Letteratur (e) Rerum vulgarium fragmenta 11. Quella cosa chiamata passione

di Antonio Errico

Dopo aver vinto  lo Strega, Antonio Pennacchi disse che  non riusciva più a scrivere. Il successo lo aveva distratto, frastornato, bloccato. Era come se la scrittura rifiutasse quella condizione nuova e sconosciuta. Forse questo accade quando ci si ritrova a confrontarsi con scritture autentiche, di quelle che richiedono, pretendono un consegnarsi ad esse senza condizioni, senza distrazioni.

Per vent’anni  Stefano D’Arrigo scrisse e riscrisse Horcynus Orca.  Cominciò negli anni Cinquanta; per tutti gli anni Sessanta corresse alcune parti, ne cambiò interamente altre. Il lavorio intenso, ossessivo, intorno ad una sola parola, un solo suono, lo racconta magistralmente Walter Pedullà in  Il pallone di stoffa.

Horcynus Orca è  un libro che non solo ha richiesto una dedizione assoluta a chi l’ha scritto, ma anche a chi ha inteso o intende leggerlo. Un capolavoro che non passerà mai di moda, perché non è stato mai di moda.

Una sera, a Lecce, in occasione della presentazione di un suo libro, Vincenzo Consolo mi disse che a volte si dannava per intere settimane alla ricerca di una parola:  perché doveva essere esattamente quella e non un’altra, non poteva essere un’altra, perché il pensiero, il suono, il ritmo pretendevano quella parola, insostituibile, assoluta. Consolo ha sempre avuto pochi lettori, eppure è tra i più grandi scrittori che il Novecento ha generato.

Di Joyce è proverbiale la lentezza nella scrittura. Si racconta che un amico, capitato un pomeriggio in casa sua, lo abbia trovato in stato di totale abbandono, con la testa riversa sul tavolino. Allora l’amico gli domanda cos’abbia. Lui gli risponde che aveva scritto sei parole. Allora l’amico gli dice: ma come? Per te sei parole sono un record. E James: sì, ma non so in che ordine vanno.

Che cosa siano i libri di Joyce, è assolutamente inutile dirlo. 

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