Università: l’inganno delle classifiche

Molto spesso sono costruite su indicatori che fanno risultare ciò che i committenti vogliono far risultare. Alcuni esempi. La prima graduatoria delle università mondiali fu prodotta nel 2003 ed è nota come la classifica di Shangai. Lì, tra i vari criteri, si pesano le Università sulla base del numero di Premi Nobel ricevuti dai docenti e dagli ex alunni, nonché le medaglie Fields per i ricercatori di matematica. Curiosamente non si prendono in considerazione i Premi Nobel per la letteratura. La classifica c.d. QS si basa per ben il 50% su variabili reputazionali: per esempio, in modo autoreferenziale, si chiede ai professori di indicare, a loro avviso, quali sono le Università che, nel loro ambito disciplinare, considerano più prestigiose. Da sola questa voce pesa per il 40% nella classifica, a cui va aggiunto un 10% legato al sondaggio presso i datori di lavoro. La classifica QS è nota, fra gli addetti ai lavori, per presentare risultati estremamente volatili: p.e. fra il 2014 e il 2015 – in un solo anno – l’Università di Siena ha perso ben 221 posizioni. Ciò non aveva a che fare con l’effettiva qualità dell’ateneo: erano semplicemente cambiate le formule usate per normalizzare gli indicatori. Inutile dire che perdite o guadagni sensibili sono sempre sospetti perché il posizionamento di una istituzione dovrebbe rimanere relativamente stabile negli anni. Le metodologie utilizzate, inoltre, ignorano del tutto i punti di partenza, la storia delle sedi universitarie e il loro patrimonio.

È sufficiente considerare che le sole Università di Harvard e Yale, negli Stati Uniti, hanno spese operative pari a circa il 75% del Fondo di finanziamento ordinario di tutte le Università pubbliche italiane, per dar conto della scarsissima attendibilità dei “ranking”.Nello scegliere dove studiare sembra che le famiglie meridionali si orientino verso qualcosa che somiglia più a un centro per l’impiego che a un luogo nel quale si produce e si trasmette cultura e conoscenza scientifica. Il meccanismo è perverso e si autoalimenta. In un contesto di concorrenza fra sedi universitarie e di continuo definanziamento, l’obiettivo di ogni Ateneo è attrarre studenti. Le classifiche – ancorché prive di senso – orientano in modo rilevante la ripartizione dei fondi e, per conseguenza, contribuiscono in modo rilevante alla perdita di fondi e di reputazione delle sedi meridionali. La fuga di giovani verso il Nord viene così accentuata. L’aumento degli iscritti nelle sedi settentrionali consente a queste ultime di ricevere, in termini relativi, maggiori finanziamenti (che vanno ad aggiungersi ai finanziamenti che riescono a reperire da privati – cosa pressoché impossibile al Sud).

Non stupisce, in questo scenario, il fatto che a più riprese alcuni docenti universitari del Nord consulenti dell’agenzia nazionale di valutazione della ricerca chiedano la chiusura di sedi meridionali o un loro significativo ridimensionamento. È un gioco a somma zero dove la competizione fra Atenei crea vincitori e vinti ogni strumento utile per acquisire risorse (e dunque per sottrarle ad altri) è ammesso. Molto spesso, o quasi sempre, a danno del Mezzogiorno e delle famiglie meridionali costrette a sostenere spese ingenti per iscrivere i loro figli in Università che di fatto non sono migliori di quelle sotto casa, ma che tali risultano per l’arbitraria selezione degli indicatori che dovrebbero certificare la reputazione di una sede universitaria.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 12 luglio 2022]

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