L’hanno chiamata con un’espressione accattivante, “la nuova via della seta”, per evocare Marco Polo e i veneziani, e creare favorevolmente un’atmosfera di accordo commerciale con la Cina, che avrebbe in Italia due grandi porti a disposizione: Genova e Trieste, per penetrare commercialmente in Europa. Lo si può chiamare come si vuole questo piano, ma nella storia qualsiasi penetrazione economica ha sempre tralignato nel politico. Bottegai e banchieri sono andati avanti, poi dopo sono arrivate le strutture politiche. Per farla breve, si ha la preoccupazione che il piano cinese sia l’inizio di un piano neocolonialistico che potrebbe alterare gli equilibri mondiali con tutte le conseguenze che non è difficile immaginare.
Come sta rispondendo l’Italia? Purtroppo…all’italiana. Intanto questa cosa cinese non c’è nel contratto di governo; e questo già crea dissenso tra le due forze politiche di maggioranza, una a favore (il M5S) e l’altra titubante (la Lega). Fuori dall’area governativa c’è chi minimizza, essendo favorevole; e c’è chi lancia allarmi, mentre le opposizioni ritengono che, trattandosi di una scelta importante e di carattere internazionale, sia necessario un passaggio parlamentare.
Gli Stati Uniti e l’Europa esprimono le loro perplessità e contrarietà. Un paese come l’Italia, inserito in due contesti importanti come l’Europa e la Nato, non può mettersi a collaborare con una potenza concorrente, imponente e planetaria come la Cina senza alterare gli equilibri mondiali. Per l’Italia si evoca la metafora del pesce grosso e del pesce piccolo; per il mondo si evocano scenari preoccupanti.
Di Maio, da sempre pronto a fare dispetti all’establishment europeo, ha detto che con questo “affare cinese” finalmente le aziende italiane hanno più opportunità per concludere affari con la Cina, mentre finora sono state osteggiate e impedite da tedeschi e francesi. Salvini, con altrettanto efficace slang populistico, ha detto che sì, va bene, ma le chiavi di casa le devono tenere bene in pugno gli italiani.
Chiacchiere populistiche a parte, le preoccupazioni sono fondate. Non c’è dubbio che qualche via di successo per le aziende italiane si aprirebbe; ma a quale costo o a quale rischio? La sicurezza prima di tutto. Per questa ragione si esclude che possano entrare negli accordi del memorandum con la Cina, che comunque non avrebbe valore giuridico e non è vincolante, settori della nostra economia che abbiano diretta o indiretta ricaduta sulle nostre strutture strategiche, che peraltro coinvolgerebbero l’Europa e la Nato, di cui facciamo parte.
Ci troviamo tra l’incudine e il martello. L’incudine della nostra collocazione internazionale, che non è in discussione, e il martello delle prospettive economiche di questa suggestiva “nuova via della seta” che porta ad un paese, la Cina, che non è un paese qualsiasi, è l’altro polo – dopo il ridimensionamento della Russia – del potere economico mondiale.
Il polo Cina che evoca nominalmente il Polo a cui noi, da italiani, siamo affezionati, ovvero quello della famosa famiglia veneziana, non è materia da sottovalutare, comporta una ponderazione. Ecco perché il passaggio parlamentare sarebbe fondamentale prima di avventurarci in una situazione dagli esiti imprevedibili. Qui non si tratta solo di affari commerciali, qui sono in gioco problemi assai più complessi. Senza eccessive esemplificazioni da una parte (i favorevoli) e senza catastrofismi dall’altra (i contrari) sarebbe giusto valutare, per usare un’espressione diventata di moda, rischi e benefici. E il luogo per farlo è il Parlamento; se no, che ci sta a fare?
[“Presenza taurisanese” a. XXVII, n. 4 – aprile 2019, p. 1 e 16]