque «alla periferia dell’essere» (cfr. pp. 41-42), mentre in Kafka al centro della questione non vi è più l’umano in sé ma il mistero della «moralità», cioè di una legge imperscrutabile e inaccessibile che nelle pagine del Processo e della Condanna diviene emanazione diretta di un Dio percepito «non più come Creatore ma come Giudice» (p. 44).

L’attività critica di Bodini non ha prodotto soltanto giudizi concilianti: se in una recensione a Lettere di una novizia di Guido Piovene l’autore lamentava un «diffuso costume» nella critica a lui contemporanea, cioè di «astenersi rigorosamente dall’indicare oltre tutto anche gli errori d’un libro» (p. 50), in un articolo intitolato Fontamara o della letteratura cafona le accuse sono rivolte direttamente a Ignazio Silone, colpevole di aver ostentato rispetto ai suoi umili personaggi una supposta superiorità morale; il giudizio finale di Bodini, secondo cui lo scrittore, nonostante i buoni propositi politici, non avrebbe fatto altro che nascondere nella sua opera «la compiacenza di sentire che, grazie al cielo, non rassomiglia a un cafone» (p. 54), può essere letto anche come un’implicita presa di posizione rispetto alle istanze neorealiste del dopoguerra.

Proprio questo articolo apre infatti una nuova fase, dal 1944 al 1946, anni in cui il poeta visse a Roma e cercò di sfruttare al meglio le occasioni di dialogo offerte dalla capitale: da qui in poi secondo Giannone «affiora sempre più chiaramente l’esigenza, di natura profondamente etica e civile, di un’apertura al reale, alla polis, alla comunità degli uomini» (p. 14) e «il rifiuto di una letteratura avulsa dal reale e dai problemi concreti della società», sebbene, ricorda lo stesso studioso, ciò non si declini mai in una concezione «documentaria della realtà, quale era quella neorealistica, né a proporre un engagement di tipo esclusivamente politico» (p. 20). Diventa sempre più urgente per Bodini trattare le opere esaminate in questo periodo non come fenomeni a sé stanti ma come conseguenze di un contesto culturale, quello del dopoguerra italiano, a suo parere penalizzato da contrasti interni destinati a rimanere marginali in ambito europeo: nel suo articolo La cultura tradizionale e la “giovane letteratura” lo studioso rintraccia una profonda diffidenza tra la frangia storico-idealistica e la nuova generazione ermetica, le quali altro non ottennero che «l’esilio in cui ciascuno era posto dal proprio tentativo di esiliare altrui» (p. 60). Questa contrapposizione irrisolta è, per il critico, tra i fattori maggiormente responsabili di un certo immobilismo nel panorama culturale italiano. Lo scrittore ne parla ancora in due articoli del periodo: se in Cinismo dei letterati la responsabilità del mancato rinnovamento letterario nel dopoguerra è da rintracciare nella «fitta cintura di inibizioni e di censure» innalzata dai «vigenti governi ed estetiche» (p. 86), in Mobili prospettive d’una letteratura l’autore auspica a una «rivoluzione letteraria» (p. 103) che tenga conto dei cambiamenti storici in atto. In questo periodo Bodini mostra un interesse crescente per le questioni riguardanti il binomio letteratura-società, come in Cultura Sottovetro, nel quale commenta il dibattito tra il liberale Bruno Romani e il marxista Giansiro Ferrata: se per il primo bisogna auspicare a una società che permetta a ogni individuo di coltivare la propria vocazione come «un fatto individuale», quindi escludendo qualsiasi operazione culturale indirizzata alle masse, Bodini rintraccia nell’impostazione idealistica di Romani (che parla appunto di «cultura in assoluto, pura», p. 77) un errore di fondo. Innanzitutto il critico smaschera le premesse del discorso partendo dal presupposto che il concetto di cultura ‘pura’ non esista, poiché essa è indissolubilmente legata al tempo in cui si manifesta; forse, polemizza Bodini, «al letterato Romani nessun’altra cultura interessa fuorché quella di chi esercita la professione di letterato», ricordando che se nella storia sono esistite epoche apparentemente più inclini all’arte come il Rinascimento, idealizzarlo come un’epoca pienamente aderente a criteri di perfezione formale vuol dire ignorarne la sua peculiarità, cioè la diversa estrazione sociale dei suoi artisti: «ma il Rinascimento era alla portata d’un tipografo e d’un ciabattino; il Rinascimento è, con buona pace del Romani, una civiltà impura» (p. 79). Bodini tratterà ancora l’argomento nella Lettera a Carmelo Bene sul barocco, qui ristampata per la prima volta dal 1970, anno in cui il grande attore e regista salentino pubblicò L’orecchio mancante: in questo scritto la concezione appena delineata di Rinascimento diventa per Bodini il baluardo di una critica, sempre di stampo storico-idealistica, che oppone al razionalismo e all’ordine classico un’idea negativa e degenere di Barocco; il critico invece, ancora oggi riconosciuto come uno dei massimi esperti in materia, compie una lectio brillante, e attraverso un percorso di più ampio respiro sul Barocco europeo, lo ridefinisce come «la grande alternativa al mondo classico», «una ricerca che mira a dar corpo al demone interiore» (p. 174), rintracciando in ciò un possibile legame con il Novecento.

Tornando al dibattito tra Romani e Ferrata, come avvenuto nella diatriba tra crociani ed ermetici, Bodini non patteggia per una o l’altra posizione, benché pur ammettendo che i marxisti non riuscirono a compiere il rinnovamento culturale previsto, andava apprezzato il loro sforzo di diffondere la cultura presso i ceti più umili. Il problema alla base però, osserva acutamente l’autore, resta il libero accesso alla cultura, al di là delle barriere economiche; Bodini si scaglia contro chi, come Romani, sosteneva posizioni aristocratiche, cioè i «mandarini laureatissimi che hanno avuto la vita facile e dei ben forniti scaffali a portata di mano» (ivi), individuando un nodo, quello delle disparità sociali, ancora oggi irrisolto e quindi attualissimo.

Un ultimo gruppo rilevante di scritti risale al biennio ’51-’52, in cui Bodini analizza due correnti letterarie da lui frequentate, cioè il futurismo e l’ermetismo, tanto che per Giannone questi articoli costituiscono «una sorta di esame di coscienza, un bilancio delle proprie esperienze letterarie fino a quel momento» (p. 25). In Antichi e nuovi “ismi” il critico individua i limiti delle due correnti, cioè la «copiosa ignoranza» che si celava dietro l’«antiaccademismo» dei futuristi e l’«esagerata cultura, giunta ad una fase di inflazione» che era propria degli ermetici (cfr. p. 121). Con questo Bodini non vuole escludere l’utilità delle scuole poetiche, poiché in esse possono affermarsi alcune personalità che, superando i limiti di quelle stesse scuole, possono produrre opere memorabili, come accaduto per Dante con lo stilnovismo, o per Ungaretti e Montale con l’ermetismo. Su Ungaretti, e in particolare sulle differenze tra il poeta e la scuola ermetica, Bodini tornerà in un articolo mai pubblicato in vita, Le vergini ermetiche: qui l’autore evidenzia come «l’oscurità non era consustanziale all’ermetismo» (p. 148), e che si potevano individuare due correnti, la «sinistra» di Bo, Luzi, Contini e Macrì, che rispondeva al criterio della «chiarezza», e la «destra» di Falqui e De Robertis, «a giustificare l’oscurità in nome di un’aura di nobiltà espressiva» (p. 148). Una posizione mediana e quindi ‘di centro’, secondo il critico, andava ricercata negli esponenti della rivista «Letteratura», come Quasimodo, Sinisgalli e lo stesso Ungaretti. In ogni caso, la disamina tra futurismo ed ermetismo si articola esaustivamente in All’insegna dell’Arte-Vita, che costituisce un’analisi allo specchio dei due movimenti al di là delle specifiche questioni letterarie. Da un lato i futuristi abolivano totalmente il legame intrinseco tra opera e critica, poiché incompatibile con l’atteggiamento dirompente e dissacrante con il quale attiravano le masse più insofferenti nei confronti della cultura istituzionale; in questo, annota splendidamente Bodini, i futuristi, «ben lontani dalla sapienza del grammatico D’Annunzio», rappresentarono il suo volgarizzamento, «la fabbricazione in serie a prezzi economici» che degenerò in una vera e propria «barbarie piccolo-borghese» (p. 129). Dall’altro lato si opponeva l’ermetismo con caratteri diametralmente opposti, come la preponderanza del «controllo critico» sull’esigua produzione letteraria e l’atteggiamento posato e aristocratico che escludeva automaticamente la partecipazione delle grandi masse.

Tuttavia lo spessore del Bodini critico non sta solo nella capacità di problematizzare in maniera personale e inedita i fenomeni culturali del suo tempo, poiché il rigore filologico si fa ancora più illuminante quando a esso si affianca l’umana sensibilità del poeta. Quest’ultima costituisce la chiave d’accesso per un mondo sotterraneo e umile, come il «gasista» che appare in Costa San Giorgio di Montale, che rappresenta una realtà urbana, misteriosa e impura; oppure le donne ‘antidannunziane’ di Gozzano, la cui poesia ricerca il «senso poetico dell’umile realtà» (p. 89), stessa qualità che torna ancora in Ungaretti, «uomo nudo sulla terra», la cui purezza funge però da slancio per articolare il suo «monologo di fronte all’Assoluto, scelto come unico interlocutore» (p. 112). Ancora Caproni, esaltato per la musicalità dei suoi versi, che «guardiamo andar solo pei suoi sentieri di solitudine» (p. 139), e infine Quasimodo, «il solo poeta civile che abbia avuto l’Italia della guerra e dell’occupazione», capace di «scendere col proprio dolore fino al dolore degli uomini, e far sentire loro che almeno una parola cercava di raggiungerli nello sgomento» (p. 157); figure di poeti in cui Bodini rintraccia, pur nelle differenze stilistiche e tematiche, una passione condivisa per la viva realtà degli uomini.

[Vittorio Bodini, «Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970), a cura di A. L. Giannone, Lecce, Besa Editrice, 2020. Pubblicato in: «Sinestesie», anno XXII – 2021]

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