Per una politica interartistica dalla scrittura di Paolo Vincenti

Mi rendo conto di essermi messo in un percorso dal quale potrei non sapere uscire – anche perché costretto ad analizzare qui una raccolta di pezzi già pubblicati tra il 2010 e il 2013, su cui di certo sono già stati svolti autorevoli commenti coi quali dovrei confrontarmi e chissà se non anche essere costretto a qualche distinzione di troppo, mentre non mi sfugge che sul profilo dell’Autore, datato venti-venti, non risulta ancora alcun aggiornamento, essendo stato detto di lui l’ultima volta nel 2019. E per un Autore come Vincenti, che corre col cronometro al polso, un anno – peraltro sgomitolato nel suo tempo – è giusto l’equivalente di un vuoto percepito come colpa: nessuna pagina scritta, un moncone di matita smozzicata e quaderni lasciati intonsi. Come misurarli – e darne conto, in un bilancio letterario – per considerare in maniera opportuna e rispettosa del sentimento aggrovigliato della sua frustrazione provocata dal silenzio stampa, aggravata oggi dall’attesa che il commentatore di turno gli consegni due-tre cartelle per un approccio argomentato alla sua ultima pubblicazione che poi non è neanche l’ultima, considerato che qui vengono proposte pagine già pubblicate, giusto con qualche ritocco, qua e là – e qualche aggiunta di inediti coevi. Ed è proprio su questa ri-scrittura che occorrerebbe forse riflettere per far emergere qualche tratto veramente inedito dell’avventura scrittoria di Vincenti, il cui profilo di letterato impegnato non risulta adeguatamente scandagliato, né pienamente connesso alle sue strategie scrittorie. Mi assale un dubbio – e cioè che tutto ciò che si è venuto fin qui scrivendo su Vincenti, col rischio di continuare a sentirne l’eco negli anni a venire –, potrebbe corrispondere a quello che si potrebbe dire (grosso modo) di un qualunque altro autore che vien riempiendo l’Olimpo nostrano – salentino e artigianale – in cui restano inespresse e sostanzialmente inascoltate le voci dei diversi Autori registrati all’anagrafe del concreto mondo della poesia che non può essere imbrigliata in categorie regionali, e altrettanto dev’esser fatto valere  per le proposte di lettura critica, qui destinate ancora alla bottega del rigattiere.

Tutti omologati, insomma, in un codice espositivo che esce dalla loro poesia e che, nel commento,  si fa prosa – di volta in volta in forma di diagnosi letteraria o come filtro filosofico che lascia intravvedere visioni del mondo, comunque riconoscendo  di un tale lavoro – che è tanto creativo quanto eseguito in un modo che risente dell’artigianalità propria delle periferie – quel tocco di dignità antropica, prodotto proprio dal coinvolgimento interattivo di energie che più umane non si possono immaginare, colte nel rimescolamento consapevole di attori che ci mettono la faccia o che sottoscrivono atti comunque letterari – sostenuti da non so quale dio minore.

Dovremmo tutti persuaderci, allora – tornando alla circostanza della pubblicazione del volume Al mercato dell’usato – che Vincenti non è un’isola né sono arcipelago i suoi commentatori. Si dovrebbe convenire, pensando alle tante pubblicazioni di poesia ogni anno accumulate nel territorio Salentino, che una scelta alternativa alla corsa che ciascun poeta fa per trovarsi ognuno una firma che presenti ogni sua nuova uscita (molto spesso l’unica!) e che soprattutto dica qualcosa – qualunque cosa – anche solo per dare visibilità al critico che nella sua orchestrazione forse parla più del poeta che della sua poesia, se non addirittura si chiude a parlare della sua stessa interpretazione e anzi di come lui considera in essenza la poesia, confermando così che proprio ai critici resta assegnata la funzione di filtrare gli ingressi nell’Olimpo dei letterati. Quanto invece ai poeti e ai quasi poeti è stato riconosciuto, in questa stagione post-modernista, un diritto non ancora formalizzato in legge che riconosca ad ognuno l’esercizio libero dell’espressione.

Dovrei sciogliere questo nodo, ma sono già nella terza cartella e mi tocca mettere a fuoco la questione Vincenti.

Ebbene – se le argomentazioni che hanno attraversato le prime due cartelle hanno un senso e se un tal senso deve potersi attribuire ad un qualunque altro Autore – che, nella forma di una fenomenologia puramente letteraria, può essere assunto come produttore e coordinatore o anche come regista e narratore oppure come cantore o leisure manager – ebbene, ci si potrà aspettare che prima o poi possano organizzarsi seminari e convegni che diano conto dei profili di tali personaggi e delle loro collezioni e della scrittura con cui sono state redatte, come anche promuovere incontri da recensire in terze pagine per misurare lo spessore di quella schiera sempre più numerosa di artisti e poeti e scrittori che abitano il Salento e che concorrono a farne una terra di mare e sole, a rappresentarlo come territorio su cui si sovrappongono tracce e promesse di qualità ambientali e storiche come anche di itinerari religiosi e di vacanze eno-gastronomiche, tutti rintracciabili nella memoria della cultura contadina e ritrovati nei classici delle letterature storiche – da quella greca e latina, fino all’arabica, all’albanese, alla turca.

Un rimescolamento, insomma, con insistenza suggerito dalla scrittura di Vincenti – e ugualmente praticato da tanti altri Autori sia salentini che di altre aree fuori dal Mezzogiorno (Myricae di Pascoli, Odi barbare di Carducci, Alcyone di D’Annunzio – giusto per limitarci ad Autori che tutti abbiamo letto alle medie) che nella scrittura classica cercavano le radici di cui necessitavano le ambizioni del riscatto.

E allora – quanto a Paolo Vincenti, cosa dire dei quesiti che, a mio avviso, ancora persistono?

Del personaggio: non se ne sa molto, a dire il vero – anche se viene imponendosi una legittima curiosità sulla sua esistenza discreta. Ma del letterato, cosa dire? Del suo civismo apartitico e a un tempo fortemente caratterizzato da passione politica! Un profilo che certo condivide con altre figure salentine – una ragione, questa, che rende necessaria una lettura di quell’insieme di cui fa parte il nostro, potendone recuperare spicchi per una possibile sociologia dell’arte nelle aree interne del Mezzogiorno, o anche per una etno-estetica dei rituali, per una antropologia delle scritture e tante altre parcellizzazioni delle discipline classiche che, nei risvolti dei diversi contesti, lucrerebbero non scarsi approfondimenti.

Delle sue opere: se ne parla ad ogni Presentazione nei cenacoli dominati da commentatori invitati, tra cui figurano nomi che non sai se danno spessore a Vincenti o se è Vincenti che li recupera nel mercato delle militanze culturali scegliendoseli dalla sua bottega di rigattiere, in cui si ammonticchiano le sue memorie di letture disordinate che in qualche modo devono avergli scalfito l’anima. Da qui la tentazione di considerare non le opere (i volumi) di Paolo Vincenti, ma l’Opera in cui è venuta travasandosi interamente e integralmente la sua esperienza intellettuale e la sua pratica poetica. Cercare insomma quell’unica ispirazione e quell’altrettanto unico respiro versificante che ritengo possa condurci al chip di Vincenti, a condizione che si attraversino quegli spicchi inesplorati del territorio Salentino. Di certo nei volumi di Vincenti ci sono indizi più che sicuri che indicano quanto a tenerli sincronizzati sia una orchestrazione che rende unitaria la loro narrazione. Non se ne ha, insomma, una percezione di raccolte differenti e distanti almeno quanto neanche le parti interne a ciascun volume non sembrano affatto differenziate e distanti, perché tali potrebbero apparire dalla distinzione dei titoli dati ad ogni intervento. Occorre insomma guardare a ciascun volume come ad un pezzo musicale che richieda esecuzioni in chiave di violino o di basso oppure che abbia un ritmo andante o allegro, ma trattenendo le diverse parti in una strutturazione che fa pensare al genere dell’Egloga. La qual ipotesi non dovrebbe sembrare del tutto avventata considerato che mantiene Vincenti nelle prossimità di un mondo culturale del quale rimane fedele cantore.   

Della sua scrittura: sono ancora pochi i commentatori che ne hanno penetrato la parte sonora, rimanendo persuasi che nel vagabondare transtorico della lingua che usa per ricavarne assonanze e impressioni, produce espressioni archeologiche in cui c’è tutta intera, ancora, la miniera delle parole concrete e delle immagini antropiche ricavate dai paesaggi salentini. Ma accade anche che, quando tace il palco della messinscena del teatro proposto con Euripide, le sue parole fanno emergere silenzi che covavano sotto le voci dei cori – e allora bisogna scoprirvi la poesia che Vincenti produce per tutto il tempo che l’ouverture accompagna la sua Opera unica. Sono silenzi che trovi, che puoi trovare, negli intervalli situati in carambole in cui l’Autore sferraglia i suoi antichi strumenti della recitazione e in cui forse prova con compulsiva tenacia ad ascoltarne suoni che probabilmente gli risultano musica onirica – mentre il lettore si ritrova sulla pagina la scrittura forgiata per produrre effetti che gli pervengono da una  versificazione che tutto traduce in iperboli, che tutto sgretola in metafore che dispongono all’ascolto di echi di ancestrale innocenza, basta lasciarsi manipolare i sensi e spingersi fino alle forme estreme e sperimentali di figure che non sono più tanto retoriche come idiotismi e malapropismi. Il gioco è aperto, sono attesi arbitri che sappiano dirigere la partita. La cui atmosfera, poi (della partita, intendo), suggerisce scenari imprevedibili se non vengono assunte le distinzioni qui innanzi proposte in una tassonomia che distingue il personaggio dalle sue opere, così segnalando, una buona volta, possibilità e potenzialità di un carattere distintivo per la scrittura.

Vincenti ne ha consapevolezza – ma deve aver preferito attendere piuttosto che anticipare il modus operandi del marchingegno prodotto dalla sua frequentazione nella letteratura greco-latina e soprattutto nella sua sezione teatrale. Nei momenti più creativi Vincenti non è poeta ma attore e quanto più è attore tanto più poetici sono i suoni che esprime. A condizione che ad esprimere quei suoni non sia un Vincenti qualunque – che reciti come un qualunque altro attore che declamasse la sua scrittura – ma sia piuttosto quel Vincenti che riesce a parlare come Efesto o Poseidon o Eolo perché lui in quel momento si è fatto tal quale a quell’Efesto, a quel Poseidon, a quell’Eolo che ci appaiono nella scrittura ma che vivono solo nella voce di un teatro che ci è reso dalla forza elaborativa di Vincenti.

Sulla pagina ci si limita, insomma, a leggere una riscrittura in chiave moderna delle Baccanti di Euripide, frammischiate alla vasta letteratura sul tarantismo salentino che si intreccia, nelle intenzioni di Vincenti, col dionisismo e il priapismo bacchico di epoca classica. Ma se tale fosse stata l’operazione trascrittoria dell’Autore la sua possibile poetica sarebbe scaduta in una riduttiva ecolalia minimalistica, mentre a un tempo la percezione acustica del lettore non sarebbe stata smossa da alcun coinvolgimento e dunque sarebbe rimasta ben al di qua degli effetti estetici che invece è – e non può non essere – l’obiettivo principale ed essenziale dell’artista Paolo Vincenti. Un obiettivo perseguibile a condizione di agevolare l’ascolto dei silenzi che sono dopo il suono delle parole – altrimenti condannati, suoni e parole, a rimanersene nascosti tra le rovine archeologiche o criptati nelle schede museali o nell’ovattato parlottare di conferenze tematiche o in qualche lezione di buona fattura didattica. E gli altri? intendo tutti quelli che non vanno al museo, che non possono andare ad ascoltare un celebre conferenziere o che non possono più tornare sui banchi di scuola? A questi deve aver pensato Vincenti – che qui si è fatto testimone di una memoria e di un recupero di vestigia immateriali. Andando il più a fondo possibile. E questa è la sfida intellettuale compiuta a mezzo della sua poesia. Come ci è riuscito? Sgretolandosi in eteronomi che gli hanno di volta in volta consentito di parlare come Euripide – quando scrive di Euripide; o di avere la voce tremante di Astimelusa – quando s’impegna a farci scorgere nella scrittura di una sua partitura lo stato d’animo di chi avverte tutto il dolore del mondo mentre sanguina la notte.

E che dire, allora, del Vincenti che continua a scrivere la sua Opera – unica e unitaria? Se in una parte di uno dei suoi volumi egli è l’eteronomo che impersona Euripide o l’eteronomo che interpreta un attore del coro delle Baccanti in qualche altra narrazione – forse meno poetico ma di certo essenziale perché la sua poesia raggiunga il cuore degli uomini e delle donne che l’ascoltano – egli si farà mediatore del teatro greco con il tarantismo salentino, fino a spingersi oltre, rimescolandosi con tutti questi altri al fine di renderli definitivamente parti consustanziali del suo io poetico. Perché dopo ogni lettura la sua scrittura possa essere ascoltata e compresa da lettori che non hanno fatto le scuole ma che per comprendere il silenzio delle parole non hanno poi bisogno di parole superflue o comunque eccedenti.   

 Qualcuno potrà pure ritenersi soddisfatto di queste ingarbugliate considerazioni che riguardano un volume che ha già ricevuto particolari apprezzamenti allorquando apparve nelle sue prime edizioni del 2010/13.Singolarmente consultati, poeti e critici dell’ambito vincentiano che ho rintracciato nel metter mano a questa postilla, risulterebbero tutti motivati ad uscire da un isolamento che non ha niente di splendido, perché non vi viene coltivata alcuna innocenza. Ai quindici e passa scrittori e commentatori, che gravitano intorno all’opera di Vincenti, vien data l’opportunità di evitare il peggiore degli insulti – quello di essere inchiodati nella rubrica degli ingenui –: aggregandosi in una arché culturale che definisca una mission che non sia più per eletti che ancora aspirassero ad un impossibile Olimpo, ma un territorio in cui poter conseguire una effettiva emancipazione grazie alla partecipazione di tutti.

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