Anche gli animali che compaiono nell’opera in versi e in prosa di Bodini sono, quasi sempre, radicati profondamente nella storia, nelle tradizioni, nelle abitudini di vita, nell’immaginario stesso delle popolazioni salentine, al punto da diventare identitari di un territorio. Lo stesso Bodini, in Bestiario salentino, compresa nella sezione Foglie di tabacco della raccolta La luna dei Borboni e altre poesie. 1943-1961, individuava infatti alcuni animali («il geco, la tarantola, / l’aggressiva cicala, / la civetta») come tipici della sua terra, di cui rappresentavano aspetti inquietanti e minacciosi (il «bestiario / la cui favola / sa di sputi e minacce»):

La luce è un’altra bestia sulle case
da aggiungere al bestiario
la cui favola
sa di sputi e minacce,
il geco, la tarantola,
l’aggressiva cicala,
la civetta.
E quell’altra che non canta e non brucia
come la frusta del carrettiere
sotto la nuvola di caldo
ma grigiamente dice: se le cose
fossero andate diversamente.
Immondo insetto, così pieno di malinconia![9]
Tra gli animali citati in questa poesia figura la tarantola che ultimamente, anche a causa di manifestazioni musicali di grande successo popolare e risonanza mediatica, è diventato in certo modo l’emblema del Salento[10]. A essa Bodini fa riferimento anche in Xanti Yaca, compresa in Dopo la luna (1956), dove si allude alle conseguenze del morso di questo animale secondo plurisecolari tradizioni che hanno dato vita al fenomeno del cosiddetto tarantismo. Qui infatti sono evocate scene di un tarantolato che si arrampica nella Cappella di San Paolo a Galatina, in provincia di Lecce, e di altri che bevono nel pozzo della Cappella per cercare di guarire dalla malattia provocata, secondo credenze popolari, dal morso del ragno:
Uno l’ho visto io
camminare col capo in giù
sul soffitto,
altri bevevano a un pozzo
di scorpioni e di serpi,
non senza gridi
nel viola acido e sporco
d’una cappella,
mentre fuori era il chiaro giorno
steso coi piedi avanti
come il Cristo del Mantegna[11].
Nella poesia 3 della sezione Foglie di tabacco, che fa parte della Luna dei Borboni, compare anche la capra, che non è simbolo, come nella celeberrima lirica di Umberto Saba, di un dolore universale, ma diventa emblema di una realtà minimale e deprivata («le capre senza musica»), di una terra desolata e separata dal resto della nazione:
Sulle pianure del Sud non passa un sogno.
Sostantivi e le capre senza musica,
con un segno di croce sulla schiena,
o un cerchio,
quivi accampati aspettano un’altra vita[12].
Non a caso, nella strofa seguente, ritorna l’immagine delle «capre o spettri di capre morte da secoli / che brucano le amare giade dell’insonnia»[13], tipiche della derelitta pianura salentina, priva di tutto e incapace di qualsiasi tipo di comunicazione, «senza case, senz’alberi senza una lettera»[14].

Anche una specie di lucertola senza zampe, l’orbettino, in dialetto salentino lo “scorsone”, spunta all’improvviso in un reportage bodiniano, I bevitori d’aranciata, da noi raccolto nel Corriere spagnolo. In questa prosa, ambientata a Madrid, Bodini, per esprimere uno stato d’animo di sordo malumore, ricorre all’immagine dell’orbettino, strettamente legato alla sua terra, alle credenze popolari della gente salentina, secondo un procedimento consueto in questi scritti dove sono stabiliti spesso raffronti e analogie tra Spagna e Italia del Sud. Ecco il brano:
Entrammo dunque in una sala da tè e vi resistemmo un’ora senza dir nulla, ognuno alle prese col sapore amaro della propria bocca. E pensando pensando a quel malumore senza uscita mi ricordai di una serpe, comunissima ai nostri paesi, bruna, simile a un rametto secco, lo “scorsone” che entra nelle case di campagna nascosta nelle fascine e di notte va in cerca di latte strisciando verso la stalla per attaccarsi ai capezzoli delle vacche, ed è anche accaduto più volte che uno “scorsone” si sia infilato nel letto d’una giovane madre e lì, fra lei e il bambino, si sia attaccato al suo petto a succhiare, mettendo in bocca al bimbo la punta della coda perché non piangesse. E questo per notti e notti, e ogni mattina la madre che si sentiva svuotata e il figliolino ogni giorno più pallido e più patito[15].
Ma in Bodini anche comuni animali domestici assumono connotazioni particolari, che rinviano al territorio, a leggende e credenze tipiche degli abitanti del Salento. In un’altra prosa compresa nel Corriere spagnolo, Il cane da Anime, divisa in parti uguali tra tematica salentina e ambientazione spagnola, i due cani dello scrittore diventano «cercatori d’anime». Nella casa di Madrid dove egli abita, infatti, essi riescono a percepire in una statuina d’ebano il misterioso artista che l’aveva scolpita, «forse lo spirito d’uno stregone». E questo riporta a quella «realtà dell’invisibile»[16] che caratterizza la civiltà meridionale, cioè ancora una volta a un dato di tipo antropologico:
Due anni fa ero a Madrid. Abitavo in Calle del Pez […] In questa casa avevo due cani: una cocker dorata e un feroce alano, di grandi proporzioni, color piombo […] Un giorno comprai da un antiquario una scultura negra, una scultura, una testa di negro in legno d’ebano. Avevo in quella casa un mucchio di cose strane, e questa era la meno strana di tutte. Mentre andavo cercando un posto dove collocarla, i due cani che si erano avvicinati per curiosare diedero un salto di fianco e in preda a un pazzo terrore corsero a rifugiarsi nell’angolo più lontano della casa. Stupefatto, e mosso da curiosità, collocai la testa del negro in terra, sulla soglia d’una stanza, poi allontanatomi un poco, chiamai i cani. Vennero correndo per il corridoi, come sempre […] Ma come giunsero davanti alla porta, la loro corsa si arrestò bruscamente con un balzo all’indietro e con lamenti orribili che facevano rintronare la casa […] Mi venne così l’idea che in quella figura i cani avessero avvertito l’odore del misterioso artista africano che tanti anni fa l’aveva scolpito in qualche villaggio della Guinea […]. Così mi si ripresentavano privatamente le antiche relazioni fra i cani e le anime morte[17].
Un altro animale domestico, il gatto, compare spesso nella poesia di Bodini, anche stavolta in relazione al territorio salentino di cui sembra rappresentare l’aspetto più nascosto e segreto. Non a caso, questo animale, ogni volta che appare, assume parvenze demoniache, essendo sempre accostato alla notte, al nero, come nella poesia 6 della sezione La luna dei Borboni («Trotta magro e sicuro / un gatto nel Sud nero»[18]), o rivela in ogni caso aspetti inquietanti, come in Troppo rapidamente di Dopo la luna: «Chi si ricorderà dei limoni / reclusi nei cortili con le conche / di pietra e i gatti famelici?»[19]. Anche in un’altra poesia, che fa parte di Dopo la luna, dal titolo Nella penisola salentina, in cui si accenna alle tradizioni, alle leggende del Sud, ma anche al suo glorioso passato contrapposto allo squallido presente caratterizzato da miseria e abbandono, il gatto «feroce» che fa la sua apparizione alla fine diventa il simbolo dell’isolamento e della separatezza di questa terra dal resto della nazione e della diffidenza, e quasi dell’ostilità dei suoi abitanti nei confronti di quei pochi forestieri che si avventuravano nella regione:
Su un mucchio d’immondizie un gatto feroce
rosicchiava una lisca madreperlacea
guardando avvicinarsi il forestiero
con due occhi terribili[20].
Il gatto è presente ancora in Via de Angelis, che fa parte della raccolta La luna dei Borboni e altre poesie, una composizione in cui c’è una totale immedesimazione tra il poeta e una strada del centro storico di Lecce in cui egli aveva abitato per un certo periodo dopo il ritorno dalla Spagna, nel 1949. Qui il gatto diventa simbolo dello stesso poeta, incapace di adattarsi alle regole crudeli della vita, ma ancora una volta viene inserito in una dimensione demoniaca e infernale:
Venuto via dal mondo, fuori gioco
come credevo d’essere
dalla sue chiuse gare
di treni e di egoismo,
di subire o di imporre,
fui come un gatto che s’affaccia
alla luce dal buio degli scantinati
con un’aria terribile,
come se tornasse dall’avere scoperto
un passaggio per gl’inferi[21].
Anche il cavallo compare spesso nella lirica di Bodini, dove subisce un rovesciamento simbolico significativo in rapporto alla visione del Sud come condizione negativa della vita, che emerge nelle raccolte “lunari”. Il cavallo, infatti, che di solito è simbolo di bellezza, forza, libertà nel suo sfrenato galoppare, qui diventa emblema di una terra che ancora una volta è raffigurata come priva di prospettive e di speranze per i suoi abitanti. Le loro vite, infatti, come si legge nella decima composizione della sezione La luna dei Borboni, piante «fra quattro ceri» dalle prefiche, sono «senza cavalli e senza amore»[22], cioè senza neppure la lontana possibilità di nutrire sogni o di provare sentimenti, i soli che rendono una esistenza umana degna di essere vissuta.
Ma anche la storia nel Sud sembra che non riesca a procedere, ad andare avanti e si sia fermata ai tempi dei Borboni e che tutto sia inesorabilmente rivolto al passato. Questo è il concetto che sta alla base della prima poesia della sezione La luna dei Borboni, della quale l’emblema è proprio il cavallo «sorcigno», cioè di color grigio topo, che va all’indietro sulla pianura:
La luna dei Borboni
col suo viso sfregiato tornerà
sulle case di tufo, sui balconi.
Sbigottiranno il gufo delle Scalze
e i gerani – la pianta dei cornuti –
e noi, quieti fantasmi, discorreremo
dell’unità d’Italia.
Un cavallo sorcigno
camminerà a ritroso sulla pianura[23].
In una lettera a Oreste Macrì del maggio 1950, in cui spediva copia di questa poesia, Bodini precisava che “sorcigno” «è il colore dei cavalli dei vetturini. Sono gli stessi cavalli del Seicento: ecco un atto notarile in data 1 febbr[aio] 1659, notaio Lucrezio Perrone: “Attestiamo qualmente… si sono costituiti avanti di noi gli onorabili… con un cavallo di pelo grigio sorcigno stellato in fronte ecc.”»[24].
L’immagine dei cavalli ritorna altre volte nella poesia bodiniana, sempre in relazione alla visione particolare del Sud che manifesta lo scrittore. In Foglie di tabacco 3 essa èsurrealisticamente associata ai resti degli animali uccisi che affiorano dalla terra e che ricordano la felicità di quando erano in vita:
Così, se qualche giorno dal sottosuolo
un riso magro scatenato nel vento
di scirocco si stira,
ciò che all’imperturbato cielo e ai corvi
scopre la vanga
sono le dentature di cavalli
uccisi che si rammentano
che dolce festa faceva
quand’era vivo il sangue sulle pianura[25].
In Troppo rapidamente (Dopo la luna), figura ancora una visione surrealistica dei cavalli che «si affrettano a trattenere i loro sogni prima che svaniscano»[26]:
Troppo rapidamente i cavalli
si passavano la mano sulla fronte
dove il sogno cresceva nidi rosei
di topi e dove vergini vegetali
sconfinavano sulle terrazze di fuoco[27].
[In “Critica
letteraria”, a. L, fasc. IV, n. 197/2022, pp.847-861].
[1] Vittorio Bodini, La luna dei Borboni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1952.
[2] Id., Dopo la luna, Caltanissetta-Roma, Edizioni Salvatore Sciascia, 1956. La luna dei Borboni e Dopo la luna confluirono poi in Id., La luna dei Borboni e altre poesie. 1943-1961, Milano, Mondadori, 1962. Tutta la produzione poetica di Bodini venne raccolta in Id., Tutte le poesie (1932-1970), a cura di Oreste Macrì, Milano, Mondadori, 1983, di cui è disponibile una ristampa (Nardò, Besa, 2015).
[3] Cfr. Id., Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di Antonio Lucio Giannone, Nardò, Besa, 2003.
[4] V. Bodini e Oreste Macrì, «In quella turbata trasparenza». Un epistolario 1940-1970, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2016, p. 234.
[5] Antonio Mangione, nell’edizione da lui commentata di V. Bodini, La luna dei Borboni (1952), Nardò, Besa, 2006, p. 17.
[6] Sui vari aspetti dell’opera di Bodini si rinvia a Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014). Atti del Convegno internazionale di studi. Lecce-Bari, 3-4, 9 dicembre 2014, 2 tomi, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa, 2017.
[7] V. Bodini, L’esperienza poetica, «L’esperienza poetica», n. 1, gennaio-marzo 1954, p. 2.
[8] Su tale argomento ci sia permesso di rinviare a A. L. Giannone, La “terza via” di Vittorio Bodini, in L’ermetismo e Firenze. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 27-31 ottobre 2014). Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni, vol. II, a cura di Anna Dolfi, Firenze, University Press, 2016, pp. 571-582.
[9] V. Bodini, La luna dei Borboni e altre poesie. 1943-1961, cit., p. 23; poi in Id., Tutte le poesie (1932-1970), cit., p. 94.
[10] Il riferimento è alla Notte della Taranta, una manifestazione musicale che si tiene ogni anno nel mese di agosto a Melpignano, in provincia di Lecce, e che attira decine di migliaia di persone da ogni parte d’Italia e anche da fuori.
[11] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), cit., p. 118.
[12] Ivi, p. 91.
[13] Ivi, p. 92.
[14] Ibidem.
[15] V. Bodini, Corriere spagnolo (1947-1954), a cura di A.L. Giannone, Nardò, Besa, 2013, p. 122. Sul rapporto tra Bodini e la Spagna cfr. Palabras tendidas: Vittorio Bodini entre España e Italia, a cura di Juan Carlos de Miguel y Canuto, Valencia, Universitat de València, 2020,
[16] La definizione è di Giovanni Battista Bronzini, Mito e realtà della civiltà contadina lucana, Matera, Montemurro, 1977, p. 261.
[17]V. Bodini, Corriere spagnolo (1947-1954), cit., p. 86.
[18] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), cit. , p. 103.
[19] Ivi, p. 127.
[20] Ivi, p. 121.
[21] Ivi, p. 130.
[22] Ivi, p. 105.
[23] Ivi, p. 101.
[24] V. Bodini e O. Macrì, «In quella turbata trasparenza». Un epistolario 1940-1970, cit., p. 244.
[25] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), cit., p. 92.
[26] A. Mangione, nota a Troppo rapidamente nell’edizione da lui commentata di V. Bodini, Dopo la luna (1956), Nardò, Besa, 2009, p. 97.
[27] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), cit., p. 127.