«Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970) di Vittorio Bodini

E dunque gli interventi di Bodini, disposti secondo una stretta diacronia – quasi a comporre una rigorosa e documentata biografia letteraria ‒, sono presentati da Giannone alla luce di una diade fondante ‒ il tempo (la Storia), l’umano (l’integralità dell’essere) ‒ che innerva quasi come inconscio principio programmatico la complessa totalità delle ragioni e delle intenzioni dell’opera/vita: nella contigua interscambiabilità dei termini, cioè, sempre tesa ad un agonismo della letteratura che è piena partecipazione all’attualità storica (lungo l’asse romanticismo europeo/Baudelaire) e profonda moralità (di stampo quasi protonovecentesco, risorgimentale, barettiano e solariano), dove l’ethos non s’ingolfa nelle attese metafisiche dell’“attraversato” ermetismo (sempre sconfessato ma mai completamente eradicato), ma si esteriorizza tutto in una letteratura e in una “cultura” intese nella loro ineludibile storicità, nel precipuo carattere cioè di «manifestazione umana» (p.16).

Le “mobili (e nuove) prospettive”  bodiniane, insomma, sono sin dal principio quelle che Giannone ascrive, nello scrittore, alla incoercibile tensione verso l’“impura” realtà: un movimento della coscienza poetica che palesa sempre più chiaramente «l’esigenza, di natura profondamente etica e civile, di un’apertura al reale, alla polis, alla comunità degli uomini» (p. 14). In questa direzione, il titolo del volume acquista una dimensione dalla schietta e duplice evidenza programmatica (del Bodini critico e dello scrittore): l’espressione «allargare il gioco», che egli usa nell’articolo Invito alla retorica (con una nota sul gioco d’azzardo), in letteratura «significa per l’appunto includervi tutte le impurità, tutte le retoriche: e vedere poi se si è capaci di bruciarle» (p. 81). L’invito di Bodini «diventava così una metafora dell’esigenza di una maggiore partecipazione umana e di un più diretto impegno, al tempo stesso etico e letterario, che dovevano mostrare gli scrittori» (p. 18): e la silloge di Giannone rileva in una serrata ricognizione le progressive tappe di questo percorso.

In questo orizzonte si inarcano l’estrema circolarità e costanza dei temi bodiniani, e «nascono le sue proposte più originali e innovative anche in campo poetico» (p. 10): lo scritto del 1946 prelude, ad esempio, e declina nello speculare campo del reale quello che Bodini tenterà, di lì a pochi anni, nella rivista «L’esperienza poetica»: «nuovi esempi e scoperte che allarghino il senso della vita, […] fuori dal carcere dell’attuale condizione della poesia italiana» (Conformismo e vocazione classica, 1954); e nel medesimo orizzonte Giannone legge l’itinerario bodiniano – di un «impegno, al tempo stesso etico e letterario» (p. 18) – che è vocazione pervicacemente sottesa all’arco spiegato fra i due limiti temporali di questa silloge: dal precoce ma già fondato europeismo, le cui avvisaglie lo studioso riscontra nelle letture avide del soggiorno nella “nuova patria” fiorentina (Kafka, Proust, Joyce assieme a Montale, Cecchi e Campana), travasate negli scritti per «Vedetta mediterranea» (dodici numeri dal 1941 al 1943) lungo le linee esegetiche «del lettore-critico, o critico partecipe […] secondo il modello della critica serriana […] che fa emergere in questi scritti [Compianto di Joyce e Opinione su Poe e Kafka] una forte istanza di natura morale» (p.10), alla Lettera a Carmelo Bene sul barocco del 1970, dove il “barocco”, termine ad altissima frequenza negli scritti, e nei versi, di Bodini, ripete l’assunto iniziale, e cioè quello di essere una «nuova maniera di intendere il mondo e la vita» (p. 176).

Lungo questo arco temporale, le ventisei “prose critiche”, qui opportunamente riprodotte secondo la lezione della prima e quasi sempre unica stampa, e tratte da testate quali «Vedetta mediterranea», «Letteratura», «Libera Voce», «Domenica», «Ricostruzione», «La Tribuna del Popolo», «La Gazzetta del Mezzogiorno» e «La Fiera letteraria», evidenziano le ragioni interne e formali di queste costanti ideologiche bodiniane, in cui il “nuovo” deve collegarsi alla riscoperta di una moralità della letteratura, ad una dimensione europea della “cultura”, alla “politica”  intesa come realizzazione integrale dell’umano. Alla luce di questi presupposti, e della serrata dialettica fra modernità e tradizione, si offrono qui gli articoli bodiniani partendo da quelli pubblicati dal settimanale leccese «Vedetta mediterranea»  (1941) in poi: così per Piovene, in cui alla scrittura «densa di durata» si accostano talvolta «eccessi descrittivo-narrativi» che ne «compromettono la prosa “morale”» (p. 13); o per la narrativa di Silone che, in tempi di “ricostruzione” postbellica, adopera ancora un «linguaggio artificiale e penoso» (ibidem) e lontano dall’uomo.

 Il «tormentoso e vivace sentimento» (p. 61) bodiniano della polis è per Giannone «tematica costante […] dell’apertura, dell’attenzione al reale, alla comunità degli uomini» (p. 17) nello scrittore. Menzionato nell’articolo del 1945 (Il gasista di Montale), a rintracciare ‒ per Bodini che legge in Montale il «primo maestro della polis sperata» ‒ il riferimento agli uomini e alle città «dalle prime apparizioni negli Ossi» al “gasista” di Costa San Giorgio (ibidem), questo “sentimento” di una «ricostruzione letteraria»  in direzione di una «funzione europea» (p. 16) e di una “cultura” aderente alla storia e all’uomo caratterizza anche gli articoli La cultura tradizionale e la “giovane letteratura” e quelli su Gozzano e Caproni. Qui le due direzioni enucleate dalla “lettura” di Gozzano (“il rinnovamento del linguaggio”: «non solo lessicale, ma anche tematico perché Gozzano ha contrapposto al superuomo dannunziano l’antisuperuomo», p. 19) e da quella sull’autore di Stanze della funicolare («il poeta nel quale si nota con più evidenza questa vicinanza alla vita, che significa anche umanità, passioni, sentimenti», p. 25), attestano per Giannone i chiari prodromi, in Bodini, di quel processo di ricostruzione – intesa sempre come letteraria e umana, e di lì a poco tentata con l’“avventura” dell’«Esperienza poetica» ‒ che avrebbe rappresentato, pur in maniera ambivalente e dilemmatica, anche un “fare i conti con l’ermetismo” («un chiarimento, forse più per se stesso che per gli altri, su quella che definisce “la chiave della nostra generazione”», p. 27) e su cui Le vergini ermetiche,  Antichi e nuovi “ismi” e All’insegna dell’Arte-Vita svolgono una sofferta riflessione: dove agli intellettuali di entrambi gli schieramenti, colpevoli dell’esilio dalle città degli uomini (gli ermetici o la “giovane letteratura”) o dell’«aver ignorato la poesia novecentesca, primo fra tutti Montale» («la cultura storico-idealistica», p. 55), si chiedevano finalmente «nuove prospettive acquistate alla società nazionale» (p. 116). 

Questa “rivoluzione”, morale prima e più che politica, avrebbe coinciso, in Bodini, con la “scoperta” del Sud e della “provincia” da parte della narrativa e della poesia novecentesca: «dalla Sicilia di Verga a quella di Vittorini, dalla Calabria di Alvaro alla Puglia di Saponaro, alla Lucania di Levi, alla Campania di Rea» (p. 116).  L’articolo sul romanzo di Massimo Lely, Via Gregoriana, è sintomatico per Giannone del fermo contrapporre, da parte di Bodini, «alla problematica nazionale che gli sembrava vuota e artificiosa, la concretezza, l’autenticità della provincia» (p. 23). «Allargare il gioco» significava allora includere, negli sterminati territori dell’“invenzione”, tutte quelle realtà e quel “sentimento del nuovo” inteso quale acquisizione di “mobili prospettive” alla letteratura nazionale tramite appunto la nuova narrativa (e poesia: i vari Sinisgalli, Scotellaro, Quasimodo) che Bodini chiamerà a raccolta nell’«Esperienza poetica», ma che già qui, nella significativa durata di queste prose critiche “prima”di quella, il bodiniano “poeta civile” (dove «civile» – chiarisce ‒ allude all’«umana civiltà», p. 157) intercetta e motiva.

In un intervento del 1953 Rocco Scotellaro, inserito da Bodini nell’allora prossima rivoluzione poetica “provinciale”, ebbe a dire dell’amico e sodale: «Ci sembra che Bodini abbia scritto tenendo in mano una penna e un rasoio per compiere, egli, un lavoro critico di sé e della poesia italiana». In questa preziosa ricostruzione della intensa e feconda parabola del Bodini critico e saggista Giannone ci restituisce le mobili linee e la memoria di quel tempo, e tutta la terrestre civiltà, da cui si dipartono le ragioni estetiche e umane della poesia di Bodini, e della sua statura di intellettuale “europeo”.

[In “Critica letteraria”, a. L, fasc. 1, n. 194/2022, pp. 198-201]

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