Quando si ama un “irregolare”: su Raffaele Carrieri, Stefano Modeo e un libro finalmente in libreria

Avremo presto tra le mani un vero e proprio atto d’amore nei confronti della vicenda personale di Raffaele Carrieri e della sua poesia e questo perché Modeo narra una vita che ha ripetutamente il sapore dell’avventura alla scoperta del mondo, ché Taranto fu, per lui, amata città natale, sì, ma innanzi tutto orizzonte di mare: era il mare ad attrarlo, come se Taranto-patria-del-sentire-e-del-desiderare fosse capace di espandersi ovunque nel Mediterraneo (e non solo), trascinando un Raffaele ancora tredicenne a imbarcarsi clandestinamente su di una nave in partenza per l’Albania.

Carrieri fu uomo e poeta del viaggio, delle solitudini, della fame sofferta in talune circostanze, degli incontri e dell’amicizia fedele, dell’amore e della passione per l’arte, dell’affetto inestinguibile per la madre (la “formica” Maria) – definendosi con orgoglio Magnogreco riaffermava proprio il fatto che l’orizzonte marino di Taranto sapesse dilatarsi oltremisura. E in un certo qual modo Taranto è città bifronte: aperta al mare, cosmopolita da una parte e come rinchiusa nella sua appartenenza a un Sud sofferente dall’altra.

Un’energia vitale inarrestabile che si fa talvolta melancolica, sempre innamorata del mondo attraversa la poesia di Carrieri, spirito libertario sia che attraversi la penisola iberica o i deserti nordafricani, le strade parigine o milanesi, le regioni balcaniche o greche, sia che continui a udire il battito del tamburo e il passo delle carovane, sia che dialoghi con i suoi amici artisti, sia che rivendichi con doloroso orgoglio il proprio essere “cafone al Nord” o che si lasci ammaliare dalla bellezza femminile o che ami descriversi esplicitamente come uno zingaro calderaio o maniscalco.

Stefano Modeo ripercorre nel suo saggio le tappe della biografia di Carrieri al fine di saldarla con i motivi conduttori della sua scrittura in poesia, vale a dire l’empito costante alla fuga che è «nomadismo geografico, intellettuale e artistico» (p. 7), la sua capacità di sfuggire a qualunque categoria critico-definitoria, la «ciclicità» e lo «straniamento» (ibidem) che, sostiene Modeo, gli fanno amare Carrieri per quella sua capacità di reinventarsi tornando ciclicamente sui medesimi temi e immagini, avvicinandosene e riallontanandosene, sempre variandoli e reinventandoli, come un giocoliere che conosca tutti i segreti della propria arte, indossando diverse maschere non per camuffarsi o nascondersi, ma, ben al contrario, per rivelare la sua anima di viaggiatore, di amante della vita, di spirito libero, anche quando il muro e la morte (essi pure ciclicamente) ritornano a restituire una dimensione esistenziale che ama l’amore, gli spazi sconfinati, la prossimità degli esseri umani e degli artisti, ma conosce anche i limiti, gli ostacoli, il male (si pensi soltanto, a mo’ di esempio, ai versi dedicati alla morte d Lorca); «il corpo, il ritmo e lo sguardo» (p. 8) sono i tre strumenti che permettono a Carrieri questo «gioco» e in effetti Modeo individua in sede critica tutti quegli elementi che rendono la poesia di Carrieri immediatamente riconoscibile e “irregolare” all’interno del Novecento italiano perché totalmente aliena da vezzi, vizi e provincialismi che hanno afflitto molti autori italiani del secolo appena trascorso (ma i primi decenni del nuovo sembrano ripetere spesso i medesimi provincialismi, vizi e vezzi, complici anche certi editori aggiungo da parte mia).

«Ci auguriamo dunque, con questa nuova antologia, di poter rinnovare un’attenzione critica verso uno straordinario poeta del Novecento» conclude Stefano a pagina 12. Via Lepsius sottoscrive e condivide in pieno un tale augurio: che il gabelliere Carrieri torni al centro dell’interesse di chi ama la poesia – che tanti giovani imparino a conoscerlo e ad apprezzarlo.

Lamento

Non pesa il fucile ad armacollo

né il pastrano né la cartucciera

lo stivale non pesa nella sera

né la brina sulla bandoliera.

È l’ora ventidue, manca un minuto:

il giro della luna s’è compiuto.

All’oscuro le pietre sono colte

da improvvisa tacita morte.

In cielo non scorre fiume

la foglia più non riluce

il muro è tornato muro

e lo stivale ancora stivale

sopra il cuore del gabelliere.

(p. 21)

Miei paesi

Tace il gallo fra spugna e lancia

splende il sole nella bilancia.

Miei paesi di tante croci

senza fiumi senza foci,

miei paesi di lune e gufi

col demonio dentro i tufi,

sul calvario Gesù giace

come luce sulla calce.

(p. 83)

Spina d’una rosa

Sono bianche le ragazze

che la notte d’estate

spiano dalle persiane

facendo tintinnare i capezzoli

come teneri tamburelli.

Devo continuare a nascondermi

nella notte o rinverdire?

Ritorno dopo diecimila anni

principe dei calderai

e sposo la spina d’una rosa.

(p. 226)

[Pubblicato su Via Lepsius il 16 gennaio 2023]

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