Dante nel 700° della morte

Cosa rappresenti Dante per l’Italia e per gli italiani è cosa nota. Egli è, senza retorica, l’incarnazione dell’una e degli altri. Dell’una ne è la consapevolezza di “nazione”, lingua e cultura; degli altri la diversità dei caratteri nella comune appartenenza. Ne siamo consci in Italia e nel mondo. Somma è la considerazione di cui il poeta fiorentino gode in ogni angolo del pianeta. Per più di un aspetto egli è il poeta dell’umanità, e dunque di tutti. L’Italia non ha mai smesso di celebrarlo e di “impegnarlo” per la propria immagine nel mondo. Basti pensare all’importanza che ha la Società Dante Alighieri per la diffusione della lingua e della cultura italiana. In alcuni paesi stranieri sono sorte società dantesche. Tedeschi, inglesi, americani lo studiano quasi fosse un loro autore e tra i più importanti di ogni tempo. In Italia la Divina Commedia, per il suo alto valore formativo, è parte integrante del programma d’italiano degli studenti del triennio superiore. Oggi, per la verità un po’ in declino. E’ l’opera che tutte le altre del poeta riassume, al punto da rendere quasi superflua l’ultimazione di alcune di esse. Il Convivio e il De Vulgari Eloquentia, opere fondamentali nel progetto politico-culturale dell’autore, rimasero incompiute. Ma esse trovano proprio nella Commedia compiutezza sostanziale, la messa in opera delle argomentazioni teoriche in esse trattate. Lo dimostra il De Monarchia, opera politica di Dante, questa compiuta, che trova nelle tre cantiche una rispondenza diffusa e articolata nei personaggi e nelle vicende narrate. La Commedia è un riepilogo, una summa, del pensiero di Dante, diversamente proposto rispetto alle altre opere.

Per gli italiani è dunque il poeta fondativo, non solo della lingua, ma dell’anima stessa di un popolo che radica la sua straordinaria identità nella differenza e nella conflittualità ma anche nell’orgoglio di appartenenza. Sembra quasi che egli abbia voluto fondare una lingua comune per far sì che meglio gli italiani si confrontassero e se occorre litigassero, senza mai dimenticare di appartenere ad una stessa entità nazionale.  

A fronte di questo pensiero la celebre frase di Massimo D’Azeglio, “abbiamo fatto l’Italia ora dobbiamo fare gli italiani”, suona del tutto vuota, una sorta di battuta ad effetto, che rivela però un approccio politico-culturale sbagliato con l’appena raggiunto stato unitario. Che, evidentemente, andava solo sapientemente organizzato nel rispetto di una situazione molto articolata. In realtà l’Italia e gli Italiani c’erano già, non nel vago di un comune sentire, di un’intuizione, ma nella consapevolezza di un grande poeta, il quale non solo ha una visione dei confini geografici dell’Italia – “sì come a Pola, presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna” – ma conosce e distingue italiani da italiani senza mai avere parole di superiorità nei confronti di nessuno per la sua appartenenza territoriale: “le genti del bel paese…”.

L’istituzione del Dantedì offre opportunità di conoscere il Poeta in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue opere fuori dei soliti canali, la scuola in primis. È un’operazione culturale importante, sia sul piano della ricerca che sul piano della divulgazione. Dante, oltre ai titoli qui da noi citati, fu autore di altre importanti opere, in versi e in prosa, in latino e in italiano; alcune delle quali (Il Fiore) gli sono state messe in dubbio da alcuni autorevoli studiosi, accendendo dispute filologiche interminabili con quanti, altrettanto autorevoli dantisti, ne difendono la paternità.

Quel che bisognerebbe tener presente nel nuovo approccio a Dante è di andare oltre il dato convenzionalmente celebrativo, che spesso altera il profilo degli autori. Dante non va enfatizzato ma conosciuto e criticato. Egli era un personaggio forte, un temperamento sdegnoso, battagliero, che aveva un’alta considerazione di sé. Egli si fa terzo dopo Enea e San Paolo ad assumersi una missione di salvezza universale. Come poeta è “sesto tra cotanto senno” dopo Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano. Il Dante che prende se stesso ad esempio, nel bene e nel male, che si fa carico del sacrificio estremo di attraversare la condizione umana per raggiungere la redenzione con la visione di Dio, invita ad avere comportamenti di alto profilo etico, di adeguare la propria vita agli insegnamenti dell’amore, della verità, della libertà, della conoscenza, della giustizia. Ma non in senso convenzionale, bensì in quello sofferto della rinuncia e della conquista.

Dante aveva idee politiche ben precise, che oggi non sono più di moda. Egli stesso avvertiva che quelle idee non erano di moda neppure ai suoi tempi; ma, a differenza di chi segue le mode, egli le difendeva con convinzione e tenacia. Le due grandi istituzioni temporali della Chiesa e dell’Impero erano già in crisi. Dell’una ne critica la degenerazione, dell’altra l’indebolimento, la vacanza. La sua utopia “regressiva” della monarchia universale si scontrava con la realtà sempre più centrifuga dei nuovi stati nazionali che sorgevano in Europa, mentre l’imperatore, che avrebbe dovuto tenere unito l’impero, non era più rappresentato da personalità all’altezza del compito. Nelle sue opere e soprattutto nella Commedia tutto questo emerge nei tanti personaggi e nelle tante situazioni lungo lo scorrere delle tre cantiche.

La sua lezione è tanto più attuale ove si pensi che, nonostante il carattere forte, in politica egli tendeva alla mediazione, segno di modernità, a differenza del suo amico Guido Cavalcanti, dal quale lo separava anche un diverso credo della vita spirituale. Quando a Firenze per impedire ai nobili di ricoprire cariche pubbliche gli Ordinamenti di Giustizia di Giano Della Bella compirono la rivoluzione borghese stabilendo che solo chi era iscritto ad un’arte o corporazione aveva diritto ad accedere al potere cittadino, Dante non esitò a iscriversi all’Arte dei Medici e degli Speziali, mentre Cavalcanti rispose in maniera sdegnata e violenta. Il che, da parte di Dante, non era affatto un cedimento ma una prova di realismo politico stante in corso in quel tempo un processo di trasformazione sociale in senso antinobiliare.

L’istituzione del Dantedì è occasione perché si torni sistematicamente sulle tante problematiche sollevate dalle opere del Poeta per trovare ai più vari livelli spunti di ricerca scientifica – gli studiosi – e motivi di confronto con la realtà presente lungo la diritta via dell’impegno quotidiano della vita.

[“Presenza taurisanese” a. XXXIX n. 3, marzo 2021, p. 6]

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