Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XLIII

***

Visioni della città 1. Le strade che penetrano in città sono lunghe a volte più di un chilometro, dalle ultime case della periferia fino alla porta antica che immette nel centro storico chiuso al traffico. Percorrerne una passando tra palazzi a più piani, intervallati da case basse, quartiere dopo quartiere, da quelli più recenti a quelli più vecchi, dagli ultimi edifici costruiti nel nuovo millennio a quelli del secolo XIX, significa fare, a ritroso, la storia dell’ultimo secolo e mezzo e anche più. Un giorno, tanti anni fa, l’urbanizzazione tracimò extra moenia e da allora la marea non si è più arrestata, dirigendosi impetuosa lungo gli assi viari che portano fuori città, a ridosso dei quali sono sorti i numerosi quartieri.

Lungo il mio percorso nulla è rimasto com’è nato. Il segreto della città è nella sua mutevolezza; essa cambia ogni anno, ogni mese, ogni giorno, a causa dell’attività irrefrenabile dell’uomo, che continuamente sopraeleva, aggiunge, ritinteggia, modifica, abbatte e riedifica. Pertanto, è difficile per esempio individuare il segmento del mio percorso appartenuto agli anni Cinquanta del secolo scorso, perché nel frattempo interi edifici di quel decennio sono stati demoliti e al loro posto i proprietari hanno costruito case nello stile avveniristico del nuovo secolo. Inoltre, le numerose ristrutturazioni hanno reso irriconoscibili molti edifici. Lungo la strada che penetra direttamente in città, ritorno indietro nel tempo tra grandi difficoltà, pensando a cosa c’era una volta in quello spazio ora occupato da un edificio nuovissimo. Laddove la memoria non mi sovvenga, faccio appello alle mie poche nozioni di architettura per distinguere l’originale dal posticcio. Una serliana al massimo può essere stata costruita negli anni Quaranta, la piccola casa con verandina chiusa da una ringhiera è degli anni Cinquanta, un alto palazzo a più piani è dei Sessanta e Settanta, ecc. Il percorso cronologico à rebours diventa così accidentato, che alla fine, se voglio essere certo del posto preciso in cui mi trovo sulla linea del tempo, devo fissare lo sguardo – nel mio andare – sugli edifici che, a dispetto di quelli nuovissimi che li affiancano, sono rimasti intonsi, nessuno li ha mai ristrutturati e dunque appaiono piuttosto malmessi, a volte addirittura fatiscenti. Ma che tocco di verità, in essi! Faccio come il filologo che collaziona antiche pergamene per ricostruire il testo autentico di un’opera. Collaziono case e solo poche mi certificano della mia esatta posizione nella cronologia del tempo-spazio cittadino! Così mi spiego come mai, durante le ultime nostre passeggiate in auto, mio padre più che ottantenne non riconoscesse le vie della sua città, nella quale aveva abitato per un’intera vita. E già io stesso, in qualche caso, cioè quando mi avventuro in strade poco frequentate, avverto un senso di estraneità…

Finalmente arrivo davanti alla porta settecentesca del borgo antico – per di qua entrava un tempo il viandante che veniva dal contado -, al di là della quale stanno ammucchiati e rinchiusi i secoli dal XV al XVIII, con le loro glorie e le loro miserie.

***

La città è una cosa naturale. “Risulta evidente che la Città fa parte delle cose che esistono per natura, che l’uomo è per natura un animale politico e che colui che non ha città, per natura e non per caso, o è un da poco o è più che un uomo”.

Aristotele, Politica, a cura di F. Ferri, Bompiani, Milano 2016, p. 77.

***

Visioni della città 2. La via del nuovo millennio, la circonvallazione, bypassa i quartieri cresciuti a ridosso degli assi viari che portano fuori città e mi fa fare un largo giro in mezzo alle campagne, fuori dall’abitato. Si va veloci, ma la strada è larga e la visibilità ottima, il pericolo connesso all’accesso da strade secondarie ridotto al minimo. Pertanto nulla impedisce la vista della città, oltre i coltivi, gratificata dalla massicciata.

La città appare in lontananza come un cumulo di case aggrappate l’una all’altra: palazzi, chiese, edifici pubblici e privati, ecc. sono una massa variegata e compatta, un coacervo di corpi poliedrici che il colpo d’occhio del veloce passeggero non riesce a districare, una concentrazione di spazio e tempo impossibile da dividere né su un asse cartesiano né su una linea temporale. Per un istante penso che così, da lontano, doveva vedere la città il viandante che veniva dal contado nei secoli scorsi, senonché allora la massa urbana era molto più piccola rispetto alla presente. Spiccano tra il biancore degli edifici alcune costruzioni più alte delle altre. Dalla strada che gira in tondo sarebbe impossibile seguire il trascorrere degli anni e dei decenni. È lo skyline cittadino che la circonvallazione sottrae alle nostre ossessive misurazioni, annullando la dimensione cronologia dell’urbanistica cittadina. Vedo tante case, ma non so a quale tempo appartengano o se veramente un tempo appartenga a loro; tanto che mi chiedo se la visione della città dalla circonvallazione non sia una pura illusione ottica, una fata morgana.

***

Libertà. Non capisco la parola libertà se non come la prima delle tre parole d’ordine della rivoluzione francese: liberté, égalité, fraternité. Principi sacrosanti quanto velleitari, parole vuote di contenuti precisi, di obiettivi attuabili e di realtà verificabili. La libertà come diritto inalienabile dell’uomo al pari degli altri diritti per cui gli uomini combattono e muoiono, sacrificandosi a un potere che li concede per brevi periodi, quando teme la rivolta e l’odio delle masse, e poi subito li revoca: in caso di guerra, contro la minaccia terroristica, per un’emergenza sanitaria. Ma quando nella storia dell’uomo non c’è stata la guerra, quando il terrore non ha attanagliato il cuore degli uomini, quando le malattie non hanno flagellato l’umanità? L’uomo non è mai stato al sicuro! Pertanto, quando qualcuno mi parla di libertà, dentro di me il diapason mi avverte d’una nota stonata, il che non mi accade mai quando sento pronunciare, al posto della parola libertà, la parola necessità.

***

Il tempo passa in fretta. Quando noi diciamo che il tempo passa in fretta, in realtà constatiamo il fatto inequivocabile che noi passiamo in fretta. Diciamo che il tempo passa in fretta perché non abbiamo il coraggio di ammettere che noi siamo esseri transeunti e che il tempo è una categoria astratta che noi abbiamo inventato. La pietra, l’albero, l’animale – che non hanno un punto di vista umano – non hanno la nozione del tempo e dunque per essi il tempo non passa. Noi invece diciamo che il tempo passa in fretta, perché noi abbiamo inventato il tempo e vi ci siamo sottomessi. Pertanto, nel tempo noi dobbiamo riconoscere una strategia del potere umano, utilizzata al fine di infondere nell’uomo la nozione del suo essere a tempo, un tempo che passa in fretta e che conduce alla morte, di cui bisogna aver paura. E la paura, come si sa, è il principale strumento che il potere ha per tenere sottomessi gli uomini.

***

L’artista e i suoi demoni. Ingmar Bergman, L’ora del lupo (1968), mette in scena le vicende di Johan, un artista affermato, che deve fare i conti con i suoi demoni. Gli uomini del castello si presentano come i suoi ammiratori, ma presto Johan li riconoscerà come “i mangiatori di uomini”. Gli ammiratori si trasformano in persecutori. Si confronti questa vicenda con quella, già menzionata in questo Zibaldone, raccontata in Misery non deve morire, un film di Bob Reiner del 1990: la psicopatica Annie Wilkes, da ammiratrice dello scrittore famoso Paul Sheldon, si trasforma in una “mangiatrice di uomini”, imprigionando lo scrittore col chiaro intento di condizionarne l’opera, che è quanto dire di fagocitarlo.

***

Infinito e indefinito secondo René Descartes. “Chiameremo queste cose indefinite, piuttosto che infinite, sia per riservare la definizione di infinito a Dio solo, perché in lui solo e da ogni parte non solamente non vediamo alcun limite, ma comprendiamo anche che positivamente non ne esiste alcuno; sia anche perché non comprendiamo positivamente in alcun modo che le altre cose manchino di limiti da qualche parte, ma ammettiamo solamente in senso negativo i loro limiti, se ne abbiano, che non possiamo trovare da noi.” (René Descartes, Principi di filosofia, a cura di Eugenio Garin, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 35).

Discutendo con il signor Caterus, Descartes scrive: “ … dirò qui, in primo luogo, che l’infinito, in quanto infinito, non è, a dire il vero, compreso, ma che, tuttavia, esso è inteso; poiché intendere chiaramente e distintamente che una cosa è tale che non vi si possano trovare dei limiti, è intendere chiaramente che essa è infinita. E io pongo qui distinzione tra infinito e indefinito. E non v’è nulla che io chiami propriamente infinito, se non ciò, in cui da tutte le parti non trovo limiti; nel qual senso Dio solo è infinito. Ma le cose delle quali, sotto qualche considerazione solamente, non vedo fine, come l’estensione degli spazi immaginari, la moltitudine dei numeri, la divisibilità delle parti della quantità, e altre cose simili, le chiamo indefinite e non infinite, poiché non da tutte le parti esse sono senza fine e senza limiti.”  (René Descartes, Meditazioni metafisiche. Obbiezioni risposte, in Opere filosofiche II, a cura di Eugenio Garin, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 107).

“… non dico che il mondo è infinito, ma soltanto indefinito. In ciò vi è una differenza notevole: per dire che una cosa è infinita, infatti, bisogna avere qualche ragione che la faccia conoscere come tale, cosa che si può avere solo da Dio; per dire che è indefinita, invece, è sufficiente non avere alcuna ragione con cui si possa provare che abbia dei limiti. Così, mi sembra che non si possa provare, e neppure concepire, che vi siano dei limiti nella materia di cui il mondo è composto. (…) Non avendo, dunque, alcuna ragione per provare e neppure potendo concepire che il mondo abbia dei limiti, lo chiamo indefinito. Tuttavia, non posso negare, per questo, che vi siano forse alcuni limiti conosciuti da Dio, benché mi siano incomprensibili: ecco perché non dico in modo assoluto che è infinito.” (René Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2005, p. 2469).

Questa voce è stata pubblicata in Zibaldone galatinese di Gianluca Virgilio e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *