Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 1. Per la storia di Galatina del XX secolo

Il tempo, che solo trionfa di tutte le cose terrene, non ha conservato la durezza e talora la drammaticità del confronto culturale presente negli scritti da cui si generano queste Memorie; ne è perciò venuto un disincanto ed un distacco tali da rendere l’animo più disposto a mantenere sempre viva e forte la passione civile ma, se del caso, anche a convertirla – redimensionandola – mediante l’uso della ragione. Dagli scritti originali, pertanto, sono stati espunti tutti quei passi frutto non di elaborazione storiografica o memorialistica, bensì dettati da un intento di politica militante, anche talora polemico, da esigenze del momento rivelatesi poi caduche, e naturalmente tutte le ripetizioni che inevitabilmente compaiono in scritti che ruotano intorno allo stesso argomento e distribuiti nell’arco di un ventennio. Ed in particolare per questo aspetto di revisione e per la selezione del materiale e del suo riordinamento, un particolare sentimento di gratitudine devo a mio figlio Gianluca prodigo di non pochi suggerimenti intelligenti e perspicaci.

Il giudizio, per esempio, sull’opera politica di uomini pubblici cui siamo stati legati da congenialità o dissenso ideologico appare più temperato e più sicuro rispetto all’immediatezza dei tempi lontani, ma resta saldo il riconoscimento che tutti hanno rispettato il principio vero della politica, che è quello di lasciare più libertà che si può.

L’impianto del libro sta nella concezione immanentistica della realtà di cui sono avamposti l’antropologia che toglie il velo ai nuovi confini ed alle nuove regole della civitas, l’antifascismo, quale antidoto del revisionismo, ed il problema religioso come intangibilità della convinzione personale e della coscienza da parte di qualsiasi autorità umana. La concezione immanentistica della realtà ci ha indotto altresì ad allargare la sfera della storicità dall’angustia della comunità cittadina (e delle erudite cronache locali), di cui abbiamo studiato le tendenze pratiche, gli affetti sociali e di classe, gli atti e i caratteri dei suoi uomini e delle sue donne, all’ampiezza delle vicende nazionali.

Il libro si compone di due parti e di un’Appendice. Nella Parte I, con percorso diacronico, si riflettono le vicende galatinesi della prima metà del XX secolo, dalle lotte parlamentari di Antonio Vallone fino al dibattito politico del secondo dopoguerra, attraverso l’analisi della vita cittadina durante il fascismo e il postfascismo.

Ecco poi, nella Parte II, una galleria di tipi antropologici galatinesi: dal prete  e laico cattolico al contadino, dall’intellettuale allo studente e alla donna. Ecco la prostituta, termine che appare usurpazione di vocabolo, stante l’iter di miseria e di violenza di quello sbocco di vita; la donna contadina ed al contempo operaia, laboriosa ed emancipata, che spezza il pane quotidiano con coscienza di classe; ecco l’affittacamere, che un raffinamento di gusto ha trasformato da casalinga in ospite cortese fino al limite della galanteria. E poi gli uomini. Primi fra tutti i contadini, adulti di intelletto e di dignità, ma anche esseri umani giunti al limite dell’abiezione e dell’abbandono; ed ancora la dicotomia del pastorello e garzone di strada da una parte, e il giovanetto studente dall’altra. Insomma la vita della provincia dietro la quale, tuttavia,

si sono sempre percepite le vibrazioni e le oscillazioni della nazione e dietro di esse l’ampliamento dell’idea di libertà e di personalità che ci appare il contenuto migliore della civiltà moderna. Oltre ogni oleografia, non si è fatto mistero dello scontro di classe che ha animato e direi reso drammatica la vita cittadina nella prima metà del secolo XX, ed oltre. Al di sopra degli uomini ed delle donne, dei lavoratori della nostra città,  abbiamo delineato le linee portanti del blocco agrario e del fronte moderato-conservatore che ha diretto, avvalendosi spesso dell’avallo religioso e di quello degli intellettuali, la politica e l’amministrazione di Galatina nel periodo da noi considerato. Ne è emerso uno spaccato di storia meridionale ed il disegno di una civiltà che, anche se ormai  al tramonto, non nasconde i segni di una continua, profonda evoluzione. Infine, l’Appendice, nella quale compare uno scritto inedito su Pietro De Marianis, maestro elementare e antesignano del giornalismo galatinese nelle pagine del “Pensiero”, attraverso cui ci è stato possibile rileggere la storia di Galatina dall’anteguerra al fascismo.

A tutti, uomini e donne, poveri e ricchi, dominati e dominatori, abbiamo pensato, accomunando tutti in un’indulgente comprensione, per il principio che l’essere umano, qual si sia il sesso, l’origine, il costume, la condizione, vive nella storia senza potersi sottrarre alla terribile realtà di essa; ma guai alle genti che senza precisa coscienza critica delle vicende trascorse, credono di rinnovare il presente ed edificare il proprio futuro.

Galatina, settembre 1997

Giuseppe Virgilio

Parte I

Per la storia di Galatina del XX secolo

Il meridionalismo di Antonio Vallone


Ritratto di Antonio Vallone (rilievo) di Montini (primo quarto sec. XX)

Chi studia la storia dell’Italia meridionale dall’Unità ai nostri giorni, si avvede che la coscienza razionale dei propri bisogni si è venuta generando nelle masse, fino a divenire processo di organica formazione spirituale, attraverso l’opera di individualità che hanno fondato la loro azione storica su motivi umani e su forze reali, immanenti e operanti nel seno stesso della società, e per mezzo di esse hanno capito il mondo ed i suoi problemi, ma lo hanno capito per viverci e per trasformarlo.

Nella prospettiva più vasta della nostra storia unitaria, i temi principali della polemica meridionalista sono stati due: 1) la protezione doganale dei prodotti industriali del Nord a danno dei contadini meridionali costretti a comprare quei prodotti a prezzi più elevati; 2) le facilitazioni di cui ha goduto il movimento cooperativo del Nord sì da creare strati privilegiati di classe operaia, mentre la borghesia ha controbilanciato quelle condizioni di privilegio, rifacendosi sempre alle spalle dei contadini. Di qui è nata una storia di diffidenza dei meridionalisti anche nei confronti del PSI, considerato rappresentante degli interessi operai, non conciliabili con quelli delle masse meridionali. Per cogliere però le profonde radici di quella diffidenza, è necessaria una riflessione che indaghi la mediazione culturale di alcuni temi meridionalistici della nostra storia risorgimentale.

1. Le insidie del moto unitario

In primo luogo dobbiamo osservare che la tesi unitaria è stata indebolita, sin dal suo delinearsi, dal principio dell’autonomismo meridionale di origine transnazionale. Un aspetto di esso va sotto il nome di murattismo e consiste in un disegno franco-napoleonico sul Mezzogiorno d’Italia nel 1855 mediante il progetto di restituire la corona del Regno delle due Sicilie alla dinastia di Gioacchino Murat attarverso il figlio Luciano.

In secondo luogo tutto il processo di unificazione nazionale risulta contrassegnato dalla trama di due problemi, e cioè dalla conquista di Roma come aspirazione del partito rattazziano, e dalla formazione di un partito liberale progressista legato al compimento del programma nazionale, equilibratore di una destra conservatrice e di una sinistra radicale ed impaziente, la quale tende a ministerializzarsi.

Lungo queste linee politiche Francesco De Sanctis promuove l’Associazione costituzionale unitaria a Napoli nel 1862. Ne è presidente Luigi Settembrini. L’Associazione lavora a guardia dell’unità e della libertà e attraverso di essa De Sanctis dà vita alla giovane Sinistra. Va inoltre registrata l’opera di Giustino Fortunato e della seconda scuola meridionalistica la quale, dopo quella desanctisiana e di Pasquale Villari, conclusa la lotta per la costituzione dello Stato, libera il Mezzogiorno dalla sopraffazione legislativa di ordine protezionista e fiscale.

Alle questioni economiche e finanziarie intanto si è sovrapposta la questione sociale che minaccia il libero ordinamento dello Stato. Non sfugge agli intellettuali meridionalisti che le radici della crisi stanno, al di là del Parlamento, nel paese paurosamente arretrato, nel sentimento della libertà e negli abusi del governo Crispi contro le forze di opposizione mediante i provvedimenti eccezionali lasciati in balia delle questure, lo scioglimento delle associazioni operaie e la larga applicazione delle pene detentive e del domicilio coatto.

All’area culturale della scuola meridionalistica che trova le sue scaturigini nel murattismo, nell’opera di Francesco De Sanctis e di Pasquale Villari prima, e di Giustino Fortunato poi, Antonio Vallone attinge i valori morali e politici che stanno a fondamento della sua attività parlamentare. Senza di essi non si capirebbero le linee di sviluppo dell’opera sua.

Nato a Galatina nel 1858, l’uomo entra in Parlamento all’inizio della XXI legislatura in seguito alle elezioni del 3 giugno del 1900, quando sono passati appena due anni dalla torbida e sanguinosa attività repressiva di Bava Beccaris a Milano, la quale nel 1898 ha confermato che la reazione non è un fatto politico occasionale, bensì una delle periodiche manifestazioni dell’essenza tipicamente reazionaria della classe dirigente italiana. Questo evento rafforza in Antonio Vallone il suo repubblicanesimo politico iniziatosi nel 1881 durante il sodalizio romano, per lo studentato di ingegneria, con Guglielmo Oberdan, e perciò sovraccarico di vitalità interventistica, come ha ben documentato Aldo Vallone in una sua puntualissima monografia per la quale ha utilizzato documenti di prima mano, a cui noi attingiamo per alcune articolazioni di questo scritto e rinviamo per i particolari.

L’amicizia con Oberdan svolge in Antonio Vallone una professione ideale significativa, perché si sviluppa in un periodo in cui l’agitazione irredentistica clandestina è intollerabile, fino al punto che un organo d’informazione come il Corriere della Sera condanna l’attentato di Oberdan alla vita dell’imperatore come immorale ed inopportuno, in quanto è una parte del prezzo da pagare per la Triplice Alleanza tra Germania, Austria ed Italia, che pone fine all’isolamento dell’Italia in Europa, e la rinuncia al Trentino, malgrado la riconosciuta validità dei diritti italiani sulla regione.

Dopo questa esperienza giovanile il repubblicanesimo di Antonio Vallone si colora di un sincretismo ideologico che trova la sua funzione propulsiva nelle condizioni del Mezzogiorno.

All’inizio del secolo la distribuzione regionale in Italia degli strati rurali indica che i contadini poveri si ammassano prevalentemente nel Sud, dando al Mezzogiorno il carattere di regione contadina arretrata. Questo stato è alla base del problema storico-politico meridionale. Si pensi che ai primi del secolo in Puglia i giornalieri raggiungono il sessantotto per cento della popolazione rurale regionale. Più in particolare, il bracciante del Salento non riesce a lavorare per più di ottanta giornate nell’intero anno, e non porta a casa più di quattrocento lire, ma a volte anche duecento, e vi sono dei paesetti fra quelli del collegio di Maglie dove la pastasciutta si può mangiare una volta al mese. La donna, inoltre, lavorando con la lucerna dall’alba al tramonto a preparare tessuti, può guadagnare non più di trenta centesimi al giorno, un quinto di una giornata di un muratore. In campagna si commettono i soliti abigeati, e non finiscono mai le liti per ragioni di pascolo fra caprai i quali rivendicano ancora gli usi civici dell’età feudale.

Queste circostanze riversano nella vita spirituale di alcuni meridionalisti una forma di pessimismo. Così è accaduto, per esempio, a Giustino Fortunato, e la stessa cosa ci pare di poter dire per Antonio Vallone. Anche se non è attestato un rapporto documentale fra i due uomini, che sia andato al di là della mera attività parlamentare, li unisce la meditazione sulla povertà naturale del Mezzogiorno (ed in questo senso noi abbiamo parlato di sincretismo religioso per il repubblicanesimo di Antonio Vallone). Per l’uno e per l’altro difatti è sufficiente il piano dei rapporti di proprietà ed il conflitto sociale tra latifondisti e contadini a definire il problema agrario del Sud, ma vi concorre anche il problema del minifondo che presenta un rilievo tecnico-politico non minore.

Queste istanze danno forma, in Vallone, alla cultura positivistica della sua giovinezza a favore della scienza come strumento di riorganizzazione della vita sociale e come elemento decisivo del processo di produzione, ma anche come mezzo per affermare e sviluppare la solidarietà umana e promuovere la costruzione di una nuova società, secondo il principio per cui nessun ordine reale può essere stabilito, né soprattutto durare, se non è pienamente compatibile con il progresso e nessun grande progresso potrebbe effettivamente compiersi, se non tende infine all’evidente consolidamento dell’ordine. In questo senso e coerentemente con questo orientamento, egli si adopera perché si realizzino non lavori pubblici occasionali e disorganici (buoni, per giunta a prezzo di clientelismi e corruttele, né a risanare e neppure a temporaneamente alleviare, quanto piuttosto a provvisoriamente occultare i mali del Mezzogiorno), bensì bonifiche per l’ammodernamento tecnico e colturale dell’agricoltura, e soprattutto l’Acquedotto pugliese inteso ad alleviare i disagi derivati alle popolazioni del Sud dalle sfavorevoli condizioni idrologiche, geologiche e pedologiche delle nostre terre. E proprio l’Acquedotto pugliese resta la sua opera più meritoria.

2. L’uomo e il partito storico repubblicano

Questi temi sono presenti nel partito repubblicano quale è stato costruito dagli esponenti della nuova generazione, da Luigi De Andreis ad Eugenio Chiesa, da Arcangelo Ghisleri a Giuseppe Gaudenzi, dopo la crisi nell’ultimo decennio del secolo decimonono dell’ala associazionistica più fedele agli ideali mazziniani. Nel partito sono programmate le linee maestre della questione meridionale, dall’ordinamento regionale alla riforma della burocrazia, dalla revisione tributaria alla lotta contro il protezionismo ed il monopolismo. Antonio Vallone s’innesta perentoriamente con la sua militanza politica nel partito ed assume in Puglia una posizione eminente distinguendosi in una valida tradizione di cultura laica e democratica di origine e formazione meridionale, ben rappresentata da Pier Delfino Pesce a Mola di Bari, da Felice Figliola a Foggia, dall’associazione “M. R.  Imbriani” e dal circolo giovanile “Oberdan” a Manfredonia e da Attilio ed Egidio Reale a Lecce.

Si sbaglierebbe tuttavia a cercare nei suoi interventi parlamentari come esponente della sinistra democratica, rappresentata in quegli anni dal repubblicanesimo, dal radicalismo e dal socialismo, un’analisi storica volta a valutare i limiti del nostro Risorgimento, dai quali ha preso avvìo il processo di sviluppo del capitalismo italiano che ha conquistato il potere soggiogando la campagna alla città industriale e l’Italia centrale e meridionale al Settentrione. E’ ben documentato invece nei suoi interventi il divenire dello stato dispotico che ha allargato i propri quadri, mantenendo intatte quasi del tutto le prerogative di virtualità dispotica della corona. E’ il principio che ispira tutta la lotta che Vallone ha condotto in Parlamento contro le spese militari.  Nel suo pensiero, difatti, v’è un’interpretazione tra pregiudiziale antimilitarista e pregiudiziale antimonarchica. L’esercito si identifica con la ragione d’essere della monarchia in quanto il militarismo non è soltanto collegato alla politica, ma alla ragione dinastica dello Stato che si incardina nella legalità ereditaria, ed inoltre il potere militare col suo spirito ed i suoi interessi di casta abitua ad imporsi ed a sovrapporsi al potere civile. Un democratico non può che essere contrario a questo rischio. Che altro è stato l’incidente di Fiume se non un fenomeno di militarismo? Anche qui noi avvertiamo un retaggio di dottrina positivista, se è vero che per Saint-Simon e per Comte la società militare, basata sullo spirito di prodezza e sul principio dinastico, essenzialmente irrazionale e predatoria, finisce con l’opporsi alla società agricola inglobata nella società industriale che ne trasforma le tecniche produttive, ne altera gli orientamenti di valore e gli atteggiamenti di fondo e la rende omogenea a se stessa. E’ questo l’imperialismo conquistatore, militarista, antidemocratico dei nazionalisti conseguenziari.

Antonio Vallone è stato interventista nella prima guerra mondiale e questo fatto può apparire in contrasto col suo antimilitarismo. Si osserva innanzitutto che quell’atteggiamento è sempre ispirato all’irredentismo di Oberdan, ed in secondo luogo si colora dell’ispirazione a promuovere con la guerra un più giusto assetto internazionale in un mondo libero da troni e da altari.

3. Giolittismo nel Sud e temi meridionalistici

Si suole definire col temine giolittismo quello spazio storico che intercorre tra il 1898, allorché l’oligarchia che si muove intorno alla Corona si accorge di aver fatto male i suoi conti a causa dei fermenti liberali e delle aspirazioni democratiche che indicano presagio di tempi nuovi, e l’avvento al potere del fascismo. Questo spazio storico è dominato da Giovanni Giolitti.

Col distacco proprio del tempo, la critica storica ha definito il giolittismo nel primo ventennio del secolo corrente, più che un tentativo, una necessità intesa a fondere insieme, in sintesi creativa, la parte viva ed insopprimibile dell’eredità liberale, con le nuove istanze sociali dell’incipiente società industriale, dal momento che non è stato possibile risolvere la questione sociale con la tecnica della repressione armata e dello stato di assedio. C’è molto di vero in questa tesi, e tuttavia il problema di far confluire nei quadri della nazione la classe più numerosa, cioè quella popolare, al fine di consolidare l’organismo dello Stato italiano, fa del giolittismo una forma storica carica di ombre e di contraddizioni. E’ significativo che Palmiro Togliatti abbia messo in evidenza il significato politico, immediato e presente, del giolittismo, nel confronto fra l’apertura del leader borghese dei primi anni dopo il 1900 di fronte ai bisogni delle classi popolari e l’ottusa chiusura dei leaders borghesi del secondo dopoguerra dinanzi a quelle medesime più urgenti necessità. L’Italia ufficiale, tutta volta alla politica dei favori alla grande proprietà terriera prima ed alla grande industria ed alle ingordigie impiegatizie dopo, retaggio di tutti i governi succeduti a Depretis, non ha mai pensato alle esigenze vere del popolo. Sono nate potenti organizzazioni oligarchiche, ma non si è propiziato l’avvento progressivo di una vera democrazia. Giolitti continua spregiudicatamente questa linea.

Difatti nella consultazione elettorale del 6 e del 13 novembre 1892, egli si assicura una grande maggioranza di uomini fedeli ma privi di convinzioni, eliminando avversari di punta come Cavallotti, Borghi, Imbriani e Costa. “Costui”, commenta Luigi Zini, “impostore di stampo depretisino, incominciò dal rimestare quaranta prefetti nel primo mese senza conoscerne neppur uno, e prima delle elezioni sgomberò quarantacinque seggi di deputati insulsi od avversi e le quarantacinque spazzature gettò in Senato”. La degenerazione giolittiana del sistema elettorale è incominciata in questo modo.

Noi non vogliamo cadere nell’errore di uno pseudostoricismo che personalizza la responsabilità dell’azione e toglie ogni eticità alla storia, e perciò faremo una breve analisi di quella degenerazione nel Mezzogiorno, al fine di capire meglio la funzione pedagogica che la critica di essa da parte di Antonio Vallone ha avuto con la forza dell’esempio, fino a promuovere nelle giovani generazioni una volontà di essere migliori di quelle vecchie.

Giolitti non trova nel Nord, dove esiste un’opinione pubblica abbastanza robusta ed organizzata, una maggioranza solida e permanente, e quindi viene a procurarsela nel Sud dove vende il prefetto e compra il deputato – secondo un perentorio aforisma salveminiano -, nel senso che mette il prefetto, ma anche il delegato di pubblica sicurezza e talvolta il tribunale, al servizio del deputato che, invece, a Roma si mette a servizio di Giolitti. Questo significa illimitata autonomia amministrativa per i municipi situati in quei collegi meridionali dove il corpo elettorale è stato fedele al deputato ministeriale, ma scioglimento del Consiglio ad opera del prefetto col più banale dei pretesti che confluiscono tutti nella sentenza di gravi ragioni di ordine pubblico, in quei collegi dove il corpo elettorale si costituisce di obstinati ed inflexibiles, per usare i termini della lettera di C. Plinio a Traiano sulla irriducibilità dei cristiani al momento del processo. Accade allora che il Sindaco viene sostituito da un Commissario, che è di solito un funzionario governativo il quale si fa un punto d’onore di far sormontare il partito d’opposizione, e per questo ricorre ai soprusi più sfacciati a danno degli avversari. Fa chiudere l’esercizio di rivenditore, leva il permesso d’armi, toglie la patente di sensale ovvero ricorre addirittura al provvedimento d’arresto. Per contro ai ministeriali sono facilitate le pratiche per la concessione di un banco lotto, di un ufficio postale di terza classe, di una licenza di commercio o di ambulante. Siamo di fronte ad un problema storico di grosse proporzioni dove sono in conflitto ideali democratici ed un modo di realizzarli empirico che attribuisce allo Stato una funzione regressiva ed antistorica, in quanto tende a comprimere le forze vive della storia.

Un politico vero non sottovaluta il fatto che la questione meridionale pone un problema a mezzo tra politico e tecnico-economico, ma soprattutto la considera una questione morale. Se ricorriamo alla filosofia delle parole e alla linguistica storica scopriamo il significato di essa.

Per il contadino pugliese con le parole la legge, la forza si indica una equivalenza e si fa riferimento al governo ed allo Stato. In età giolittiana la legge e la forza dello Stato, specialmente in periodo elettorale, sono stati i mazzieri, vale a dire i galoppini governativi assoldati per compiere qualunque azione al fine di spaventare gli avversari. Armati di nodosi bastoni, hanno potuto scorrazzare per le strade agguerriti fino ai denti, mentre i cittadini di orientamento antigovernativo sono stati molestati fino ad essere perquisiti e, se sono stati trovati in possesso di un coltello lungo un solo centimetro in più dei quattro centimetri legali, sono stati denunziati all’autorità giudiziaria e condannati. Il mazziere ha dato la misura dell’abisso storico e della vertiginosa profondità sociale presenti nel Sud. Consideriamo il collegio eletterole di Maglie all’inizio del secolo, al tempo della candidatura a deputato di Antonio Vallone nel giugno del 1900 per la XXI Legislatura.

Tra i circa venti Comuni che lo compongono, i centri più importanti sono Maglie e Galatina. Nel Salento mancano del tutto organizzazioni economiche, politiche e di cultura e gli unici centri di vita associata sono la parrocchia, la pubblica sicurezza e le camorre piccolo-borghesi. I Comuni che gravitano intorno a Maglie sono legati a tradizioni, idee ed interessi tardo-feudali intorno a cui si muove la famiglia Tamborrino; i Comuni invece intorno a Galatina presentano nella loro popolazione una mentalità più progredita, di molto superiore alla media del collegio. Questa differenza è il prodotto di una onesta educazione democratica  per merito delle avanguardie repubblicana e socialista che hanno risvegliato in persone di tutti i ceti e di tutte le opinioni, sentimenti di fierezza e di dignità. Occorre a questo proposito fare una distinzione.

Fino ai primi due decenni di questo secolo dopo l’unità nazionale, la lotta di classe nell’Italia meridionale si è confusa col brigantaggio  prima e poi col ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame e con l’assalto al municipio, cioè con forme di terrorismo elementare senza efficaci conseguenze. Nonostante le avanguardie socialiste, il contadino è rimasto un elemento anarchico, incapace di organizzarsi ed inserirsi in organi di vita nuova collettiva e restìo a comprendere lo Stato, il quale è restato per esso un’entità metastorica, capace di per se stesso di produrre ovunque e sempre le condizioni di ingiustizia sociale ed economica. Di qui la necessità di distruggere lo Stato ed il principio di autorità. E’ la tesi di Bakunin largamente diffusa tra i contadini poveri del Sud, contro la quale ha per decenni lottato l’avvocato Carlo Mauro a Galatina e nel Salento.

Di contro alla tesi anarchica, abbiamo la tesi marxista della necessità che il proletariato intesifichi la lotta politica diretta alla conquista dello Stato borghese ed alla sua sostituzione con lo Stato proletario, fino alla abolizione dei contrasti di classe e delle classi stesse.

Interviene la prima guerra mondiale e soltanto le conquiste spirituali realizzate durante le esperienze comunistiche in trincea ed in battaglia, hanno spinto i contadini meridionali a perseguire un fine storico concreto e ad uscire dal tumulto incomposto di diffidenze e dal disordine caotico di rancori, per porre le basi ideali e politiche del processo di sviluppo del proletariato verso la formazione dei partiti di massa nazionali ed internazionali.

Non v’è dubbio che l’avanguardia repubblicana rappresentata nel Salento da Antonio Vallone, abbia costituito nel decennio a cavallo dei due secoli, nel territorio di Galatina, il tentativo più avanzato di organizzazione e di disciplina delle masse, ed in questo senso, sin dal titolo del presente capitolo, noi abbiamo parlato di modernità, sia pur relativa alle estreme possibilità, da parte dell’ideologia repubblicana storica di origine risorgimentale, di essere veramente moderna. Date le obiettive e reali condizioni della società del Salento e del Sud in generale, l’opera di Antonio Vallone durante l’egemonia giolittiana ci appare molto significativa, perché si è svolta in circostanze difficili ed irte di insidie. Vi è in essa la connessione tra la nozione di modernità e quella di progresso, laddove per meridionalismo moderno noi intendiamo un meridionalismo critico nel duplice senso di critica e di autocritica della società. Si spiega così perché il “blocco popolare” Mauro-Vallone a Galatina diviene mediazione storica tra progresso e conservazione.

4. Il coppino e la scheda girante

Il rapporto tra le classi si complica e si aggrava al momento delle elezioni. I giolittiani ricorrono ai metodi più spregiudicati per vincere. Tra i più comuni e quello utilizzato più spesso, è il metodo di fare il coppino; l’altro è quello della scheda o busta girante. Il coppino è il ramaiolo con cui si aggiunge acqua nella pentola. Fuor di metafora, in epoca giolittiana le urne elettorali hanno avuto tale apertura circolare da prestarsi alla possibilità del coppino, cioè alla introduzione in massa nell’urna di un determinato numero di schede già preparate coi nomi di chi si vuole assicurare la vittoria. La scheda girante o busta girante è un altro degli artifizi a cui si ricorre per adulterare i risultati di una elezione. Essa si organizza così. Il comitato che vuole fare il broglio si procura con tutti gli espedienti un certo numero di buste ufficiali ed in una di esse viene messo il foglio del proprio candidato, la busta viene chiusa e consegnata all’elettore di cui si vuole controllare il voto. L’elettore, tenendo in tasca la busta già predisposta, si presenta al seggio e riceve la busta ufficiale, si ritira nella cabina di votazione, mette in tasca, senza chiuderla, la busta ricevuta dal seggio, e poi presenta al seggio quella che ha portato con sé; quindi consegna al comitato intatta la busta ricevuta dal seggio per dimostrare di aver usato l’altra, ed il comitato con questa nuova busta ricomincia il gioco con il nuovo elettore. Una sola busta girante può così inquinare tutti i voti di un’intera sezione.

Questo metodo mette in crisi la libertà politica e ne costituisce l’antitesi. Emerge di qui il problema del suffragio universale. A tal riguardo nel partito repubblicano v’è perplessità. Una parte del partito teme che il diritto di voto induca le moltitudini rurali a votare per i clericali. Antonio Vallone, invece, vive nel Sud e sa che per il contadino meridionale il clero è costituito da individui che fanno scongiuri magici per santificare certi momenti solenni della vita, ma hanno scarsa autorità nelle questioni concrete di interesse immediato. Si batte perciò per il suffragio universale che considera, oltre tutto, un momento educativo, in quanto mezzo per epurare lentamente la vita meridionale e strumento di educazione politica; perché, molto più della scuola, l’esercizio di esso dà al popolano il concetto di un interesse collettivo e gli fa sentire di essere un elemento organico della società, in quanto dalla sua azione può venire e danno e vantaggio alla comunione di uomini che lo circondano.

Intrecciato col tema del suffragio universale è in Antonio Vallone quello del rapporto pedagogico con le masse, che si invera nella scuola.  La lotta contro l’analfabetismo gli appare il presupposto della presa di coscienza della propria condizione subordinata da parte dei contadini e degli operai, e dell’esigenza di abolirla al fine di realizzare una radicale trasformazione sociale. Non si dimentichi che il Vallone è stato per più di un ventennio docente ordinario di costruzioni nell’Istituto tecnico “O. G. Costa” di Lecce.

Nel Discorso sull’insegnamento religioso nelle scuole tenuto a Maglie il 12 aprile 1901 il pensiero della laicità della cultura ne emerge in piena luce. Se cultura significa il mondo della produzione spirituale in contrapposizione al mondo della necessità naturale, per cultura laica il Vallone intende la forma che assume la vita dell’anima del soggetto in quanto, nella elaborazione della molteplice esperienza, essa esercita, esplica ed espande i propri poteri, e l’uomo si rende così valido e sicuro artefice della vita e del mondo umano. A tal fine, secondo Antonio Vallone, la scuola laica non deve imporre credenze religiose, filosofiche e politiche in nome di autorità sottratte al sindacato della ragione, e nei suoi riflessi etici, educativi e giuridico-politici, il momento della laicità deve segnare l’attualità del dialogo contrapposto, per la sua apertura  logica e pratica, al principio del logos, fondamento del dogmatismo metafisico e dell’intolleranza ideologica.

Perciò il nome di Antonio Vallone si lega a buon diritto alla preistoria dell’ora di religione nelle scuole, una preistoria nebulosa almeno quanto la storia dei nostri giorni.

Si cominciò nel 1859 con la legge Casati che introduce nella scuola il direttore spirituale per la predicazione ed il culto. Nel 1907 il socialista on. Leonida Bissolati presenta la mozione: “La Camera invita il Governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma l’insegnamento religioso…”. Firmano la mozione Bissolati, Aroldi, Mirabelli, Comandini, De Felice Giuffrida, Turati, Barzilai, Tasca, Ferri, Badaloni, Morgari e Vallone. Soltanto nel 1910, col modernismo, si partla per la prima volta di insegnamento storico-religioso e l’argomento viene discusso, in margine alla riforma Gentile, in un dibattito cui partecipano Salvatore Minocchi e Raffaele Pettazzoni.

5. Il carattere

Anche il protezionismo per Antonio Vallone ha un fondamento morale e politico, e di prim’ordine, oltre al movente economico. Del resto su questo argomento egli è stato in buona compagnia di Antonio De Viti De Marco, il teorico liberista, coetaneo, parlamentare e corregionale. Certo è che non si capirebbe il protezionismo economico di Vallone, senza risalire alle condizioni dell’agricoltura della Puglia e del Salento al tempo della rottura del trattato di commercio con la Francia nel 1887.

Dieci anni prima di questa data, molte terre pugliesi e salentine coltivate a bosco e a grano sono state cedute dai latifondisti in enfiteusi ai piccoli coltivatori, per essere messe a vigneto. Le terre sono state dissodate e messe a coltura, ma quando l’enfiteuta deve raccogliere i frutti del suo lavoro e pagare i debiti contratti per il dissodamento e per la coltivazione, la rottura delle relazioni commerciali con la Francia nel 1887 decima i prezzi dei vini. I coltivatori falliscono e i proprietari riacquistano le loro terre, prima incolte ed ora messe splendidamente a vigneti, e raccolgono così il frutto del lavoro altrui, perché, intanto, il prezzo dei vini riprende lentamente a salire. Questo fatto è tenuto presente da Antonio Valllone, quando in età giolittiana il protezionismo zuccheriero, siderurgico e dei cantieri navali aggrava la situazione del ceto medio meridionale mediante il rincaro dei prezzi, specialmente dei generi di prima necessità. Il protezionismo economico gli appare allora come il prodotto del pregiudizio che vede nella sola attività industriale il mezzo di aumentare la ricchezza del paese. In realtà esso, più che creare nuove fonti di ricchezza, ne determina un semplice spostamento a favore di pochi privilegiati del Nord e del Centro, e per di più distrae capitali da forme di produzione che la natura destinerebbe a mirabile fioritura, quali potrebbero venire, per esempio, dall’agricoltura meridionale, senza dire che il protezionismo medesimo, chiudendo all’esportazione dei prodotti agricoli i mercati stranieri, riduce il potere d’acquisto del consumatore nazionale ed in particolare di quello meridionale. Il problema, quindi, diventa morale, in quanto col protezionismo si favorisce la speculazione e si incrementa il parassitismo statale che contribuisce a far degenerare il costume e gli istituti democratici, dando vita a gruppi organizzati che si fanno valere in campo economico col favore governativo.

E viene il momento in cui tutte queste gerarchie spirituali, che abbiamo fin qui passato in rassegna, si centralizzano in una prova di carattere, di fierezza e di dignità.

Siamo nel 1919, alla vigilia delle elezioni, e Giolitti tenta con Vallone il gioco che, pur alla vigilia di altre elezioni, gli è riuscito nel 1915 col senatore radicale Giovanni Bombrini. Costui aveva accettato da Giolitti la nomina di ministro dei lavori pubblici in cambio dell’impegno, a nome della sinistra radicale, a lasciare al governo mano libera nella politica estera e in cambio della cessione allo Stato dell’Acquedotto pugliese costruito sotto la sua direzione in modo molto precario.

A Vallone viene offerto il sottosegretariato ai Lavori pubblici. Forse anche in contrasto con gli interessi del Mezzogiorno, dopo matura riflessione, l’uomo rifiuta, provando così a Giolitti che nel Sud si governa anche sul piano dei valori morali, e non con la monomania dei lavori pubblici.

E veramente si deve rinvenire in quest’atto di fede e prova di idealità, un richiamo agli “ideali di Oberdan, accolti generosamente nella giovinezza ed ora sostenuti virilmente e realizzati patriotticamente”; ed inoltre un mondo di valori emersi da una sedimentazione culturale anch’essa antica, che hanno perciò carattere di universalità e garantiscono la dignità dell’uomo e della sua azione.

Dietro l’atto di fede di Antonio Vallone, c’è l’esempio di Francesco De Sanctis che nel 1865, quando è già cominciato lo sfaldamento della destra dopo i luttuosi tumulti del settembre 1864 a Torino, causati dal trasferimento della capitale a Firenze, cade nelle elezioni politiche a favore del comprovinciale Giuseppe Tozzoli, ma non se ne duole ed alza anch’egli – forse il solo nel Sud – la bandiera degli uomini nuovi che accettano i nuovi ordini della giovane sinistra come un gran progresso; c’è l’esempio di Giustino Fortunato che si batte da mesi dopo il regicidio ed il malfermo governo Sarracco per un ministero che operi con lealtà verso lo Statuto e ripudii ogni intendimento ed ogni velleità di reazione. Il 15 febbraio 1901 il Ministero Zanardelli, che Umberto I ha respinto nel 1892, è una realtà, e Giustino Fortunato viene invitato da Vittorio Emanuele III ad entrare nel governo, ma rifiuta convinto che la sua azione in avvenire è più efficace se egli rimane isolato ed indipendente. Francesco De Sanctis, Giustino Fortunato ed Antonio Vallone: sono tre solitudini che vengono dalla storia e dalla provincia del Sud ad insegnare una nuova e moderna funzione dirigente che ammonisce di dover intendere la storia del paese attraverso le sue autentiche contraddizioni.

Quando Antonio Vallone muore, il 7 febbraio 1925, da circa tre anni in Italia imperversa il fascismo, la più grave contraddizione della nostra storia recente, con le sue sagre, con l’eccitamentro alla violenza, con la caccia all’uomo, con i dialoghi con la folla e le minacce della santa canaglia. In quegli ultimi mesi il regime è sembrato vacillare sotto il peso delle accuse per l’assassinio di Giacomo Matteotti. Antonio Vallone, bene allineato sul fronte di resistenza su posizioni costituzionali legali, ha spiritualmente condiviso la campagna morale e statutaria condotta dalle varie opposizioni contro il capo del fascismo. Quando Mussolini si assume pubblicamente la responsabilità del delitto, gli organi dsi polizia vigilano con maggiore rigore sui gruppi d’opposizione. Perciò il giorno dei funerali di Antonio Vallone a Galatina l’apparato poliziesco è imponente e la maggior parte in borghese. All’ufficiale di pubblica sicurezza, maggiore Miegge, non sfugge la presenza nel corteo di una falange composta e disciplinata di popolani che partecipano per solidarietà democratica al trasporto funebre. L’ha organizzata l’avvocato Carlo Mauro, da tempo tenuto d’occhio dagli apparati di polizia. Scatta subito la convocazione in caserma e l’ammonizione.

Quel giorno a Galatina e nel Salento è nato l’antifascismo militante, come incentivo al riscatto dall’oppressione e come continuità della vita e della storia democratica.

“Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi”. Alla fine della vita, di uomini come Antonio Vallone si può parlare così, in senso paolino.

[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 1-20]

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