Scritti su Giacomo Leopardi 4. Il libero arbitrio nel Dialogo filosofico di Leopardi

Quanto al contenuto del Dialogo, e in particolare all’argomento più significativo di esso, e cioè al libero arbitrio, la fonte a cui attinse il giovane Leopardi è l’opera in tre libri intitolata Dei fondamenti della religione e dei fonti dell’empietà del domenicano Antonino Valserchi, professore di teologia presso l’università di Padova, e in particolare il tema del capitolo sesto del primo libro che tratta Della libertà dell’uomo[7].

I protagonisti del Dialogo

In una ricca e florida città dell’Italia (…) trovasi un letterato sì per l’aspetto, che per l’età grave, e per i non mai tralasciati studi, sapiente, il quale (…) i lunghi giorni passava in seno alle Lettere, e tra le filosofiche meditazioni (…)“.

V’è quanto basta, almeno l’essenziale, per raffigurarvi il poeta.

Costui un giorno entra in una pubblica Bottega di libri e il libraio gli presenta un opuscolo da poco venuto in luce in fronte al quale si legge il titolo Analisi delle idee, libro giudicato dal letterato “il misero parto di un ingegno felice per sé medesimo, ma occupato da falsi principj e da pregiudicievoli opinioni“.

“Stava appunto in un angolo della Bottega (…) un giovane di nobili condizioni, dotato di spirito, ma guasto nel cuore, il quale dato erasi alla lettura di quei libri, che più frequentemente udìa nominarsi dalle bocche de’ libertini, onde poi nei Caffé, e ne’ pubblici ridotti facea pompa di superficiale erudizione, e di principj apparati alla scuola dell’ignoranza e dell’errore (…) conversando veniva sempre ad imbeversi nelle massime del libertinaggio”.

Da una parte il letterato – sapiente – che nella sua sapienza custodisce la Verità della Cristiana Religione, e dall’altra il libertino che deride la Fede dei semplici e condanna la superstizione dei Fedeli.

Ha inizio a questo punto una scolastica disputa metafisica intorno al principio “che è un inganno il credere l’Uomo dotato di libertà“, principio affermato dall’autore dell’opuscolo Analisi delle idee, ma non ragione sufficiente, secondo il Libertino, per far credere pernicioso l’intero opuscolo medesimo.

Se libertà significa – argomenta il letterato – vis electiva – secondo S. Tommaso, cioè facoltà di eleggere, e noi ogni giorno possiamo esperimentare che è nostra facoltà continuare un’azione o sospenderla, fino al punto di provare sdegno contro noi stessi, che altro è questo sentimento se non la viva cognizione che noi abbiamo della medesima libertà? Persino Rousseau, colui che chiama i dogmi del Vangelo ripugnanti alla ragione dell’Uomo, proprio grazie alla potenza della volontà e in particolare della facoltà di sceltà, si confessa libero, pur essendo con la sua dottrina fautore del libertinaggio.

Ambivalenze del libero arbitrio

Fondamento della tesi libertina è che non può esserci contrarietà di partiti e divisione di pareri intorno a un fatto chiaro ed evidente.  E’ però un fatto chiaro ed evidente l’intima natura di un pensiero ovvero è un inganno il credere che noi pensiamo? E conosciamo noi la causa certa dell’inerzia di corpi e quella dell’attrazione universale? Sono domande che ne generano una più complessa. E’ possibile che tutte le genti abbiano prestato il loro consenso a un errore? E può essere codesto consenso considerato una legge di natura? Che non sia possibile che tutti gli uomini si ingannino, è verità non sufficientemente manifesta; la si può negare o combattere ma, quel che è certo, essa ha bisogno di una dimostrazione. Il fatto che i sapienti filosofi dei secoli anteriori, con la loro autorità, abbiano riconosciuto la libertà dell’uomo, non è una buona ragione perché da tale principio venga oscurata o vanificata l’importanza delle scoperte di Copernico, di Newton, di Keplero, né ragione plausibile per credere che, togliendo il libero arbitrio all’uomo “(…) conviene accusare d’ingiustizia i sapienti legislatori, i più savi principi, e tutti insomma coloro, i quali puniscono i malfattori, e premiano i Virtuosi“, dal momento che l’uomo pecca disubbidendo alle leggi sia che le trasgredisca quando è libero e altresì quando è privo di libertà, perché la trasgressione avviene sempre per mancanza di esame e di riflessione. In altre parole la misura del merito e del demerito non subisce alterazione, se si toglie all’uomo la libertà.

Il tema della prescienza Divina

Il Dialogo è così giunto al momento dialettico più alto, e cioè al principio della prescienza Divina, chiamata in causa perché senza di essa la Divina Provvidenza distruggerebbe anziché comprovare l’umana libertà e l’Uomo non potrebbe chiamarsi libero.

Il Dialogo costituisce la prima fase della formazione intellettuale e dottrinaria di Leopardi, quasi un incunabulo, una culla dove egli ha riposto e custodito alcuni importanti ed essenziali temi ed elementi teorici del suo iter conoscitivo, attraverso il quale ha preparato l’impianto del suo sistema filosofico da cui è nato il Leopardi più grande.

Nell’argomentare i postulati della prescienza Divina, Leopardi si appropria di alcuni princìpi che resteranno saldi nel suo sistema, come per esempio la consapevolezza che il pensiero entra non più per natura ma per ragione in tutti i campi dello scibile umano con tutta la sua virtualità e, per esso, la perfezione maggiore dell’Uomo è soltanto quella di conoscere l’importanza e il danno della ragione medesima. Per averne conferma si leggano nello Zibaldone i primi pensieri di analisi critica e razionale del Genesi.

Intanto osserviamo che il concetto, già familiare al giovane recanatese, della diversità tra la filosofia antica, fondata sulla sapienza e sulla ricerca del vero, e la filosofia moderna, fondata sulla scienza e perciò tesa a sradicare errori e pregiudizi, rende Leopardi consapevole di vivere in un’età decisiva per lo sviluppo dello spirito umano. Di qui viene l’obbligo di privilegiare le idee e tutto ciò che trova una giustificazione dinanzi alla ragione. Quale occasione più conforme a tal fine di una disputa intorno al libero arbitrio? Vale a dire intorno a un problema immane che ha oscillato nei secoli tra il disprezzo luterano della ragione umana, come di qualcosa di integralmente corrotto e impotente, disprezzo degenerato poi nella casistica del giudizio di approvazione o di disapprovazione morale che ha favorito l’indifferenza degli spiriti e finanche l’arretramento delle questioni religiose, e lo spirito erasmiano che invece esalta, nella vivente spiritualità che anima i testi sacri, la presenza della pacata saggezza della medesima ragione umana persino nella sfera pagana. Perciò il giovane Leopardi non arretra di fronte all’insidia dogmatica, consapevole di svolgere nel suo tempo un compito critico di alto livello intellettuale.

Il postulato è che la libertà umana non può affatto accordarsi con i decreti divini e con l’infallibile Divina prescienza. Leopardi rinviene nell’Analisi delle idee ad uso della Gioventù -e riporta in nota nel suo Dialogo filosofico– il seguente argomento (a convalida, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia stata dannosa agli studi leopardiani la mancata edizione delle note): “1) Gli effetti sono essi prodotti dalla causa o dalla cognizione della causa? Sceso il Sole al disotto dell’orizzonte sorge la notte; ma sorge forse perché gli uomini l’avevan preveduto, o per la mancanza del Sole? (…)“. Seguono altri esempi conformi al caso. Nell’esempio il Letterato enuncia la cognizione della causa e la causa, cioè diversifica il ruolo della prima, il sorgere della notte come effetto della determinazione della conoscenza dell’Uomo, dal ruolo della seconda, la mancanza del Sole, come effetto della determinazione della prescienza Divina sottratta alla comprensione umana perchè soltanto dalla Causa, cioè dall’insondabile entità suprema possono essere determinati gli effetti, anche se questa cognizione per nulla propriamente influisce sugli effetti medesimi. Il Libertino tuttavia non demorde e resta fermo nella sua opinione secondo la quale (…) l’umana libertà non consiste in altro che nella ignoranza in cui sono gli Uomini circa la vera causa che li spinge ad operare“, che ci sembra il postulato più vicino alla verità, e certamente quello più caro a Leopardi, se si pensa che anche le idee e i nostri giudizi non si sottraggono all’influenza esercitata dagli oggetti esterni sui nostri organi sensori; anche uno stato di assoluta indifferenza ed equilibrio ci renderebbe liberi, perché la naturale ricerca della felicità tornerebbe a turbarci.

Allora noi possiamo leggere nel pensiero di Leopardi un aspetto nuovo della libertà, nel senso che l’uomo non può dimostrare né di essere sottoposto dalla natura al dominio della necessità né dalla storia né dalla società e perciò deve restare nella sfera dell’incertezza dalla quale si genera una nuova forma di libertà. Quando difatti viene il momento della scelta, allora ciascuno di noi compirà un atto libero e nuovo a patto che si sia consapevoli che il nostro atto si risolve in un’aggiunta al mondo e in una modifica dello stato di cose, cioè in un’azione che nessuno di noi ha potuto e può prevedere come nel mistero della prescienza Divina.

“(…) Ben conosco di aver presa a sostenere una causa debbolissima (così nell’originale) a fronte di un fortissimo avversario. Andrò però consolandomi della mia sconfitta in quel modo in cui sarassi consolato Annibale, col pensiero cioè di non aver ceduto che ad uno Scipione. Sorrise a queste parole il letterato il quale avvedutosi, che il Sole aveva già di non poco oltrepassato il meriggio, lietamente accomiatossi dal Giovane gentiluomo inviandosi poi frettoloso a desinare al domestico albergo“.

Sono le ultime parole del Dialogo filosofico. Tra di esse affiorano le ombre di due grandi anime antiche, non sapienti ma uomini d’azione: Annibale e Scipione. Per essi uomini di potere, che hanno avuto un ruolo nella storia, il libero arbitrio è come uno scrigno che custodisce il mistero dell’esistenza, con la sua imprevedibilità nella vita, nella morte, nella felicità dell’uomo: un impero crolla, un altro si consolida. Tutto questo va letto nell’opuscolo leopardiano.

[Il libero arbitrio nel Dialogo filosofico di Leopardi, in “la Città”, Anno V n. 3 – 1997, p. 3]

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