Di mestiere faccio il linguista 26. La lingua del politico

di Rosario Coluccia

Avevo promesso di rispondere oggi al quesito di una lettrice, ma debbo spostare di una settimana, ora mi preme discutere un fatto recentissimo. La gentile lettrice mi scuserà, troverà la risposta nel giornale della prossima domenica.

Non si può dire che ad Antonino (Nino) Spirlì, neo presidente facente funzione della Regione Calabria, piaccia passare inosservato. Si autodefinisce attore, regista e autore TV,  e anche «omosessuale a tempo perso e cattolico praticante»; per quanto riguarda il suo eclettico percorso politico e la sua attuale collocazione ognuno può cercare in rete (non ne fornisco i dati per evitarmi polemiche inutili). Quando è stato eletto, Spirlì ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Invoco la Benedizione del Signore e mi affido alle amorevoli cure della Santa Vergine Immacolata. E mi impegno a svolgere il mio compito nell’unico interesse della mia gente. Accompagnatemi solo con le Vostre preghiere. Grazie. Dio Vi voglia bene». Già prima di assumere l’incarico di sostituire temporaneamente alla guida di quella Regione (in attesa delle nuove elezione) Iole Santelli (prematuramente scomparsa), Spirlì si era fatto notare per un dibattito pubblico in cui aveva rivendicato a sé stesso il diritto di usare parole come «negro», «frocio», «ricchione», «zingaro» perché, a suo dire, sono quelle che lui aveva appreso da piccolo (ne abbiamo parlato in questa stessa rubrica il 20 ottobre). «Questa è l’era della grande menzogna», aveva sostenuto l’uomo politico, ribadendo che, per sottrarsi a imposizioni inaccettabili, lui avrebbe continuato a usare quelle parole. Opponendosi così a coloro che intendono «coprire la nostra cultura ancora ben radicata» e a questo scopo «bruciano le parole, le cancellano dai dizionari». «Non glielo dobbiamo consentire», aveva proclamato con fierezza, e la sala consenziente aveva applaudito.

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