Girolamo Comi e Arturo Onofri: la “Parola-Verbo” (II Parte)

di Antonio Lucio Giannone

Ma andiamo con ordine. Intanto entrambi partono dal rifiuto della poesia basata sull’«impressionismo estetico», sull’«esasperata angosciante sensibilità soggettiva»[1], quella cioè che mette al centro del proprio interesse l’io, le angosce individuali, le inquietudini esistenziali e a cui corrisponde la «frammentarietà incoerente della visione del mondo»[2]. In effetti qui ci troviamo davanti a due poeti che hanno raggiunto certezze assolute, possiedono ormai una verità, che ritengono loro compito comunicare agli altri attraverso la poesia, perché la parola poetica deve svolgere una funzione di salvezza e di redenzione per l’umanità e il mondo intero.

            Per Onofri la poesia non deve essere più «strumento di manifestazione estetico-personale» (NR, p. 147) e il poeta non deve più «esprimere con la parola se stesso, come uomo singolo vivente una certa vita, cioè il suo proprio io egoistico», ma deve invece «arrivare a manifestare, ad esprimere il mondo oggettivo nella sua essenza spirituale» (NR, p.128)[3], deve insomma «non più esprimersi, ma esprimere  assolutamente»  (NR, p.128). Da qui la definizione che Onofri dà di «arte dell’Io» (con la lettera maiuscola, inteso cioè come Io cosmico, universale, come il «vero Io, che è il Cristo nell’uomo»; NR, p.71). Questa deve manifestare «con altri intenti ed altra tecnica l’interiorità umana non più soggettiva, psicologica, personale, bensì oggettiva, cosmica, individuale, la quale esprime assolutamente se stessa, ed esprimendo se stessa fuori dell’uomo, esprime insieme la vita dell’universo» (NR, p. 209). E di «Arte dell’io», e questa è già la prima coincidenza che si può notare,  parlerà, non a caso, Comi nella dichiarazione poetica che figura in un foglio a parte  inserito nella raccolta Boschività sotterra (1927)[4].

            Anche per il poeta salentino  l’attuazione dello stato poetico «è subordinato al superamento totale di certi compiacimenti estetici e cerebrali, e in generale, di tutte quelle cristallizzazioni parassitarie specifiche di natura critico-storico-letteraria che costituiscono il patrimonio tradizionale del più modesto uomo di lettere» (NSP, p. 21). Non si può confondere, sostiene ancora Comi, poesia con letteratura, perché questa «partecipa d’ufficio dell’ingranaggio sociale amministrativo del potere temporale» (NSP, p. 16), è legata cioè alle contingenze pratiche della vita d’ogni giorno e risente quindi di interessi, bisogni, ambizioni di natura privata. Non a caso i due poeti rifiutano  il mestiere del letterato, e quindi anche la perizia, la tecnica, che sono puri espedienti esteriori se non sono sostenuti e rinvigoriti da una ben altra coscienza.

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