di Rosario Coluccia
Oggi racconto un’innocente scenetta. Un professore che si chiama Grammaticus osserva con disappunto un cartello scritto a mano da un operaio. Il cartello, rivolto ai passanti distratti, recita: «Attenti al tran!». Di fronte a quella scritta il professore non può trattenersi (non a caso si chiama Grammaticus), vuol far notare all’operaio che qualcosa non va. Non intende tacere, deve parlare. Con garbo, certo, ma proprio non gli va di far passare sotto silenzio la scritta che contiene un errore evidente. E allora: «Perché io so che cos’è un tram, con la emme; ma quella roba lì non la conosco», sollecita implicitamente il professore. «Be’, ci stia attento lo stesso», gli risponde l’operaio. Di fronte alla replica immediata, il professore appare visibilmente sconcertato. Tanto visibilmente che un passante gli chiede: «Le è successo qualcosa?». «Non a me, all’ortografia!», sbotta il professore. Il passante legge il cartello e sorride. «Sorride? Beato lei! A me queste cose mi fanno piangere», commenta ancora il professore. Il passante replica: «Pensavo. In fondo quel cartello non è sbagliato come crede lei». Il dialogo chiude con due battute, botta e risposta. Professore: «Benissimo. Allora ci scriva addirittura: “attenti al trantran”». Passante: «Ecco. È proprio quello che stavo pensando. Il tram è pericoloso, ma il “TRANTRAN” è più pericoloso ancora. Il tram può spezzare una gamba, ma il “trantran” può uccidere il pensiero. Non è peggio?» A questo punto, incapace di dire altro, Grammaticus rimane a meditare sulle parole del passante. Così siamo invitati a fare pure noi: ingabbiati in un continuo trantran non corriamo il rischio di smettere di pensare? È più grave, fa più danni, smettere di pensare o un piccolo errore di grafia?