Non abbiamo memoria personale, non abbiamo memoria collettiva. Oppure ricordiamo soltanto
quello che ci fa comodo, trasformandolo in atmosfera che ci spensiera, ci distrae dalla
realtà, ci fa mitizzare una parte di passato e dimenticare tutto il resto.
Una civiltà
senza memoria è superficiale: manca di quella stratificazione di concetti e di significati che
consente di comprenderne la Storia, le cause delle situazioni in cui si trova, degli
effetti che quelle situazioni possono produrre, dei rimedi da adottare per
risolverle.
Una civiltà
senza memoria si ritrova a dover improvvisare giorno dopo giorno i modi per far fronte ai
problemi che le si pongono da ogni parte. Ma le soluzioni improvvisate non sono mai durature, per
cui poi i problemi si ripresentano con l’ulteriore peso delle mancate o inadeguate soluzioni, e
accerchiano, e pongono l’assedio.
Allora,
talvolta, oltre che guardarsi intorno, è necessario saper guardare indietro. Ogni progresso da
cui il presente trae vantaggio deriva dal passato. Sempre.
Quasi sempre la perdita della memoria è determinata da una indifferenza nei confronti della Storia. A volte non si tratta di ignoranza della Storia, ma proprio di indifferenza, di disinteresse. Soprattutto di insensibilità. Noi non abbiamo più una sensibilità nei confronti della Storia, nemmeno nei confronti di quella più recente. Ci aggiriamo indaffarati in un presente che pensiamo si sia generato così, improvvisamente, dal niente. E’ come se qualsiasi fenomeno accadesse casualmente, non avesse ragioni, radici.
Ha detto Eric J. Hobsbawm che “la distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono”. Ecco. Probabilmente il grande impegno culturale che questa civiltà deve assumere, il grande lavoro che deve fare consiste nella ricostruzione dei meccanismi che integrano le esperienze delle generazioni, nella ricomposizione di un rapporto organico con il passato storico. Perché questo possa accadere occorre una nuova sensibilità nei confronti della Storia, una nuova e forse più profonda consapevolezza della funzione essenziale che la memoria assume per un uomo e per una civiltà. Senza memoria, per ogni cosa da fare si deve ricominciare sempre daccapo e, quando si ricomincia ogni volta daccapo, non c’è sviluppo, non c’è progresso, non c’è evoluzione. Perché sviluppo, progresso, evoluzione si fondano su quello che è venuto prima e che ha lasciato traccia, resistendo all’infuriare del tempo, all’erosione che fa l’oblio.
Ogni progresso è lo sviluppo, il perfezionamento di un modello. Il linguaggio, per esempio. L’evoluzione della specie. Ogni progresso matura nella conoscenza della Storia. L’altro, quello che non matura nei campi della Storia, è materia che non dura.
Ogni contemporaneità arriva sempre ad un punto in cui deve decidere che cosa vuole che resti della sua esperienza. Forse la nostra contemporaneità è arrivata a quel punto. Forse adesso è il tempo in cui deve decidere se al futuro vuole consegnare un’esperienza di profondità e di consistenza o un’esperienza di inconsistente superficialità.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 6 novembre 2022]