di Antonio Prete
Il verso apre la poesia che ha il numero 657 nelle edizioni del corpus poetico di Emily Dickinson: una piccola tessera tra le 1775 di un mosaico che raffigura le stagioni di un animatissimo tempo interiore. Un tempo del vivere che è fatto lingua poetica: in quella lingua pensare è aver cura, teneramente, dell’immagine, desiderare è contemplare quel che non c’è, ma che si mostra nella forma di un possibile, insieme luminoso e negato. Un tempo dello sguardo che, di là dalla finestra, si posa su un visibile in stato di perenne metamorfosi: il giardino ha alberi-parole, fiori-sillabe, foglie-melodie. Questo movimento che appartiene alla lingua della Dickinson, non ha una poesia particolare in cui si mostra in modo intensivo, e tanto meno un verso per dir così esemplare, un verso che, come accade per molti altri poeti, sia in grado di segnalare, quasi in emblema, le forme di una poetica. Di fatto, dovunque ci si soffermi, in questa meravigliosa, estesissima, collana di versi, c’è una vibrazione della parola poetica che coinvolge il lettore in un’esperienza dei sensi dislocata fuori dalle convenzioni, portata in un tempo che con la sua luce dissipa quello spazio del vivere cui diamo il nome di reale.
Anche per la Dickinson vale l’affermazione del giovane Baudelaire: “La poesia è quel c’è di più reale: essa è completamente vera soltanto in un altro mondo”. Per la Dickinson quell’autre monde era già nella sua stanza, la stanza di Amherst con due finestre che davano sul giardino e una terza che si affacciava sul lato della casa, nella cui direzione c’era l’abitazione del fratello. Quella stanza era luce e penombra, solitudine dei passi e affollarsi dei pensieri, culla del desiderio e dimora trepidante dell’attesa, di un’attesa immensa, che a sua volta era spina e consolazione, pena e sogno. In quella stanza, in cui, vestita di bianco, una figura muoveva ogni giorno verso lo scrittoio con passo leggero, le stagioni portavano tutti i loro colori, tutte le loro voci, e il declino, e la rinascenza. Perché c’era una lingua, e un ritmo in quella lingua, che le accoglieva, tessendo, in accordo con il loro suono, una tela in cui i fili della paura – paura che prendesse campo il vuoto del desiderio, l’orrore dell’assenza – si intrecciavano con i fili che davano presenza, fremito di presenza, ai corpi venuti dalla lontananza, o dall’invisibile. Ecco, in questa stanza, sovrapporsi l’immagine di un altro abitare: