di Paolo Vincenti
Le tre grazie del titolo sono Francesca Capece, Concetta Annesi e Michela Tamborino, protagoniste di una stagione esaltante della storia magliese che, per quanto indagata a fondo, si ritiene valga la pena che sia rimemorata, perché davvero, con le parole di Anneliese Knoop-Graf, “dimenticanza è sciagura, mentre memoria è riscatto”.
La beneficenza a Maglie nell’Ottocento passa proprio dalle opere pie volute dalle tre donne. “Che cos’è la beneficenza? Non un fugace impulso caritatevole, secondo la concezione evangelica dell’ ‘ama il prossimo tuo come te stesso’, concezione del resto altissima di fraternità umana, ma è qualche cosa di più costruttivo, che getta le basi ideali di una società governata da princìpi morali profondamente educativi. Il benefattore è appunto la incarnazione di questa società ideale, che non nascerà mai dalla filosofia deterministica ispiratrice del materialismo storico, ma dalla grande matrice del libero arbitrio, ossia dalla capacità creatrice della volontà umana”. Così scrive Alfredo De Donno in “Donne magliesi pioniere di educazione civica”.[1] Le iniziative di cui ci occupiamo si inscrivono nell’ampia ed edificante storia della pietà e della filantropia in Italia nel tempo che fu. Le opere assistenziali conoscono una straordinaria fioritura nel nostro Paese a cavaliere fra Settecento e Ottocento e rivelano uno spirito di solidarietà che, al netto di storture, approfittamenti, corruttele, insomma quelle ombre che insieme alle luci caratterizzano ogni umana intrapresa, è testimonianza di afflato, dedizione e umana compassione (etimologicamente dal latino cum pati, “soffrire insieme”). Quella della beneficenza nell’Italia Meridionale, e quindi nel Salento, è una storia antica, che affonda le radici almeno nel Quattrocento, quando nascono i Monti di Pietà, antesignani delle odierne banche.