Se anche la letteratura può salvare il mondo

La letteratura non serve a niente. Se non a “formulare una domanda complessa nella forma più complessa possibile, dice Cercas, senza mai dare “una risposta univoca, chiara: le risposte dei romanzi sono poliedriche, ambigue, contraddittorie”. Allora, forse la letteratura può servire soltanto a creare disagio, a mettere in crisi, a provocare insonnie o a svegliare chi dorme e non dovrebbe dormire, a scagliare domande, a scompigliare certezze, a fare confusione tra le cose che sembrano ordinate e che invece sono soltanto incrostate di consuetudini, che sono stratificazioni di modi di pensare, di fare.

La letteratura non serve a niente. Forse può soltanto servire a ridefinire il definito, a mettere a soqquadro le comuni opinioni, a insinuare dubbi, scoperchiare problemi,  incitare il pensiero, scombinare le certezze ( come se, per questo, la realtà non fosse già sufficiente).

A trasformare coscienze, si diceva poche righe prima. Certo, si possono nutrire molti dubbi sul fatto che la letteratura, che è fatta di parole, abbia la possibilità di trasformare le coscienze. Però ci si deve anche chiedere quale possa essere l’alternativa. La risposta più facile è costituita dal verbo agire. Ma qualsiasi agire è subordinato ad una presa di coscienza e ad una conseguente assunzione di responsabilità. Per cui si ritorna alla condizione della trasformazione delle coscienze senza la quale nessuna trasformazione risulta possibile. Se non si trasforma la coscienza non si può agire in modo da eliminare, o ridurre, l’inquinamento delle acque, dell’aria, del suolo, per esempio, non si possono compiere scelte che  eliminano, o riducano, la carestia che annienta certe zone del mondo.    

La letteratura non serve a niente. Forse serve soltanto a raccontarci che ci sono gli altri: altre storie, altre condizioni, altri modi di esistere. Forse serve a proporre ipotesi sul modo in cui saremo domani tessendo storie su come siamo oggi e su come siamo stati in un recente o lontano passato.  Serve a mostrare le ferite superficiali o profonde dei tempi, a rappresentare le maschere che gli uomini indossano o hanno indossato, a mettere in scena le farse e le tragedie, le sfortune e le fortune, le ricchezze  e le miserie, i vizi e le virtù, le infelicità e le passioni. Forse la letteratura è un’indagine complicata sui grovigli della Storia, sui destini di coloro che si agitano nei grovigli. Forse serve a far capire che ogni interpretazione della Storia è sempre dubitabile, sempre precaria, che le conclusioni a cui si arriva nei processi di interpretazione non sono mai definitive, sono sempre esposte alla ridefinizione, alla revisione, alla smentita.  

La letteratura non serve a niente: ma ci deve pur essere una qualche ragione se gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo ne hanno avvertito il bisogno. Si deve pur tentare di capire che cosa hanno cercato nella letteratura del loro tempo, in quella del tempo passato, quali risposte alle loro domande, quali decifrazioni delle loro emozioni. Nel corso di una conferenza sugli esuli tenuta a Vienna nel dicembre del 1987, Josif Brodski disse che la letteratura “è un dizionario, un compendio di significati per questo o quel destino umano, per questa o quella esperienza. E’ un dizionario della lingua nella quale la vita parla all’uomo”.

Ecco, dunque. Magari il motivo è proprio questo. Magari gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo hanno avuto bisogno di una letteratura per avere a disposizione uno strumento di comparazione dei loro destini, per poter rintracciare in quel dizionario i significati della loro esistenza, della loro esperienza di attraversamento del  tempo. Per poter comprendere se la valanga di interrogativi da cui spesso sono travolti, in precedenza ha travolto anche altri.   Magari il motivo è proprio questo. 

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 17 luglio 2022]

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