di Antonio Errico
In una poesia che s’intitola “Nel Duemila”, scritta nei suoi ultimi anni, una di quelle in cui si faceva sempre più intimo, colloquiale, sempre più attento alle sfumature dei particolari, Montale diceva: “Eravamo indecisi tra/ esultanza e paura/alla notizia che il computer/ rimpiazzerà la penna del poeta./ Nel caso personale, non sapendolo/usare, ripiegherò su schede/che attingono ai ricordi/per poi riunirle a caso./E ora che m’importa / se la vena si smorza/insieme a me sta finendo un’era”.
Percepiva un passaggio epocale, Eugenio Montale, in questi versi dimessi, in questo dolciastro abbandono quasi all’indifferenza nei confronti della propria condizione di poeta, avvertiva che si stava verificando una mutazione del senso che si attribuisce alle forme e agli strumenti del sapere, con una di quelle intuizioni o preveggenze che forse hanno solo i poeti.
Era vero. Il computer stava cambiato la relazione con le storie, le cose, le esperienze, con lo spazio, con il tempo. Stava segnando l’inizio di una nuova era.
Qualche giorno fa, in un articolo su “Repubblica”, Gianni Riotta ricordava che in una conferenza del 1967, Italo Calvino aveva profetizzato, seraficamente, che i computer avrebbero scritto romanzi da soli, concludendo che, finalmente, avremmo eliminato il noioso Autore, lasciando il Lettore libero, al centro dell’Arte.
Ho ritrovato la conferenza in “Una pietra sopra”. In una delle sedici pagine, Calvino sostiene che “La linea di forza della letteratura moderna è nella sua coscienza di dare la parola a tutto ciò che nell’inconscio sociale o individuale è rimasto non detto. Questa è la sfida che continuamente essa rilancia”.