Opus tessellatum 8. Il profeta Giona

di Antonio Devicienti

(Ogni notte, non visti e non uditi, i Salentini ormai privati del corpo, MA NON DELLA  LORO MEMORIA TERRESTRE, fanno ritorno nei luoghi fascinanti: Leuca de Finibus Terrae, la Centopietre di Patù, i pochi ruderi di Casole, le mura di Castro alta, la Cappella di San Paolo a Galatina … )

(Parla Claudia Ruggeri, commossa dalla bellezza selvaggia e apparentemente caotica dell’opus di Pantaleone, s’inginocchia in una porzione dietro l’altare, tocca il pavimento con evanescenti, inesistenti dita).

«La pianta di ricino, eccola, e Ninive grande città; Giona nel ventre del pesce sul fondo del mare e l’urto del singulto che lo rigetta a riva.

Il cielo riversato nella terra e nel mare e i mosaicisti organando a schiere.

I pesci, l’acqua e la città da convertire al bene. Un’umile pianta di ricino (eccola!),  un matto e un attore e il suono del silenzio dal fondo del mare.

Un ventre (di pesce di balena di mare di deserto) che divora o che accoglie, che distrugge o che rigenera, un ardere di vento che secca.

E non ci si perde in questa grande scacchiera dell’essere, in questo precipitare a testa in giù, ma pesci o piante di ricino si nuota, si germoglia sentendo i passi dei bimbi sul ventre e sulla testa.

Artù temerario e solenne, basilisco dai mille colori, asino di Apuleio, gatto calzato, monaco e unicorno.

Se ci fosse un posto per me nel tappeto di mosaico sarebbe proprio tra bordo della nave e superficie marina, volo della mente e grazia profonda degli abissi».

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