Inchiostri 111. Leggendo Attilio Bertolucci

di Antonio Devicienti

Allievo di Roberto Longhi, condirettore di Paragone, modernissima rivista che stabilisce connessioni tra arti figurative e letteratura e autore di numerosi interventi critici sulla pittura e il cinema, Attilio Bertolucci mostra da sempre nella sua poesia una particolare sensibilità per il colore e la rappresentazione soprattutto pittorica. La sua sembra essere una poesia par excellence visiva, nutrita dai toni temperati dell’autunno della Bassa parmense e da quelli bruciati della torrida estate o dalla delicatezza della vegetazione collinare e preappenninica.

Riconoscendosi nell’indole ironica e umanissima del conterraneo Parmigianino scrive un piccolo capolavoro di musicalità e d’impalpabile, ma vitalissimo movimento:

Vulcano Venere e Marte

Commovetevi tutti voi cui la gelosia
e l’amore stringono il petto doloroso
senza lasciarne mai l’area privilegiata
dagli anni ricoperta di edera e di ruggine

oh commovetevi tutti voi a questa scena
coniugale che un figlio dei miei borghi
aperti al sole d’inverno fissò sulla carta giallina
raccontando con mano impaziente e pietosa

una collera finta un’estasi tante volte aspettata
e temuta nel turbine della sorpresa gli amanti
distaccatisi e ormai ostili l’uno all’altro goccianti
piante che il mattino sonoro libera dalla bruma

e da stormi in transito qui per l’ultima volta.

(In calce la lirica reca la dicitura Parma, fine novembre, anno imprecisato, ma la datazione accertata è il 1971).

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 27. Donna in piedi che guarda il mare

2010, Matita e pastelli a olio, cm. 30 x 40.
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Presentazione di Paolo Vincenti, Donne di potere nell’Alto Medioevo – Lecce, 27 marzo 2024


Siamo a Costantinopoli nei secoli dell’Alto Medioevo. La prima donna di potere di cui si occupa
Vincenti è Elena (248-329), madre dell’imperatore Costantino. La seconda protagonista è Teodora
(500-548), moglie del potentissimo Imperatore Giustiniano. La terza donna trattata è l’Imperatrice
Irene (752-803). Con la quarta donna, Marozia, definita la “superpapessa”, ci si sposta a Roma, nel
X secolo, durante il Regno d’Italia. Tre di queste sono salite agli onori degli altari. Vincenti non
riesce a nascondere il suo stupore in diversi passaggi del volume per questa anomalia che
considera paradossale, priva di una reale sostanza edificante, alimentata da una doppia morale e non sorretta da presupposti istruttori che possano spiegare senza ombra di dubbio la parabola della
santità, Vi è però un dettaglio, che nel racconto storico appare ininfluente in quanto non cancella la
contraddizione in alcune figure di santi tra virtù pubbliche e private, che è il diverso percorso
seguito dalle autorità ecclesiastiche nel determinare i caratteri della santità, che non sono quelli
direttamente riconducibili ad una vita dissoluta e moralmente disprezzabile, ma al suo approdo
finale, pienamente riscattato da atti in linea con le aspettative e con i modelli perseguiti per fornire
esempi di ammirazione e imitazione ai fedeli di riferimento. Dentro questo quadro si possono situare le biografie di Elena, Teodora e Irene, donne di potere che hanno conseguito il riconoscimento della santità dopo essersi distinte per i loro “malvagi” maneggi all’interno delle corti imperiali e prima ancora per le loro “immonde colpe private” che segnano la loro esistenza. Vincenti rinuncia ad esplorare la documentazione curiale per fissare la sua attenzione
esclusivamente sulla letteratura apologetica che meglio di altre aiuta a dipingere i loro ritratti così
come sono apparsi a personaggi coevi o di epoca immediatamente posteriore. Per Elena, madre
dell’imperatore Costantino e promotrice delle reliquie di Terra Santa, si affida principalmente ad
Eusebio di Cesarea e alla “legenda Aurea” del vescovo di Genova, Jacopo da Varazze, per Teodora,
moglie di Giustiniano, alla “Storia Segreta” di Procopio di Cesarea, per Irene, imperatrice di
Bisanzio, a svariate testimonianze, mentre per Marozia, la quarta donna biografata esclusa dal novero dei santi, all’opera di Liutprando da Cremona. Si tratta di fonti curvate a narrazioni
precostituite, a fustigare cioè i costumi del tempo e inevitabilmente a mettere in cattiva luce le
figure femminili prescelte. Vincenti va oltre, cercando anche nella letteratura accademica più
recente riscontri e appigli. La scelta del tema ha indirizzato la forma del libro verso una più distesa
esposizione di biografie, fra aneddotica e dato storico, leggende e realtà, con un taglio
essenzialmente divulgativo, che ne fa un volume del tutto godibile da un’ampia fascia di lettori.
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Prefazione a Giovanni Verga cent’anni dopo. Atti del Convegno nazionale, Casarano di Lecce, 12 ottobre 2022

di Fabio D’Astore

In occasione del centenario della scomparsa di Giovanni Verga (Catania, 1840-1922), mercoledì 12 ottobre 2022 a Casarano di Lecce, presso l’auditorium “G. Pisanò”, si è svolto il Convegno nazionale di Studi intitolato Giovanni Verga cent’anni dopo. Com’è ovvio, il Convegno non aveva la pretesa di affrontare in toto la produzione artistica del Verga, ma l’intento di sottoporre a un rigoroso esame critico alcuni aspetti della multiforme e prolifica attività letteraria del grande scrittore siciliano.   Articolato in due sessioni, (una mattutina, l’altra pomeridiana), entrambe presiedute da Antonio Lucio Giannone, il Convegno è stato aperto dalla coinvolgente lettura di un brano dei Malavoglia, a cura dell’attore e regista Marco Antonio Romano, a cui è seguita una breve presentazione di L. Giannone che ha introdotto i lavori. Si sono quindi succedute le quattro relazioni previste nel corso della mattinata, tenute da Marco Leone (Università del Salento), Giampiero Ruggiero (Università del Salento), Eugenio Imbriani (Università del Salento), Josè Minervini (Comitato di Taranto della Società Dante Alighieri). Durante la sessione pomeridiana, sono intervenuti Emilio Filieri (Università di Bari), Maria Gabriella Riccobono (Università di Milano), Antonio Romano (Università di Torino), Fabio D’Astore (Università del Salento), Beatrice Stasi (Università del Salento).

            Al Verga, autore di romanzi, novelle, opere teatrali, non sempre accolti con favore dalla critica, sono state rivolte le attenzioni degli studiosi provenienti da diverse Università, ai fini di una rivisitazione di aspetti significativi della narrativa verghiana e di una ricognizione dell’opera del catanese nell’ambito del canone dei manuali scolastici, con riferimento anche a opere cosiddette ‘minori’ e ad aspetti (quello linguistico, quello lessicale e altri) non sempre adeguatamente analizzati. Gli interventi, perciò, hanno preso in considerazione anche possibili ricadute in ambito didattico, offrendo indicazioni utili ad esplorare piste d’indagine poco battute.

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Il sacro

di Gianluca Virgilio

Voglio raccontare la storia dei funerali di mio cugino Antonio, morto un po’ di anni fa. Antonio aveva all’incirca venticinque anni quando fu preso da un tumore che lo portò a morte dopo molte sofferenze. Il compianto fu grande, come sempre accade quando muore un giovane, che avrebbe avuto tutta una vita davanti a sé. Quando muore un giovane sentiamo che è la stessa possibilità di vivere che è negata da una forza oscura e malvagia contro cui nulla possiamo. Genitori disperati, parenti affranti, amici sgomenti. Tutta Corigliano d’Otranto non parlava d’altro.

Il corteo funebre partì da casa alle tre del pomeriggio, con grande partecipazione di popolo, per percorrere la strada principale del paese. Fu nella pubblica piazza che avvenne qualcosa che non mi aspettavo: lungo la via che separa in due parti la villa comunale, a destra e a sinistra, s’erano schierati, a distanza di cinque metri l’uno dall’altro, una ventina di giovani che dovevano avere la stessa età di Antonio, ognuno dei quali recava in mano, agitandola, una bottiglia di spumante, che stappò al passaggio del feretro portato in spalla a turno da quattro di loro, lasciando cadere per terra il contenuto inutilmente sparso. Non so più quale saluto quei giovani urlarono nella strada silenziosa, dove solo potevi udire il calpestio della processione e un pianto sommesso che si confondeva con le preghiere dei partecipanti. Io ero nel corteo insieme ad Ornella e ai miei cugini e in quel momento sentii che un fremito attraversava i corpi, un gelo accapponava la pelle e stordiva gli animi dei presenti. La sensazione non era soltanto mia, ma di tutti i convenuti.

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Sugli scogli 9. Quel trio

di Nello De Pascalis

Michael Ancher, Tre pescatori, 1895.

          Stabilimmo l’ora della partenza e la meta: mezzanotte, marina di Andrano, parcheggio grande. Eravamo un trio solidale, avido, spavaldo, ed era raro che uno si muovesse senza gli altri. Fernando, vecchio compagno di scuola media e mio medico di famiglia, era l’unico a roddhularsi, e quando passavamo a prenderlo non sapeva che dire: “Scendete” e noi si doveva scendere. Preparava con calma la moka e iniziava discorsi che andavano per le lunghe. Roberta, la figlia, (non la vedo da anni ma so di lei: laurea, matrimonio, gemelle; le mando un saluto, un abbraccio) si burlava di noi: “sciati meju a femmane”, diceva e Fernando rideva compiaciuto. Gaetano, al contrario, era puntuale se non in anticipo sugli orari stabiliti.

          Partimmo che era già l’una. All’incrocio per Vaste una macchina ci precedeva e mi balenò  l’idea che fossero pescatori diretti laddove noi ci dirigevamo. Mi accingevo a superarla quando svoltò per Poggiardo. Succedeva sempre così, ossia temevamo che chi ci precedeva potesse fregarci la posta.

          Fummo a Castro (sulla discesa di Acquaviva rividi scorci calabri e dal finestrino aperto entravano i profumi della notte), poi a marina di Marittima, indi a quella di Andrano. Un rombo pauroso saliva dal mare agitato; cercammo mentalmente qualche tratto di costa più al riparo: niente sull’Adriatico che facesse al caso. Puntammo sull’altro mare, verso Porto Selvaggio, zona ficalindie, convinti che lo Ionio fosse meno forte e dove, altre volte, il mare grosso arrivava franto. A quell’ora della notte la gente dormiva e la traversata fu scorrevole. Giunti sul posto, nel riquadro che funge da parcheggio a ciglio strada, non c’erano macchine in sosta e questo era un indizio su cui riflettere; saggio sarebbe stato tornarcene a casa e rimetterci a letto. Cosa che non facemmo.

          Saliva l’alba alle nostre spalle e l’allodola cantò per prima mentre noi si tergiversava in attesa di luce piena. Il mare si mostrò poi in tutto il suo furore: le onde s’infrangevano con violenza e producevano spuma a iosa. Nondimeno decidemmo dove metterci e che canna aprire. Tentammo, vicini l’uno all’altro, ma l’impresa fallì e tornammo a casa senza aver sentito una cannata.

          Ho perso quei compagni ed è triste ripassare dalle coste che ci videro sotto la bruma, col vento, nel pieno delle notti. Sul mare mi pare di vederli; sento l’eco di quelle voci non più voci. I ricordi m’incalzano e la nostalgia si fa sempre più struggente.

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Presentazione di Fabio D’Astore, Gaetano Romano tra letteratura e impegno civile

di Marco Leone

Lo studio che Fabio D’Astore ha dedicato al poeta e letterato casaranese Gaetano Romano è pregevole sotto molti punti di vista: perché sottrae all’oblio una figura sino a ora pressoché fantasmatica; perché lo fa raccordando insieme testualità e storicità con impeccabile acribia filologica (ai testi si accompagnano l’introduzione e la nota la testo; per le poesie in dialetto, anche le traduzioni); perché illumina il profilo di una personalità culturale che, nonostante la brevità della sua esistenza, seppe incrociare poesia vernacolare e impegno civile, risultando dunque interessante, per questo motivo, sia per il linguista sia per lo storico della letteratura che per lo storico tout court.

Soprattutto, questo libro reca in sé un ben riconoscibile marchio di fabbrica: esso s’inserisce pienamente, per metodo e per argomento, nella linea degli studi di Mario Marti e di Donato Valli sulla letteratura dialettale d’area salentina, di cui si presenta come una diretta emanazione e, in qualche modo, anche come un aggiornamento o come un’integrazione.

È noto che De Sanctis aveva sostanzialmente emarginato la letteratura in dialetto, poiché incompatibile con la sua visione centripeta delle vicende letterarie. Fu Croce a riassegnarle l’importanza che meritava con la riscoperta delle figure di Giovanbattista Basile e di Salvatore Di Giacomo e con la fondazione della categoria della “letteratura dialettale riflessa”, cioè di quella letteratura dialettale basata su un’autentica coscienza d’arte. A Contini si deve, invece, un inquadramento storiografico del fenomeno: per il grande filologo, che negava l’esistenza categorica d’una poesia in dialetto, la parte dialettale della letteratura italiana ha sempre fatto “visceralmente corpo” con quella in lingua e, in questa scia, Mario Marti ha ribadito qualche anno fa il medesimo concetto in un importante saggio sul “trilinguismo” delle lettere  italiane.

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Citazioni 12. L’umano tra il tragico e il comico

“L’umano, infatti, non è una sostanza di cui si possano tracciare una volta per tutte i confini – è, piuttosto, un processo sempre in corso, in cui l’uomo non cessa di essere inumano e animale e, insieme, di diventare umano e parlante. Per questo, mentre la tragedia porta a espressione ciò che non è umano e, nel punto in cui l’eroe prende bruscamente e amaramente coscienza della sua inumanità, sfocia nel mutismo, la persona, cioè la maschera comica, affida al sorriso la sola possibile enunciazione di ciò che non è più e tuttavia è ancora umano. E contro l’incessante, odioso tentativo dell’Occidente di assegnare alla tragedia la definizione dell’etica e della politica, occorre ogni volta ricordare che l’abitazione dell’uomo sulla terra è una commedia – non divina forse, ma che tradisce comunque nel riso la sua segreta, sommessa solidarietà con l’idea della felicità.”

Giorgio Agamben, Etica, politica e commedia, in Una voce dell’11 marzo 2024

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Manco p’a capa 190. Se chiude il negozio sotto casa…

di Ferdinando Boero

Credo che pochi ricordino i Buggles, ma chi ha iniziato a guardare MTV, nel 1981, non può non ricordare la loro hit Video killed the radio stars dove si preannuncia la morte della radio, uccisa dai video musicali: la musica non si ascolta più, si guarda. Poi c’è stata la morte dei vinili, delle musicassette, e ora dei compact disc, visto che la musica si ascolta dai file.
La televisione ha ucciso il cinema, con la chiusura dei cinema di quartiere, amalgamati in enormi multisala, di solito periferici. Le serie e i megaschermi casalinghi stanno dando il colpo di grazia al cinema. Stessa sorte per i negozi di quartiere, uccisi prima dai supermercati e ora dalle consegne a domicilio da ordini in rete. Stanno scomparendo le librerie, visto che i libri si ordinano in rete e arrivano istantaneamente, se si scaricano in formato elettronico. Non parliamo delle edicole.

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La tarantola, una tradizione tra mito, scienza e letteratura

di Antonio Lucio Giannone

La tarantola è uno degli animali “identitari” della Puglia e, in particolare, del Salento, essendo radicata profondamente nella storia, nella cultura, nelle tradizioni di questo territorio. Non a caso Vittorio Bodini, in una sua poesia, la inseriva, accanto al geco, all’“aggressiva” cicala, alla civetta, nell’inquietante bestiario salentino, “la cui favola / sa di sputi e minacce”. Il morso della tarantola, ritenuto a lungo velenoso, è legato, com’è noto, al fenomeno del tarantismo, fatto oggetto di approfonditi studi soprattutto di carattere etnoantropologico, il più famoso dei quali è il libro di Ernesto de Martino, La terra del rimorso, che vide la luce nel 1961. Esso, però, ha suscitato grande interesse e curiosità anche nei più disparati campi del sapere presso innumerevoli autori proprio per la sua singolarità e l’alone di mistero che l’ha sempre circondato. Ne è venuta fuori una copiosa letteratura su questo tema che è presa in esame da Pietro Sisto nel volume Il “morso oscuro” della tarantola. Letteratura, scienza e mito, appena pubblicato da Progedit di Bari.

Il libro non è, non vuole essere, una trattazione organica ed esaustiva del tarantismo. L’autore, un italianista dell’Università di Bari, da sempre interessato ai rapporti tra letteratura e antropologia,  mira invece a offrire un panorama delle interpretazioni, delle testimonianze, delle descrizioni che del fenomeno sono state date nel corso dei secoli. Nel primo dei cinque saggi compresi nella prima parte del volume, ad esempio, passa in rassegna teorie e ipotesi, a volte stravaganti e contrastanti tra di loro, sul tarantismo dal Rinascimento all’Illuminismo. Ogni interpretazione ovviamente è legata al tempo in cui è stata data, alle concezioni filosofiche e ideologiche tipiche di quell’epoca.

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Antonio Stanca, Universum A-12


05-09-2003, olio su MDF, cm 59,8 x 59,8.
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Parole, parole, parole 11. Il Dantedì

di Rosario Coluccia

Il 25 marzo 2021 eravamo in piena epidemia covid. Nell’Italia tappata in casa, con la popolazione intimorita e spaesata, ci fu una specie di scossa collettiva nel nome di Dante. In quel giorno si celebrava il Dantedì (giorno di Dante), neologismo formato sul modello di martedì (giorno di Marte), venerdì (giorno di Venere), ecc., evitando per una volta l’insopportabile scimmiottatura anglofona che avrebbe rappresentato un (per fortuna mai nato) *Danteday, che paradossalmente avrebbe celebrato il poeta padre della lingua italiana con un inaccettabile ircocervo italo-inglese. Le composizioni con day piacciono molto ad alcuni, che amano election day (invece di giorno delle elezioni), tax day (invece di giorno delle tasse), perfino vaffa day (traduzione non necessaria). A Taranto, città martoriata dalle polveri dell’ILVA che inducono il cancro nei polmoni dei cittadini che le respirano, si sono inventati il wind day, che indica i giorni ventosi in cui i tarantini sono invitati a tenere sigillate le finestre, per contenere l’infiltrazione delle polveri micidiali nelle loro case. Con un anglicismo mascherano la realtà atroce.  

L’iniziativa del Dantedì, nata da un’idea di Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, e di Paolo Di Stefano, giornalista del “Corriere della Sera”, ufficialmente istituita dal Ministero, celebra in Italia e nel mondo il genio di Dante: il 25 marzo è la data indicata come inizio del viaggio nell’aldilà che Dante mirabilmente descrive nella Divina Commedia. Nel 2021 ricorreva il settecentesimo anniversario della morte del Poeta: furono moltissime le iniziative organizzate dalle scuole e dalle università, dagli studenti e dalle istituzioni culturali; i giornali e le televisioni dedicarono centinaia di servizi e di articoli che celebravano la ricorrenza. Dai balconi delle proprie case migliaia di italiani declamarono versi di Dante, reagendo anche in questo modo alle angosce suscitate dall’emergenza sanitaria. Spettacolo bellissimo, una popolazione intera trovava nella cultura elementi di identità e di unità.

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Noterellando… Costume e malcostume 2. Le parole sono pietre

di Antonio Mele / Melanton

         M’è capitato, in una sala d’attesa, di leggere la rivista mensile della sezione provinciale di un benemerito Ente della Sanità pubblica. Una pubblicazione piuttosto curata, devo dire. Con notizie di oggettivo interesse, pur con qualche articolo un po’ sbrigativo, che un approfondimento adeguato avrebbe reso più completo e apprezzabile.

         Tant’è. Viviamo in un’epoca del ‘mordi e fuggi anche nel giornalismo scientifico. Le notizie sono ormai telegrafiche, ridotte all’osso, e per radio o per tv vengono divulgate da lettori o lettrici super-velocissimi, che riescono a sciorinare dieci, cento, mille parole al secondo. Per di più, urlando.

         Per capire meglio qualcosa di ciò che accade intorno a noi bisognerebbe leggere i quotidiani, che più nessuno legge, o ascoltare tre-quattro telegiornali fra loro complementari, o dare uno sguardo alle ‘news’ nelle pagine del Televideo. Che è diventato la fiera degli orrori, per i ricorrenti refusi, testimoni impietosi dell’ormai scomparsa deontologia e scrupolosità giornalistica radio-televisiva.

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Luigi Latino e Marcello Massaro, Cronache di resistenza

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Mustoxidi in Italia

di Silvia Prete

Mustoxidi in Italia è il titolo del volume pubblicato da Andrea Scardicchio nel 2022 per le Edizioni dell’Orso di Alessandria, titolo numero 125 della collana di letteratura italiana “Contributi e proposte” diretta da Mario Pozzi ed Enrico Mattioda.

Il saggio ha come base l’epistolario dell’erudito corcirese Andrea Mustoxidi, figura poco nota nel panorama letterario, ma che acquistò credito e prestigio per l’ampia dottrina con cui seppe destreggiarsi nella temperie culturale italiana ottocentesca.

Diviso in quattro parti, più un’appendice epistolare, il volume segue un ordinamento cronologico tracciando un profilo biografico e intellettuale dell’erudito greco e ricostruendo parallelamente le tappe del suo soggiorno in Italia (1802-1829), attraverso le lettere scambiate con numerosi letterati dell’epoca.

Trasferitosi in Italia per attendere agli studi universitari, Mustoxidi si iscrisse alla facoltà di Legge di Pavia dove nell’anno accademico 1802-1803 seguì il corso di eloquenza del professor Vincenzo Monti, con cui instaurò un rapporto di amicizia, di stima e poi di collaborazione, coadiuvandolo nella valorosa impresa della traduzione dell’Iliade, considerata dal corcirese un dono fatto alla sua patria.

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Inchiostri 110. Percorrendo Lecce

di Antonio Devicienti

Si può costruire un’ékphrasis intorno a un intero centro storico urbano? Forse sì, a leggere Bodini e la sua

Lecce

Biancamente dorato
è il cielo dove
sui cornicioni corrono
angeli dalle dolci mammelle,
guerrieri saraceni e asini dotti
con le ricche gorgiere.

Un frenetico gioco
dell’anima che ha paura
del tempo,
moltiplica figure,
si difende
da un cielo troppo chiaro.

Un’aria d’oro
mite e senza fretta
s’intrattiene in quel regno
d’ingranaggi inservibili fra cui
il seme della noia
schiude i suoi fiori arcignamente arguti
e come per scommessa
un carnevale di pietra
simula in mille guise l’infinito.

Inserita nella sezione Dopo la Luna (1952-’55) a sua volta contenuta nella raccolta cui forse ancora oggi Bodini deve gran parte della propria fama, vale a dire La luna dei Borboni, questa lirica è uno dei testi più compiuti e complessi del poeta salentino.

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 26. Armonica malinconia

Matita, stucco e colore acrilico, 2010, cm. 25 X 35.
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Andrea Scardicchio (a cura di), Il filellenismo nella cultura italiana dell’Ottocento

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La Giornata mondiale della poesia

di Antonio Errico

Nel 1999 la XXX Sessione della Conferenza Generale Unesco ha istituito la Giornata Mondiale della Poesia che si celebra il 21 di marzo.

Spesso accade che ci si chieda a che cosa serve la poesia, oppure se ancora serva a qualcosa in un tempo arrogante, borioso, indifferente, sotto l’impero tecnologico, nel contrasto vergognoso di opulenze e di miserie. Ma forse è proprio in un tempo che si mostra con una fisonomia deformata che serve la poesia, che serve una parola autentica e profonda, lontana da qualsiasi convenzionalismo, opportunismo, manierismo, artificio, accondiscendenza, autoreferenzialità, ambizione.

La poesia (quella vera, perché esiste anche la poesia falsa, l’esercizio senza alcun significato) è sempre stata un’esperienza di liberazione e di libertà. E’ questo che deve indispensabilmente continuare ad essere, conformandosi ai volti innumerevoli dell’Altro, ascoltandone le voci e i respiri, urlando contro le ingiustizie, le sofferenze, i qualunquismi, contro ogni sopruso, contro ogni ipocrita silenzio. Deve indispensabilmente continuare ad essere poesia onesta. Lo diceva Umberto Saba in una prosa, agli inizi del secolo passato, nel 1911: ai poeti non resta altro da fare che la poesia onesta.

Allora ci si potrebbe chiedere se esista una poesia disonesta. Certo che esiste. E’ quella di corte e di cortile, quella che si parla addosso, che lascia qualcuno esattamente come lo ha trovato, quella che non provoca il pensiero, l’indignazione, la rabbia, che non scuote la sonnolenza, non intima l’allerta, che non spaventa chi con essa ha una relazione, prima di ogni altro colui che la pensa, nello stesso istante in cui la sta pensando.

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A vent’anni dalla morte: una lettera di Nicola De Donno

di Antonio Lucio Giannone

Maglie, 27 aprile 2000

Caro Lucio,

ho letto e riletto la tua recensione a Palore. Te ne resto cordialmente gratissimo. Con chiarezza, densità (e dottrina non meno), non comuni anzi rare, esplori e giudichi l’ardua tonalità (se così posso dire) portante nella summa contenutistica del libro. Il che già non è poco. Ma anche ne hai altamente e magistralmente e pacatamente valutata la forma stilistica in ogni sua piega, e specialmente la più povera: la dialettale. Questa mi sta da sempre, e in modo primario, a cuore, e dunque tanto di più te ne ringrazio. Il tuo saggio, misurato, compatto e fluido insieme, è infatti documento autorevole e nobilitante delle potenzialità semantiche della nostra lingua dialettale, potenzialità che vanno al di là della mera espressività entro tematiche trite del quotidiano utilitaristico e vernacolare.

Ancora grazie, dunque.

Un abbraccio

Nicola

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