di Rosario Coluccia
La comunicazione tra gli esseri umani non si realizza solo attraverso forme che esprimono cortesia, complimenti, modi politicamente corretti (temi che abbiamo trattato in puntate recenti della rubrica). Spesso, con altrettanta frequenza, la comunicazione trabocca di insulti. «Le parole sono pietre», sentiamo e diciamo frequentemente. «Le parole sono pietre» si intitola un libro di Carlo Levi, una sorta di dolente resoconto sulla Sicilia ricavato da tre viaggi nell’isola fatti dall’autore tra il 1952 e il 1955. Altro sguardo appassionato di un piemontese sul sud, dopo «Cristo si è fermato a Eboli» (1945). «Le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre», a Levi confida Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, bracciante e sindacalista, ucciso a trentun anni dalla mafia, a colpi di lupara, all’alba. In effetti molte metafore assimilano gli insulti a colpi, schiaffi, pugni, bastonate, armi, strumenti o atti con i quali si batte e si combatte il destinatario, visto come nemico. Gli insulti si collocano nello spazio della violenza verbale, dove coesistono con critiche, rimproveri, maledizioni, invettive, denigrazioni, calunnie, minacce, accuse, imprecazioni, bestemmie, parolacce ecc., da cui non sempre sono nettamente separabili. L’insulto comporta una valutazione negativa del destinatario da parte di chi lo formula («sei un disgraziato, sei un pezzente, sei sciancato»), a volte espressa anche con domande retoriche o apparentemente dubitative («ma lo sai che sei davvero uno stronzo?», oppure «ma qualcuno ti ha mai fatto capire quanto sei stronzo?»); nello stesso tempo esprime emozioni negative (odio, disprezzo, sdegno, collera) del parlante verso il destinatario. Di solito le espressioni insultanti vengono lanciate a voce alta, con tono malevolo, derisorio o aggressivo e sono accompagnate da strepiti, da sguardi accigliati e da espressioni del volto ostili; in alcuni casi anche da gesti scomposti, da minacce di vendette o di autolesionismi ricattatori.