Gli effetti redistributivi dell’inflazione importata

di Guglielmo Forges Davanzati

L’inflazione, in Europa e in Italia, ha raggiunto livelli allarmanti e temporaneamente rallenta. È comunque il valore più alto degli ultimi quarant’anni. In assenza di meccanismi di indicizzazione delle retribuzioni monetarie ai prezzi, come quelli vigenti negli anni Settanta, l’incremento pure rilevante su base annua del livello generale dei prezzi implica una consistente riduzione del potere d’acquisto delle famiglie e comporta crescenti difficoltà, per le imprese, nel chiudere i bilanci almeno in pareggio. L’impatto della povertà energetica, al momento, è ancora attenuato dal fatto che le famiglie italiane hanno accantonato risparmi nel periodo del lockdown. Ma lo scenario più verosimile è di ulteriore aumento dei prezzi. L’inflazione statunitense è una storia a parte, dal momento che, a differenza di quella europea e italiana, dipende da una dinamica sostenuta della domanda interna. Per contro, l’inflazione europea e italiana è fondamentalmente causata dalla guerra in Ucraina, sia come effetto delle contromisure russe (in particolare, la restrizione dell’offerta di gas), sia in conseguenza della perdita di produzione di materie prime alimentari: in primo luogo, il grano. L’aumento dei prezzi, nel nostro Paese, comincia a manifestarsi dal 2021. Questa dinamica, che segna la fine della lunga stagione di deflazione (cioè di rallentamento dell’inflazione) avviatasi dopo la crisi finanziaria del 2008, è essenzialmente causata dalla fine del lockdown – e dunque dal fatto che le famiglie hanno ripreso a spendere – e dagli strozzamenti delle catene globali del valore. Si tratta del rallentamento, in primo luogo, dei traffici marittimi e delle difficoltà logistiche che si generano nel periodo della pandemia. Agisce in tal senso anche la deglobalizzazione, cioè la tendenza delle grandi imprese a tornare in madrepatria riducendo gli investimenti in Paesi rischiosi: questa dinamica, infatti, riduce l’offerta su scala globale.

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