Inchiostri 2. Su di una fotodi Marina Ballo Charmet

di Antonio Devicienti

Con vocabolo viziato di pregiudizio chiamiamo “erbacce” quelle piante spontanee e indesiderate che, diciamo inoltre rincalzando l’espressione spregiativa, “infestano” un prato o un giardino.

Dimentichiamo che semi, spore e radici ignorano bellamente l’artificiosità e l’artificialità di quei parametri che vorrebbero normare (“normalizzare”) presenza, forma e distribuzione delle piante.

Marina Ballo Charmet fotografa porzioni di marciapiede o di asfalto che cadono sotto il nostro frettoloso sguardo di pedoni in una strada urbana e che, invece, dovrebbero attrarre l’attenzione perché dicono o di un qualcosa di perturbante (l’erba, cresciuta in una crepa del marciapiede, appare estranea, “fuori luogo”, disturbante) o di apparentemente laido (l’erbaccia, il margine fessurato, l’asfalto sollevato contraddicono il preteso ordine e la pretesa pulizia e decenza che dovrebbero, invece, regnare).

La “coda dell’occhio” coglie e accoglie l’inguardabile, il trascurato, il fuori luogo, quello che, pur appartenendo alla più frequente “normalità”, viene invece rimosso e ignorato.

Non si tratta di attenzione al particolare, ma all’inapparente e all’imperdonabile (ovviamente rubo l’espressione a Cristina Campo) e che appare, nell’inaspettata simmetria di un angolo di marciapiede, indiscutibile diritto all’esistenza.

Forse è distrazione, forse è trascuratezza, forse è indifferenza quella che lascia un marciapiede fessurarsi e rendersi disponibile a una disseminazione spontanea; resta il fatto che lo sguardo ospitale di Marina Ballo Charmet si ferma, fotografa, restituisce valore a quella disseminazione che è mescidanza, contaminazione, ininterrotto divenire.

Il riferimento bibliografico è Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia edito da Quodlibet nel 2017 e nel 2021.

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