di Rosario Coluccia
Le coincidenze esistono. Scritti molto recenti trattano tutti, con qualche variazione, il medesimo argomento. Sul «Corriere della Sera» dell’8 dicembre Dacia Maraini, scrittrice notissima, nella rubrica «Il sale sulla coda», contesta l’opinione secondo cui le lingue sono neutre, sostenendo invece che attraverso la lingua si riflettono le differenze di genere e di classe e si manifesta anche la soggezione di una nazione alla politica di un Paese dominante. «Poiché le prestigiose macchine tecnologiche parlano inglese, ci si sente alla moda introducendo in ogni frase alcuni termini inglesi. Capisco le parole nuove che andrebbero comunque tradotte, ma perché si deve dire Location quando abbiamo Luogo, Spazio, Sala, Sito? E perché usare Welfare, Week-end, Leader, Breefing e Lockdown, se esistono i corrispettivi? Non siamo al servilismo linguistico?». Esattamente nello stesso giorno (le coincidenze!), un articolo di Federico Guiglia sul «Messaggero», intitolato «Noi, l’unico Paese che rinunzia alla propria lingua», sormontato dal titoletto esplicativo «Inglesismi inutili», esordisce: «E così, dopo il “lockdown” e il “Recovery Fund”, mancavano solo il “cashback” e il “cash less”. Ma lo scempio della lingua italiana – si può giurarlo – non è ancora finito. Siamo l’unico Paese di lingua neolatina che sta rinunciando a rendere nella bellissima e millenaria lingua nazionale le espressioni prese a prestito dall’inglese. Non la Francia, non la Spagna, non il Portogallo che traducono sempre nelle loro lingue i vocaboli proposti dalla lingua globale».
Siamo veramente stufi dell’invasione della lingua inglese