Scritti scolastici e sociali – Anno 2010

No, il problema non è costituito dal mezzo, ma dal metodo. Non è lo strumento che agisce: è la mano dell’uomo. C’è bisogno che qualcuno lanci una pietra. Che spinga un’auto a velocità pazzesca. Che appicchi il fuoco in un bosco. Con uno stesso arnese si taglia il pane e si ammazza un uomo. Il bene e il male consistono nell’azione, nell’uso che si fa di uno strumento.

Allora non esiste una colpa del televisore, del computer. Non esiste nemmeno una colpa dei ragazzi. Quando sono nati si sono ritrovate negli occhi le immagini che scorrevano su uno schermo. Forse anche l’occhio di una telecamera che filmava le contrazioni del loro volto che sembravano un sorriso.  Non c’è niente di male in tutto questo. Non c’è mai niente di male nelle forme della civiltà. Il male è venuto dopo. Quando abbiamo assunto a poco prezzo la baby setter che si chiama televisione e ad essa li abbiamo affidati. Poi ne abbiamo assunta un’altra che si chiama computer, che con la prima ha cominciato a fare  i turni.

Noi ci siamo fisicamente e psicologicamente allontanati da loro e loro, probabilmente per reazione, per compensazione,  hanno trasformato in presenza concreta tutto quello che è realmente lontano. La tecnologia è appunto l’abolizione della lontananza. Telefono, televisione, telematica, hanno la loro radice nell’avverbio greco tele: lontano. Attraverso il mezzo la lontananza si riduce fino a scomparire. Loro vivono in una confusione o in una coesistenza  di passato e presente, di lontano e vicino. Possono spostarsi virtualmente in ogni tempo e in ogni luogo; possono virtualmente appropriarsi di ogni storia e di ogni geografia. Non hanno limiti, non hanno confini. Sono viaggiatori, esploratori di territori sconfinati. Nel corso del viaggio possono scoprire paesaggi meravigliosi o baratri  di malaffare,  mostri orribili e creature favolose, i templi  e i cerchi infernali, la poesia e la turpitudine. Allora devono saper distinguere, devono imparare a scegliere.

Ma qualcuno  deve insegnare a distinguere e a scegliere. Forse ora è tempo che la scuola insegni il modo in cui il computer non si usa. Superata la fase dell’alfabetizzazione informatica, deve probabilmente cominciare quella dell’etica informatica. Che non può prescindere dalla filosofia, dalle scienze umane in generale, da un umanesimo dei mezzi e dei fini, né dal concetto di libertà del pensiero, né dalla consapevolezza –  essenziale – che l’imperfezione dell’uomo ha più senso e valore di qualsiasi macchina perfetta.

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 12 febbraio 2010)

***

Torni il maestro per un sapere che ha sapore

Da tempo, in Italia, i sostenitori della scuola più convinti e appassionati sono gli economisti. Senza sovrastrutture pedagogiche, senza riverberi psicologici, affermano con argomentazioni concrete, serrate, concise,  pragmatiche,   realistiche, l’essenzialità della formazione nel rapporto tra occupazione e sviluppo, qualità della conoscenza e qualità della vita, livello d’istruzione e benessere sociale. Per loro la scuola costituisce la condizione che più di ogni altra determina il progresso in ogni campo, l’argine più sicuro ad ogni crisi, la forma d’investimento individuale e collettivo che garantisce il rendimento più consistente e duraturo. Gli economisti pensano che  la politica  dovrebbe prestare alla scuola un’attenzione costante, che alla scuola dovrebbe essere indirizzata un’azione di potenziamento progressivo, di rinnovamento sapiente. Gli economisti pensano esattamente quello che pensano quelle altre persone che economisti non sono ma hanno buon senso e interesse verso il futuro del Paese. Ma come quelle persone di buon senso, anche gli economisti pensano ad una scuola che non c’è,  che dev’essere costruita, o ricostruita.

E’ una posizione fortemente critica, quella che assume il primo rapporto sulla scuola italiana realizzato dalla fondazione “Italia Futura”, dal titolo “Maestri d’Italia”.  Un titolo da tempo passato. Oppure da tempo a venire.

Il rapporto, curato da Adolfo Scotto di Luzio, storico e saggista  dell’università di Bergamo, attacca a testa bassa la struttura e l’organizzazione di una scuola che ha rinunciato a funzioni, figure, strutture che attribuivano ai processi formativi una connotazione di senso, una certa sensazione di sicurezza. Ma qualche distinzione è necessario farla. Non credo che qualcuno avverta la mancanza di provveditori e ispettori, per esempio. Si avverte invece la mancanza dei direttori didattici che, trasformati in dirigenti, in caricature di manager senza finanze, sono rimasti sepolti dalla valanga degli adempimenti e della gestione amministrativa. La loro possibilità di intervento nel coordinamento e nella promozione della ricerca e della didattica si è ridotta pressoché a zero. Certo, i cattivi potrebbero anche dire (senza dover necessariamente avere torto completamente) che è meglio far danni in un ufficio di segreteria che  nelle classi. Va bene. Però bisogna ammettere che fino a dieci o quindici anni fa, prima dell’avvento del clima e della norma di quell’autonomia e di quella dirigenza che per molti aspetti poi si sono rivelate della stessa razza dell’araba fenice (che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa), c’erano direttori didattici che trasformavano le scuole in centri di ricerca, in laboratori di cultura, in accademie. Qualche eccezione confermava la regola.

Ancora. Si sente la mancanza dei programmi, sostituiti da indicazioni nazionali che in molti casi risultano  ambiziose e generiche, qualche volta anche confuse.

Ma prima di tutto, più di tutto,  si sente la mancanza del maestro. Scomparso da almeno un quarto di secolo, da quando è maturata ed è cresciuta a dismisura, esageratamente, l’idea dell’insegnante tecnico, esperto di ingegneria organizzativa. Si è perduto dietro un’ideologia ed una pratica di progettazione incessante che lo ha sfiancato,  ha burocratizzato la sua relazione con l’alunno, ha messo in ombra fino ad oscurare il suo profilo di educatore, ha relegato il suo magistero in una funzione esclusivamente istruttiva. Gli hanno detto che doveva essere multidisciplinare, interdisciplinare, trasversale, uno e trino, sociologo, psicologo, pedagogista, informatico, specialista, tuttologo,  senza mai consentirgli di affrontare un percorso di formazione culturale e professionale serio,  limitando l’aggiornamento a corsi estemporanei, disorganici, quelli fatti con i videoproiettori e con le slide, su tematiche e problematiche che si ripetevano noiosamente.  Dal millenovecentonovanta in poi  lo hanno sballottolato sul tagadà di un’organizzazione che prevedeva tre insegnanti su due classi, o quattro su tre, in orizzontale, in verticale, a scavalco. Ma nessuno gli ha mai detto che era – o doveva diventare –  un intellettuale, un professionista dell’educazione o quantomeno della formazione. Che in questo modo doveva essere considerato, che da professionista doveva lavorare e  da professionista doveva essere pagato. Circolava una barzelletta qualche tempo fa, che faceva più o meno così: un tale chiede ad un altro: ma tu che fai, insegni o lavori?

Dovrebbero provarci, gli spiritosoni, a stare la mattina, e molto spesso anche il pomeriggio, con una media di venticinque pargoli di tre anni o di sei, e ad insegnargli a leggere e a  scrivere, o con i giovanotti di tredici o quindici o diciotto, e ad insegnargli a progettarsi il futuro. Dovrebbero provarci.

Io non so quando sarà il tempo che ai maestri si restituirà quella dignità che avevano una volta e che una società irriconoscente e arrogante gli ha rapinato. Ma fino a quando si continuerà a tenerli in un limbo professionale, fino a quando non si ritroverà la consapevolezza che sono essenziali per la civiltà di oggi e di domani, qui, in Italia, avremo sempre una irrimediabile povertà di  sapere. Oppure un sapere che non avrà nessun sapore.

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 16 febbraio 2010)

***

Il futuro rubato ai giovani nati nel Sud

Loro non sanno cosa faranno domani. A volte non se lo chiedono nemmeno. Certamente hanno un sogno – perché a vent’anni si deve sognare – però non lo dicono, come se provassero pudore.

Loro si guardano intorno e vedono il buio. Guardano avanti, e vedono il buio. Sono realisti. Non si fanno illusioni. Studiano senza uno scopo, senza nessuna ambizione. Perché la cosa che sanno è che troveranno un imbuto: un mercato del lavoro che si fa sempre più stretto, il campo delle professioni sempre più affollato. Sanno che dovranno sostenere battaglie, quale che sia il mestiere: medico, avvocato, insegnante, ingegnere, fisico, matematico, quelli che hanno scelto le facoltà di comunicazione. Fatta eccezione per qualche specializzazione, si ritroveranno a confrontarsi con la precarietà, l’incertezza, la sottoccupazione.

Probabilmente l’Italia non investe sui giovani. Non ha una politica che li garantisca. Non ha un sistema formativo che riesca ad orientare in modo efficace e funzionale.

Non era difficile pensare che la scuola per tutti, l’università per tutti, avrebbero creato l’ingorgo.

Si dice che senza una laurea non si va da nessuna parte. Ma poi ci si domanda dove si va  con una, a volte con due. Quando si pensa ai processi di innalzamento dell’obbligo scolastico e formativo ( fuor d’ogni dubbio essenziali e positivi), poi si deve pensare che nella maggior parte dei casi si continua con gli studi universitari. Per una serie di ragioni, tra le quali quella che il titolo di studio dei licei di fatto obbliga verso il percorso di laurea. Ma il livello degli abbandoni e della dispersione è altissimo. Altissimo quello dei fuoricorso. Si perdono per strada: forse perché ne hanno scelta una sbagliata oppure perché a un certo punto si lasciano travolgere dall’onda della demotivazione determinata appunto dall’oscurità dell’orizzonte.

Sono tanti i problemi, tante le cause, tante le analisi. Poche le prospettive. Ancora di meno le soluzioni.

E’ davvero mortificante che non si riesca a trovare una soluzione. Tutte le ipotesi – dalla riforma degli istituti tecnici e professionali a quella dell’università – se volgeranno a favore delle opportunità di lavoro, avranno bisogno dai dieci ai vent’anni.

Nel frattempo si sta ad aspettare, o si fugge.

Loro sono quelli che aspettano. Comprano i giornali che riportano i concorsi, scrutano le gazzette ufficiali, fanno domande per partecipare. Aspettano le prove di volta in volta  rinviate, aspettano mesi, aspettano anni. Intanto bussano alla porta di aziende, di banche, ad ogni porta dietro cui ci possa essere un lavoro, rispondono agli annunci, si sottopongono a test attitudinali, a colloqui, alle umiliazioni di analfabeti seduti dietro una scrivania. Provano rabbia. Provano invidia. Provano nausea. Mentre passano gli anni e le speranze svaporano e le prospettive diventano poltiglia. Qualcuno li chiama bamboccioni, perché si mantengono con lo stipendio o  con la pensione dei genitori, di quei pensionati capaci – non si sa come – di  mettere da parte i quattro soldi che ogni mese prendono da uno sportello dell’ufficio postale. Bamboccioni, sì. Perché questa società non sa metterli nelle condizioni di costruirsi un presente, di disegnarsi un futuro, di accendere il mutuo per una casa. Bamboccioni. Perché li abbiamo mandati a scuola senza dargli nessuna garanzia, perché non abbiamo saputo creare prospettive, direzioni da seguire, progetti da realizzare. Diplomi e lauree sono moneta che non vale. Fatica sprecata. Mi scrive una persona che insegna in una scuola privata del milanese: “Alla mia generazione e forse anche a quelle dopo manca la speranza del futuro: noi non possiamo né progettarlo né sognarlo. So che messa così sembra una visione tremenda della realtà, ma io credo che le cose stiano così: la condizione di precariato, instabilità totale, del lavoro chiaramente si ripercuote su tutti gli altri ambiti della vita”.

Loro sono quelli che vanno via da qui, dal Sud, dal Sud del Sud. Ora come allora. Ancora. Quasi che la storia consistesse davvero nella maledizione dei ricorsi, in un assurdo ripetersi di situazioni. Vanno a cercare una possibilità altrove, anche se precaria, stagionale.

Eppure non c’è partito, non c’è campagna elettorale, in cui non si dica, non si ribadisca a voce sempre più alta, che il divario tra Nord e Sud si può colmare solo attraverso una seria e costante politica occupazionale, attraverso un assorbimento delle condizioni di precarietà, con azioni di sviluppo e di offerta di lavoro da sottrarre all’incertezza del fortuito, dell’occasionale. Così si dice. Da dieci, venti, trent’anni, si dice così. Quando non cambia nulla si è fortunati, perché se cambia è per una condizione peggiore.

Di tanto in tanto passa per la testa un pensiero che domanda  quale possa essere il destino di una nazione che non getta ponti d’oro alle generazioni che arrivano. La risposta sarebbe così scontata e così banale che si evita anche di darla, per carità di patria, e per amore.

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 2 marzo 2010)

***

Per i giovani del Sud è l’ora del coraggio

Il Sud ci fu padre e nostra madre l’Europa, scriveva Vittorio Bodini. Ma è da tempo e per più di una ragione che l’Europa non ci riconosce o ci riconosce con rammarico, talvolta anche con dolore, come madre ferita nelle speranze, forse anche nell’orgoglio. Non riconosce l’intera nazione. Non riconosce il Sud di questa nazione. Quel Sud che pure è stato per l’Europa modello di cultura, che ha avuto accademie di sapienti e sapienti senza accademia.  Accade per esempio per la formazione: per la sua qualità, i suoi esiti, i suoi livelli che risultano sempre inferiori a quelli degli altri Paesi. Le rilevazioni internazionali degli apprendimenti degli studenti di ogni tipo di scuola ci danno sempre perdenti. Più si scende verso Sud e più si perde. Se ci domandiamo perché riusciamo anche ad argomentate motivazioni che chiamano a testimoni la storia e la geografia, la politica e l’economia, la sociologia e la sorte.  Se ci domandiamo che cosa facciamo per risalire la china,restiamo dignitosamente o vergognosamente – a seconda dei punti di vista – muti. Tutti muti: a Sud, certamente; ma anche a Nord, a Est, a Ovest. Muti perché facciamo poco oppure niente. Muti per arroganza, per supponenza. O semplicemente perché non sappiamo che dire. Ora forse si potrebbe supporre che la riforma della scuola superiore che prenderà l’avvio dal prossimo settembre possa costituire un’occasione per un equilibrio, per pareggiare in qualche modo la partita. Non c’è molto tempo, per nessuno. Soprattutto non c’è tempo per il Sud, che si ritrova a confrontarsi – in certe situazioni anche drammaticamente – con vecchi e nuovi problemi, talvolta vecchi e nuovi pregiudizi, con la Storia e con le prospettive su cui la Storia proietta le sue ombre.  C’è un essenziale bisogno d’essere realisti: una riforma della scuola richiede investimenti, anche finanziari. Questa riforma investimenti finanziari non ne fa, perché non ne può fare. Anzi, si pone l’esplicito obiettivo di una razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse disponibili, che sostanzialmente significa obiettivi di risparmio. Il piatto piange, e anche i giocatori.  D’altra parte – sempre per un onesto realismo – sono anni, sono decenni, che gli investimenti finanziari a favore della scuola sono tristemente assenti. Ci sono stati tempi migliori, nei quali probabilmente si poteva anche osare. Quelli che corrono non sono certo tra i migliori dei tempi. Osare potrebbe voler dire forse anche barare. Sì, bisogna essere realisti. Allora ci si chiede su cosa investire, come investire. Ancora una volta la risposta è obbligata: su chi nella scuola ci lavora: sugli studenti, sugli insegnati, sui dirigenti. Occorre portare tutti verso i livelli europei: la formazione degli studenti, la formazione e la retribuzione dei docenti, dei dirigenti. Ma per la penultima e l’ultima componente il discorso sarebbe lungo e richiamerebbe implicazioni politiche, sindacali, professionali. Per cui tralasciamo.  Ci fermiamo agli studenti, quindi.   Il 18 dicembre 2006, il Parlamento e il Consiglio europeo hanno approvato una Raccomandazione relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente. Le competenze, cui è stato attribuito il significato di una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini  appropriate al contesto,  sono queste: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare ad imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità;  consapevolezza  ed espressione culturale.

E’ questo, dunque,  il tipo di formazione che in questo secolo nuovo ciascuno dovrebbe conquistare al termine del periodo obbligatorio di istruzione  per poter realizzare uno sviluppo personale, per esercitare una cittadinanza attiva, per l’inclusione sociale, per una concretezza delle prospettive di occupazione,  per una professionalità che possa essere riconosciuta a livello nazionale ed internazionale.

Ma non basta. Poi occorre anche confrontare i livelli di formazione garantiti dai sistemi formativi dei diversi Paesi attraverso una modalità che ne faciliti il riconoscimento e la leggibilità. Così, il 23 aprile 2008 il Parlamento  e il Consiglio dell’Unione europea hanno adottato la raccomandazione sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente.

Fuori da questo quadro di riferimento ogni competenza – anche di notevole livello – corre il rischio di accartocciarsi, di non avere nessuna valenza nei contesti sociali e lavorativi internazionali.

Qui, a Sud dell’ Italia e dell’Europa, non ci possiamo assolutamente permettere questo. Indagini recenti hanno dimostrato che uno studente del Sud, rispetto a uno del Nord,  parte con uno svantaggio di 68 punti nelle competenze rilevate da Ocse-Pisa e cioè con un ritardo che corrisponde a circa un anno e mezzo di scuola. Si tratta di una situazione standard, indipendente da variabili individuali e di contesto.

Allora viene da sospettare che noi ci si ritrovi indietro perché siamo proprio nati indietro. Comunque indietro non si può restare. In gioco ci sono i destini individuali e sociali.  Certo, le opportunità che ci vengono offerte sono poche, però di queste poche dobbiamo approfittare. La riforma della scuola secondaria superiore probabilmente può costituire una di queste opportunità: può consentire di ripartire, con una nuova energia, verso un altro Sud, un’altra Europa.

In fondo, la fantasia, da queste parti, è stata sempre pane in abbondanza. Come il coraggio, che spesso ci siamo dati anche quando non ne avevamo affatto, smentendo la fatalistica rassegnazione del vecchio don Abbondio. 

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 22 marzo 2010)

***

La storia perduta negli oggetti travolti dalla civiltà

Ci sono state cose che non avremo mai più, se non forse segretamente, quasi furtivamente. Le conserveremo o le useremo  senza confessarlo a nessuno, perché sembrerebbe un peccato, un oltraggio al tempo nuovo, ai suoi  idoli,  ai suoi miti, ai suoi riti, alle icone, ai vitelli d’oro di una modernità che a volte ci sopravanza, che non sempre sappiamo governare con coscienza, con sapienza.

Probabilmente nessuno avrà più una lettera d’amore. Nessuno ne scriverà una. Riceverà o scriverà un messaggio al cellulare, su Facebook, con una mail. Con una rapidità che cancellerà il senso dell’attesa, l’ansia per l’incognita, le ipotesi sul pensiero dell’altro. Accade tutto nel giro di secondi, bruciando il tempo e forse anche una componente del sentimento, una sensazione di intimità.

Nessuno confessa, quasi le avesse rubate, di conservare ancora le audiocassette e di infilarle una, di tanto in tanto, nel vecchio mangianastri, quando va a letto la sera.

Nessuno confessa di cercare ancora qualche risposta alle domande tra le pagine dei libri e non per la grande rete di Internet.

Oggetti desueti, obsoleti. Come quelli che elencava Guido Gozzano nell’incipit de “L’amica di nonna Speranza” o Jorge Luis Borges ne “ Las cosas”. Oggetti destinati alla promiscuità del rigattiere.

Il tempo passa e cambia le cose degli uomini. La tecnologia trasforma i comportamenti.  Non esiste persona normale che non abbia almeno un cellulare. Così stanno smontando le cabine telefoniche, che davano un senso di sicurezza quando i cellulari non c’erano ancora.  Nel 2010,  ne saranno eliminate  30 mila  delle 130 mila esistenti.

Si salveranno i  telefoni pubblici sistemati in realtà delicate, come gli ospedali e le Asl, le carceri, le caserme con almeno 50 soldati, i rifugi di montagna .

Pare che ora il 54% delle cabine venga utilizzato ogni giorno per fare un massimo di tre telefonate; mentre il 27% per un massimo di 2 telefonate. In altri tempi intorno ad ogni cabina si radunava una folla.

Tarda sera. Pioviggina. L’uomo ha urgenza di telefonare e il cellulare (l’unico) che ha gli dice che con il  credito che gli resta può fare soltanto chiamate d’emergenza. Allora   cerca una cabina. Gira e rigira con la macchina scrutando il paesaggio tra gli spazi che si aprono  nel movimento degli spazzavetri. Si dice che al centro, dove c’è la piazza, una cabina forse l’hanno lasciata. Invece non l’hanno lasciata. Si dice che in periferia certamente sì, una cabina ci deve essere. Ma non c’e una cabina in periferia. Chiede ad un gruppo di ragazzi davanti ad un bar dove può trovare una cabina. Si guardano tra loro, increduli, senza fiatare. A quel punto capisce. Si giustifica. Dice: no, guardate, il cellulare ce l’ho ma dentro non c’è più una lira.

A quel punto uno dei ragazzi parla. Gli chiede a quale gestore deve telefonare. L’uomo risponde che deve chiamare una persona che non è un gestore. Loro si  riguardano. Abbozzano tristi sorrisi. Poi anche un altro parla. Dice: telecom, vodafone, wind. Qualche altra parola del genere.  Questo dice. Basta. L’uomo intuisce. Vodafone , risponde. Questo è il nome che gli sembra di ricordare. Allora quello che ha parlato per primo guarda un terzo che non ha ancora parlato il quale  dà all’uomo  il suo cellulare dicendo: chiama con questo che alla vodafone puoi fare tutte le telefonate che vuoi. L’uomo: gratis? Il ragazzo: sì, gratis, non l’hai visto lo spot di Totti? L’uomo: no. Per un attimo si sente un primitivo.

In un bellissimo libro che si intitola “La vita delle cose”, il  filosofo Remo Bodei si domanda in che modo le nuove generazioni saranno capaci di comprendere i messaggi lasciati nelle cose dalle generazioni precedenti, sottraendoli al naufragio dell’oblio o al destino dell’insignificanza. Nelle cose, nella loro apparente immutabilità, scorrono le storie della vita, sono parte essenziale del nostro orizzonte esistenziale, emotivo. Fino a due o tre decenni fa erano condizioni di continuità tra padre e figlio, simboli che annodavano storie individuali e collettive, rappresentazioni di un passato che si riproponeva nel suo significato affettivo. Le cose erano eredità sentimentale, sentinelle della memoria. Il loro essere presenti in qualche modo conteneva la ruspa della Storia, arginava la dimenticanza.

Fra poco la cabina telefonica apparterrà  soltanto ai territori della memoria di quelli che hanno tra i quaranta e i cinquanta anni e che ci  hanno trascorso dentro il tempo  migliore  della loro vita. Nei pomeriggi d’estate quando diventavano roventi; nelle sere d’inverno quando si gelava.  Hanno fatto la fila per ore durante la libera uscita del militare. In quello spazio esposto agli occhi di tutti, sono esplose felicità e si sono consumati dolori. Era quello l’unico ponte che congiungeva al mondo. Quando scattava il fuori servizio- ed era sempre al punto in cui si diceva o si ascoltava la cosa più importante di tutta la conversazione – quel ponte si alzava isolando un’ esistenza. La cabina telefonica apparteneva alla loro dimensione quotidiana. Camminavano tintinnanti di monete e  di gettoni.  Ancora gli riescono alla grande le telefonate al volo alle fermate dei treni. Perché anche se manca l’allenamento, resta comunque la classe, la fantasia, la tecnica, un po’ di fiato, il guizzo.  Certo, ci sono cose che non avremo mai più. Forse ci può consolare solo il fatto che possiamo  permetterci il privilegio di sentirne nostalgia.

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 2 aprile 2010)

***

La vendetta della natura tra terra e cielo

Una nube. Nient’altro. Un velo opaco che si stende fra la terra e il cielo, che ribadisce la separazione, l’ineliminabile lontananza. Una nube e l’Europa che vola si ferma.  Si arrende al potere della natura, che non si può sovvertire se non accettando di pagare a prezzo immensamente caro la sua rivincita. Una nube che viene dall’Islanda, di cenere, lapilli, voce silenziosa e imperiosa di un vulcano dal nome difficilmente pronunciabile, faticosamente trascrivibile: Eyjfjallajoekull. Una nube che da questo gigante della terra si alza fino a nove, dieci, undici chilometri. Poi si slarga, si spande, dilaga, sconfina.  Si appropria del cielo. Come ogni altra nube, in fondo. Solo che questa è gravida dei resti del fuoco che arde nelle profondità della terra.

L’Islanda è lontana da qui. Ma si dice che la nube potrebbe anche raggiungerci. Saranno particelle probabilmente innocue per quantità e consistenza. Meno nocive dello smog che produciamo noi, senza neanche poter avere l’attenuante, o la presunzione, di essere vulcani. La natura a volte – spesso – provvede a ricordarci che ancora – e si vorrebbe dire per fortuna – è lei a decidere i destini. Gli uomini possono programmare viaggi, vacanze e affari, fissare appuntamenti ad un’ora esatta, spostarsi da un punto all’altro del pianeta come nella sequenza di un  sogno; possono fare qualsiasi cosa fino a quando una vibrazione del suolo, una tormenta di neve, la cenere che proviene dalle viscere della terra non arrestano tutti sulla soglia limitata di uno spazio. Allora, finché non sarà il vulcano, o la cenere, o il vento, a concedere l’autorizzazione al volo, si appartiene tutti a quella razza montaliana di chi rimane a terra. Ad aspettare. Ad osservare o ad immaginare una nube bianco sporco ( o grigiofumo?) che offusca i paesi, le montagne, il mare. Un fenomeno indubbiamente decodificabile e comprensibile con i linguaggi e gli strumenti della scienza, ma al tempo stesso metafora  dell’imprevedibile o dell’ingovernabile che costituisce il codice genetico della natura, la benedizione e la maledizione che le convivono  dentro. La scienza può solo capire, non decidere, in questi casi. Certo, se lo diciamo noi si può anche non tenerne conto. Se lo dicono gli scienziati la cosa è del tutto diversa. Sulle pagine del “Corriere della Sera”, Nicola Cabibbo sostiene che viviamo in un mondo che può sorprenderci a tutti i livelli, con fenomeni singolari come quello della nube islandese, davanti al quale la scienza probabilmente può fare ben poco, o con eventi come frane e terremoti che ci colgono spesso impreparati. “ L’eruzione di quel lontano vulcano che sta emettendo una quantità  incredibile di polvere davanti alla quale nulla possono gli scienziati, mi sembra debba servire da monito per la nostra imprudenza”.

Un po’ di tempo fa tutto questo l’aveva detto qualcuno che non era uno scienziato ma una creatura che oltrevedeva.

Shakespeare, per esempio, quando fa dire ad Amleto: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”.  Era il 1603.

Leopardi, per esempio, nel “ Dialogo della Natura e di un Islandese”, composto nel 1824.

Dice la Natura all’Islandese : “ Chi sei? Che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?” . L’Islandese: “ Sono un povero Islandese che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa”. Allora la Natura risponde: “ Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finchè gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi”.

Come si sa il dialogo si conclude con una domanda semplice e drammatica dell’Islandese che vuole conoscere a chi piace o a chi giova la vita infelicissima dell’universo  “conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono”. La Natura non risponde più con le parole: sopraggiungono due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero la forza di mangiarsi quell’Islandese.

Una nube che viene da Eyjfjallajoekull. Dicono i vulcanologi che è composta di silicati e metalli che si insinuano nei motori degli aerei e li bloccano. Il rischio è terrificante. Però qualcuno si lamenta perché gli è saltata la luna di miele. Vorremmo suggerire all’agenzia che ha organizzato la faccenda di trasferire i due cuori affranti  in  una pineta a portata di piede, provvedendo subitamente a costruire una capanna.

Oppure li si faccia partire con un pilota automatico. Tanto per vedere l’effetto che fa.

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 10 aprile 2010)Se la laurea diventa inutile

***

Se la laurea diventa inutile

Studere, studere, post mortem quid valere? Et ante mortem, quod manducare? Questo interrogativo goliardico mi torna in mente tutte le volte che vengono divulgati i dati relativi all’occupazione  – o più esattamente alla disoccupazione – dei giovani che hanno una laurea, oppure quelli che riguardano l’emigrazione intellettuale,   la cosiddetta  fuga dei cervelli dall’Italia all’estero o dal Sud verso il Nord, tutte le volte che si parla di precariato, della mancanza di una corrispondenza tra il lavoro e il titolo di studio.  Tutte le volte a questo interrogativo si accompagna la memoria di una sorta di scorata constatazione che faceva mia nonna, classe 1887, analfabeta che leggeva l’Orlando Furioso. Diceva: quanti ciucci nutrica la farina e quanti studenti muoiono di fame.

Così interrogativo e constatazione mi sono ritornati a proposito del recente Rapporto di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, nel quale si delinea una situazione che provoca uno stato di considerevole preoccupazione e di profondo sconforto, come peraltro viene rilevato da Andrea Cammelli che di AlmaLaurea è il direttore.

Qualcuno dirà che ci sono troppi laureati. Non è vero. In confronto con i Paesi più avanzati che hanno una media di 34 laureati su 100, l’Italia presenta un imbarazzante ritardo: 19 laureati su cento nella fascia di età dai 25 ai 34 anni e  9 su cento nella popolazione che ha dai 55 ai 64 anni.

Dunque, secondo i risultati del Rapporto, rispetto all’anno scorso la disoccupazione dei laureati triennali è passata dal 16 al 22%, quella degli specialisti dal 14 al 21%, quella dei magistrali dal 9 al 15%.

Pertanto,  il tasso occupazionale è pari al 62% per i laureati di primo livello, al 45,5% per i laureati di secondo livello e al 37% per gli specialisti a ciclo unico. Una tristezza.

Probabilmente la crisi economica ha influito in modo determinante, ma la situazione viene da lontano, ha cause e radici in processi e contesti diversi. Per esempio nell’assenza o nella inadeguatezza delle politiche  di orientamento alle facoltà universitarie, nella debolezza delle lauree triennali, nella estemporaneità del rapporto tra le università e il mondo del lavoro.

Indubbiamente gli specialisti di settore sapranno individuare con precisione gli ambiti e lo spessore dei ritardi, degli sprechi, delle pessime gestioni. Anzi, lo avranno già fatto, sicuramente. In questi anni – dieci o venti, quantomeno – lo avranno fatto anche più volte. Poi avranno suggerito azioni di recupero, di compensazione, avranno anche fornito esempi di buone pratiche. Nel frattempo la situazione è cambiata in peggio. Se ne accorge il laureato, il padre e la madre, ce ne accorgiamo tutti che guardiamo queste generazioni fiorire e sfiorire alla ricerca, come si dice, di una  prima occupazione.

Ci accorgiamo che ci si laurea per non fare quello per cui si è studiato,  che si ammainano i sogni, e le delusioni crescono a dismisura. Non vogliamo sapere di chi è la colpa. Non sapremmo che farcene di questa notizia. Casomai ci interesserà sapere di chi sarà il merito di aver trovato una soluzione. Vorremmo sapere che cosa si pensa di fare: non solo per quelli che  finiranno di studiare domani, né solo per quelli  che finiscono oggi. Vorremmo saperlo per i laureati di ieri. Sfiancati da anni di precariato. Esasperati dai tanti tentativi falliti. Che non possono permettersi il lusso di pensare al futuro.  I laureati di oggi e di domani si troveranno davanti quelli di ieri, infoltendo l’esercito di intelligenze sprecate e umiliate, lasciate allo sbando. Eppure si continua a dire – con assoluta ragione- che dalla crisi economica si può uscire soltanto potenziando la qualità e la consistenza del capitale umano, investendo nella formazione, nello sviluppo, nella ricerca. Probabilmente non ci sono altre soluzioni. Per garantire il futuro occorre garantire coloro che del futuro saranno i protagonisti. Dice ancora Andrea Cammelli che negli anni economicamente più critici, nella campagne si risparmia su tutto ma non sulla semina. Questa si chiama semplicemente saggezza.

Allora bisogna farsi carico dell’emergenza determinata dalla disoccupazione, dalla precarietà, dalla sottoccupazione, e al tempo stesso cominciare a seminare molto e anche bene,  progettando le condizioni di un inserimento sistematico  nel mondo del lavoro dei giovani che adesso frequentano l’università e la scuola superiore.  Senza questa azione e questa prospettiva, il Paese rischia una depressione sociale da fare spavento.

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 15 aprile 2010)

***

Qualità e merito, slogan vuoti per la scuola

Da tempo, da almeno un decennio, in ogni contesto in cui si parla di scuola, circolano due parole che sembrano costituire la soluzione di tutti quei problemi che attraversano il sistema formativo italiano, dalla scuola dell’infanzia all’università. Qualità e merito: queste sono le parole. Con le loro stratificazioni semantiche e tutte le sfumature teoriche, filosofiche, pragmatiche, ideologiche, politiche, sindacali, corporative.

Con tutti i dubbi o le perplessità, i distinguo, le differenze sostanziali e formali, i pregiudizi, gli alibi, i pretesti, le accuse, le difese, le fughe in avanti, i passi indietro.

Talvolta i discorsi sono astratti, talaltra riduttivi. Raramente concreti, un po’ per quella nostra antica propensione allo svolazzo, un po’ per l’oggettiva difficoltà della materia. Perché diventa inevitabile confrontarsi con alcuni interrogativi da cui non si può prescindere. Qualità di cosa, qualità per chi. Merito rispetto a cosa, nei confronti di chi. Con quali criteri, metodi e strumenti si possono riconoscere la qualità e il merito.

Questo tipo di domande rende ogni discorso inevitabilmente complicato ed evidenzia come esso non possa rimanere all’interno della scuola perché la condizione di complessità in cui la scuola vive proviene dalla complessità del contesto sociale più ampio e a quel contesto ritorna. Per tutti gli aspetti e sempre.

Come in un’azienda che produce automobili, qualità e merito sono riferiti a quel tipo di produzione, in una scuola che produce sapere devono essere riferiti a quel tessuto intricato di conoscenze e di esperienze, cui viene attribuita la definizione di sapere, che fanno il tempo di un uomo e di una civiltà.

Questa voce è stata pubblicata in Scolastica, Scritti scolastici e sociali di Antonio Errico, Sociologia e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *