Scritti scolastici e sociali – Anno 2010

Quando l’età che si vive si presenta con una fisionomia mutevole e proteiforme, a volte anche ambigua, a volte anche enigmatica, allora più che in qualsiasi altro tempo c’è bisogno di un sapere capace di dare un senso al presente: a quel tempo che seppure appare come mutazione costante, continua scadenza, come incombenza o sfuggenza, chiude dentro sé la memoria e l’attesa, la storia di quel che siamo stati e che ci ha fatto così come ora siamo, la speranza per quello che saremo, per il senso e il valore che riusciremo a consegnare a colui che verrà dopo di noi e che deciderà se consentirci una qualche sopravvivenza  culturale.

Quando il sapere di un determinato tempo storico è caratterizzato dalla quantità, dalla molteplicità, dalla diversità di forme e di elementi, da un sistema dinamico articolato in dimensioni plurime, mosaicate, interconnesse e interdipendenti, da una crescita costante di teorie, metodi, linguaggi, tecniche, strumenti, allora c’è bisogno di percorsi di conoscenza che insegnino a muoversi, ad orientarsi nella rete dei segni, delle lingue, dei codici, delle storie, degli alfabeti.

Ora i tempi sono questi: con questi tempi la scuola deve inevitabilmente fare i conti. Deve delineare percorsi di costruzione delle conoscenze, di acquisizione di abilità e competenze per la formazione di una persona e di una personalità capace di pensare e di agire, di essere con gli altri, per gli altri, di comprendere e di governare le trasformazioni personali e sociali, politiche, economiche, culturali. Se fino a qualche tempo fa le differenze erano determinate dall’avere o non avere, già ora – e sempre di più d’ora in avanti – saranno determinate dal sapere o non sapere. E’ per questo, allora, che una scuola che è e deve restare scuola di tutti e per tutti, deve cercare e trovare forme e contenuti che siano in grado di assicurare a ciascuno la qualità di una formazione. E la qualità è quella condizione di equilibrio, una sintesi efficace – vorrei dire anche sapiente – di essere e saper essere, che consente un’esistenza di appartenenza consapevole al proprio tempo, di coerenza con l’esigenza del mercato e del lavoro, di comprensione dei bisogni e anche dei sogni, delle storie che attraversiamo e che attraversano i nostri giorni.

Allora, criteri, metodi, strumenti di riconoscimento di qualità e merito nella scuola, devono necessariamente avere come riferimento il sapere.

Potremmo fare finta che il ragionamento sia semplice e dirci che se la qualità è quella condizione che fa la differenza nell’apprendimento da parte di uno studente di conoscenze, abilità e competenze, il merito non può essere che di chi ha saputo insegnarle. Ma forse, alla fine, il ragionamento è davvero così semplice.

Conseguentemente, quando si vorranno definire gli indicatori di merito, non si dovrà fare altro che cercarli nel lavoro che ogni docente fa con i propri alunni. Evitando di considerare tutte quelle attività funzionali, gli incarichi di apparato, le situazioni collaterali all’insegnamento, che rientrano nella sfera dell’organizzazione ma che non sono didattica finalizzata alla ricerca della qualità. La qualità e il merito hanno bisogno di molta chiarezza e poca confusione. E quindi di nessun compromesso, di nessun bizantinismo, e di nessuna soluzione all’ italiana.

  (“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 8 settembre 2010)

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Istruzione: sempre più buio a Mezzogiorno

Per una volta, una volta sola almeno, l’Ocse potrebbe anche farci il dono della menzogna e risparmiarci le randellate nelle ginocchia che ci rifila nei suoi rapporti sulla scuola.  Anche quest’anno è andata alquanto male con il dossier “Education at a Glance”, tranne che per il livello d’istruzione superiore che arriva all’85% superando la media Ocse che è dell’80. Ma facciamo appena in tempo a respirare, ad accarezzare una tenera illusione, che poi si ripiomba nello sconforto nero con i dati riguardanti i laureati che in Italia sono il 32,8% mentre la media Ocse è del 38.

Per il resto è buio pesto anche a mezzogiorno. Ma è tutto risaputo, comprese le contraddizioni antiche, i nodi che non abbiamo mai saputo ( o forse voluto) sciogliere. È tutto già visto, già sentito, già detto. Un vecchio film. Uno stanco ritornello.

Dal 1995 al 2007 questo Paese ha investito nell’istruzione il 4,5% del Pil. Tra i Paesi industrializzati spende meno solo la Repubblica Slovacca.  Pure il Brasile spende di più. Pure l’Estonia spende di più. Tanto per fare un esempio di grande rispetto.

Altro dato: le retribuzioni.

Quanto sia osceno lo stipendio di un insegnante italiano lo sanno tutti. Chi lavora alle superiori comincia con 28 000 euro l’anno e arriva a 44 000 a fine carriera. Solitamente, per molti anni (non di rado sempre) la sede di servizio si trova ad una certa distanza da quella di residenza, per cui bisogna togliere la spesa della benzina, dell’olio, delle gomme, del tagliando, insomma un po’ di queste cose qua, e poi rifare i conti.

La media Ocse, invece, presenta i seguenti dati: si comincia con settemila euro in più e dopo 24 anni (non 35 come succede da noi), si arriva a diecimila in più.  La Germania, poi, in rapporto agli altri paesi, è un paradiso terrestre. Lo stipendio iniziale di un insegnante delle superiori è di oltre 51mila euro per raggiungere, dopo 28 anni di lavoro, quota 72mila. La Germania non è una nazione che sperpera il denaro, lo sappiamo. Se garantisce agli insegnanti una retribuzione adeguata, qualche ragione ce l’ha e qualche tornaconto pure.

Ora, nonostante il nostro sia un popolo dalla fervida fantasia, nessuno può nemmeno lontanamente immaginare che ci si possa permettere di portare a livelli europei la retribuzione di tutti gli insegnanti italiani. Non lo si è fatto quand’era anche ammissibile pensarlo, figuriamoci in una condizione di crisi che esclude anche la possibilità di sognarlo. Occorre quindi confrontarsi con l’idea di una retribuzione legata al merito. Questo discorso è inevitabilmente lungo, complesso, complicato. Ma se non lo si fa si resta in un vicolo cieco o, per dirla con un francesismo elegante, in un  cul de sac.

Altro capitolo problematico, controverso, dibattuto, è quello del tempo scuola, ovvero della permanenza nelle aule, e del rapporto tra questo tempo e i risultati dell’apprendimento. Allora: in Italia le ore di istruzione previste tra i sette e i quattordici anni sono 8.200 a fronte di una media Ocse che si attesta sulle 6.777.  Con 1423 ore in più i nostri studenti dovrebbero avere conoscenze, abilità e competenze tali da poter far mangiare polvere a tutti gli altri. Ma le rilevazioni degli apprendimenti che vengono sistematicamente condotte da più parti evidenziano livelli inadeguati. Il tempo di permanenza in classe richiama in gioco teorie pedagogiche, visioni della scuola e del rapporto tra scuola e società, filosofie dell’educazione, posizioni ideologiche, scelte politiche. Però forse il problema dell’apprendimento non è da considerare tanto in termini di quantità di tempo ma di impiego del tempo.

Nessuno può negare che nei confronti della scuola siano state rivolte continue azioni di distrazione da quelle che sono le sue finalità essenziali e istituzionali, almeno a cominciare dalla metà degli anni Ottanta. Per le cose serie e per quelle banali. Se nel paesello c’era da fare la sfilata di carnevale, il comitato coinvolgeva la scuola perché la sua partecipazione assicurava la riuscita della carnevalata. La scuola è stata sfruttata anche per la propaganda da campanile da sindachetti e assessorini che hanno sbandierato la necessità del legame col territorio ma hanno dimenticano di pianificare l’adeguamento degli edifici alle norme di sicurezza, o di fornire il gasolio prima che finisca l’inverno, di mettere le tendine alle finestre.  Per le cose serie poi bisognerebbe ricordare che la scuola si è ritrovata a dover tentare disperatamente di evitare la bancarotta valoriale di questa società. Bisogna dirselo con umile onestà: se negli ultimi trent’anni la scuola non avesse affrontato le problematiche brucianti delle educazioni (al plurale), oggi quest’Italia si troverebbe in condizioni di gran lunga peggiori. Poi, vabbè, parliamone anche male, facciamoci ministri, pedagogisti, insegnanti, come ci facciamo allenatori della nazionale. Sappiamo essere tutti taumaturghi e vati, giocando a scopone con una birra davanti.

Lo dicono gli economisti, non la gente di scuola (quella ormai si è stancata di ripeterlo) che se non si investe nella formazione a tutti i livelli e a quasi tutte le età, una soluzione strutturale alla  crisi diventa difficile – o impossibile – trovarla. La storia ci dovrebbe insegnare che lo sviluppo e il progresso civile ed economico sono l’esito dello sviluppo e del progresso della cultura e dell’istruzione. Credo che sia stato il signor Immanuel Kant a dire che i Lumi dipendono dall’educazione che, a sua volta, dipende dai Lumi.

 (“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 29 settembre 2010)

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Precarietà

Precario. Come il figlio di un dio minore. Come un’onta, un destino iniquo, un immeritato disonore. Come una condanna senza alcuna colpa, un sacrificio ad un altare vuoto, un peccato originale. L’incertezza che si fa abitudine. La marginalità sociale, il disagio esistenziale. La mancanza di riferimenti che costringe ad un orientamento ad occhi chiusi. Precario. Nomade da una scuola all’altra, sempre pronto a cambiare, a restarsene a casa, ad aspettare una chiamata. Precario. La difficoltà di accendere un mutuo. Un lavoro subordinato all’assenza di un altro lavoratore.  Il domani come un argine franante. Una dignità difesa con la rabbia silenziosa e l’onestà, con la pazienza e la speranza, con l’ostinazione a voler fare quel mestiere d’insegnare che pretende – ancora – abnegazione, vocazione. Sogna, certo. Perché i sogni non costano niente e fanno bene al cuore. Anche al cuore del precario.

Sono 222.000 i precari della scuola in Italia. In lettere: duecentoventiduemila: un numero che non finisce mai, che fa paura. In media hanno quasi quarant’anni. Un oltraggio alla civiltà di un Paese, uno stupore per l’incapacità ultradecennale di affrontare il problema, di programmare una soluzione. Se non fosse realtà amara, tragica, sembrerebbe una situazione da teatro dell’assurdo, una commedia grottesca. In trent’anni, e forse anche di più, sono stati commessi errori gravissimi, grossolani, imperdonabili perché determinati da superficialità, dalla mancanza di un progetto e di una programmazione, da una logica ottusa o da una latitanza di logica.

Ora il ministro Gelmini ha detto che c’è la certezza che nei prossimi sei, sette anni, queste migliaia di professionisti della formazione a tempo determinato potranno essere assorbiti. Noi si spera, davvero, con tutto il cuore. Il parlamento che riuscirà a determinare condizioni legislative in grado di sanare questa ferita sociale aperta e aggravata dal sale dell’incuria, sarà un grande parlamento. Senza se e senza ma. Fosse anche un parlamento di extraterrestri.

Diciamo questo da qui, da Sud. Con più forza perché con più dolore. Nel contesto della nuova questione meridionale esiste una sorta di sottoquestione che è appunto quella del precariato scolastico. Il 65% di quei duecentoventiduemila è nato al Sud. Nelle graduatorie ad esaurimento, due docenti su tre sono meridionali. Secondo l’osservatorio sulle graduatorie pubblicato dal ministero dell’istruzione, gli insegnanti meridionali sono presenti nelle graduatorie di quasi tutte le regioni. Soprattutto in quelle della scuola dell’infanzia e della scuola primaria. In misura ridotta i meridionali iscritti nelle graduatorie della secondaria di primo e secondo grado.

Le ragioni ormai le conosciamo da anche fin troppo tempo: sono storiche, sociali, economiche. L’emigrazione intellettuale è stata e continua ad essere uno dei fenomeni che dovrebbero inquietare la coscienza di una nazione. Non si è stati capaci di una programmazione del fabbisogno. Non si è neanche pensato a forme di reclutamento che garantissero al contempo la qualità della formazione e il diritto al lavoro. E’ stato lasciato tutto al caso e all’improvvisazione di soluzioni che inventavano canali o producevano tamponi.

Allora il precariato è cresciuto come una marea. E’ arrivato a forme di esasperazione, talvolta anche difficili da gestire. Quando, come negli ultimi tempi, si attribuisce tutta la responsabilità ai tagli degli organici della scuola, probabilmente si commette un errore di analisi e di prospettiva. Perché il problema da porsi non dev’essere quello di assicurare al precario il lavoro per un altro anno, o per la parte di un anno, restituendolo alla fine del periodo alla sua condizione di precario. Dev’essere, piuttosto, quello di strutturare un sistema organizzativo della formazione a tutti i livelli, fondato su un’idea di società e di scuola, che assicuri la continuità del lavoro. Per fare questo, ovviamente, c’è bisogno che si crei la necessità del lavoro, ovvero la domanda di formazione. Si dirà che non è facile. Certo. Non lo è più, ora. Ma forse lo sarebbe stato se agli inizi degli anni Ottanta si fosse cominciato ad analizzare, per esempio, la relazione che correva tra le trasformazioni sociali, le necessità di riconfigurare i profili di professionalità, i bisogni di un orientamento e di un potenziamento della formazione lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Se si fosse pensato ad adeguare l’istruzione degli adulti o la riconversione professionale agli scenari culturali che mutavano vertiginosamente. Se si fosse valutata l’indispensabilità di una competenza tecnologica e linguistica, con particolare riferimento alle lingue straniere.

Si doveva cominciare in quegli anni, in quella temperie storica, economica, sociale, a considerare i vantaggi di ogni genere che potevano venire alle persone e alla comunità da un sistema formativo che integrasse le energie di scuola, mercato e lavoro.  Invece si è pensato – più comodamente – a sperare, di anno in anno, di mese in mese, di giorno in giorno, che si verificassero condizioni per la supplenza.  Senza nessuna visione prospettica. Senza rispetto per le prime otto parole della Costituzione.  Senza rispetto per quei giovani che sono invecchiati con il volto triste del precario.

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Ancora in tempo per emigrare su Gliese 581

Adesso almeno sappiamo dove andare se diventerà impossibile continuare a vivere da queste parti. Se il surriscaldamento del pianeta stravolgerà ogni equilibrio, se costringeremo il clima ad impazzire, se continueremo a distruggere foreste, a bruciare quantità incredibili di carbone, gas, petrolio e non so che altro, almeno sapremo dove andare. Quando l’inquinamento ci soffocherà,  le temperature raggiungeranno livelli tali da arrostirci, e le rocce si staccheranno, e i ghiacci si scioglieranno, e il mare crescerà fino a sommergerci se prima non ci avranno sommersi i rifiuti, i deserti si espanderanno, allora i sopravvissuti potranno trasferirsi tutti quanti su Gliese 581, che si trova a quattro passi da qui, perché la distanza di quel pianeta dal nostro è di venti anni luce, che nel cosmo pare che siano solo una passeggiata a passo svelto. Si suppone che le condizioni di Gliese abbiano potuto sviluppare la vita.  Forse non ci saranno essere come noi (il che non è detto che sia proprio un male), né cani, né gatti, ma l’acqua non ghiaccia e non bolle. I giornali dei giorni scorsi hanno dato la notizia della scoperta realizzata dai ricercatori dell’Università della California a Santa Cruz e della Carnegie Institution di Washington, che hanno individuato Gliese 581 attraverso l’osservatorio astronomico Keck delle Hawaii. La ricerca è durata una decina d’anni, che per una faccenda del genere è un tempo oltremodo breve, presumo, se si considera che ci sono altri ricercatori che ne impiegano venti per indagare i metodi della coltivazione delle patate nel loro paesello di residenza. Steven Vogt, astronomo dell’Università della California, durante la presentazione della scoperta ha detto che in base a una serie di considerazioni le probabilità di trovare vita su Gliese sono del 100%. Chissà. Dicono che sia tre volte più grande della Terra, che una metà è gelida e sempre buia e l’altra tiepida e sempre luminosa. Forse nella parte gelida e buia si potrebbero destinare tutti coloro che hanno ridotto il pianeta che ancora abitiamo nelle condizioni in cui si trova e tutti quelli che non fanno niente di niente per cambiarle.  Però almeno adesso una mezza idea sulla direzione verso la quale fuggire ce l’abbiamo. Direzione Gliese 581. Sembra un po’ l’indicazione data ad un tassista per un albergo di Londra, per cui chi a Londra non è mai stato può tranquillamente evitare di farsene un cruccio: potrà recuperare a Gliese.

Non è neanche improbabile che ci si debba sbrigare ad organizzare i bagagli, se si deve dar retta al rapporto del Wwf che vaticina appena un’altra quarantina d’anni di vita per il nostro pianeta. Dopo di che diventerà una sterminata pietraia. A quel punto la popolazione, che avrà superato i nove miliardi di abitanti, dovrà cercarsi non uno ma due pianeti gemelli.

Per cui dovremmo cominciare a prenotare i biglietti per le navicelle-navette.

Il 2 febbraio del 2007, aprendo a Parigi la Conferenza Internazionale sull’ambiente, il presidente Chirac disse che per quanto riguarda il clima ci si trova ormai alle soglie dell’irreversibile, per cui non servono più mezze misure. E’ ora di rivoluzionare le coscienze, l’economia e l’azione politica. Così disse.

Ma chi fa discorsi di questo genere è soltanto voce che grida nel deserto.

Anche Al Gore, premio Nobel per la Pace, sembra abbastanza pessimista ed esorta a svolgere una missione generazionale, a mettere da parte meschinerie e conflitti della politica per confrontarsi con un’autentica sfida etica e spirituale.

In un articolo apparso su “La Repubblica” del 17 ottobre 2007, Cinzia Sasso racconta una specie di fiaba.

C’è un paese sulle colline del Burgerland, dove l’Austria confina con l’Ungheria, tra campi di mais e foreste di pini, con le case pastello e nidi di cicogne.  Si chiama Gussing. Quattromila abitanti.  Qui vive un mago camuffato da ingegnere che si chiama Rheinard Kock.

Il mago ha trasformato il paese in un Eden post moderno che produce da sé tutta l’energia di cui ha bisogno: il sole, il legno, il mais, i rifiuti, i grassi vegetali diventano riscaldamento, gas, carburante.

Nel giro di qualche anno le emissioni di biossido di carbonio si sono ridotte del 90%.

Allora viene da pensare che se in un punto di questa Terra una cosa del genere si è fatta, vuol dire che si può fare anche in altri posti, evitandoci in questo modo il massacro di un trasloco su Gliese:  con le galline per l’uovo fresco da sistemare nelle gabbiette, la capra per il latte da legare all’astronave,  i troppi  libri non ancora letti e quelli da rileggere tutti da impaccare, mentre sovviene quella frase di Gaspare, il personaggio del “Sipario ducale” di Paolo Volponi che dice: “I libri. I libri. Debbo cominciare a prendere quelli da portar via. Bisogna scartare quelli inutili, e anche quelli penosi, e anche quelli indulgenti”.   
Allora s’insinua il sospetto che forse sarebbe meglio restare. È vero che questo ora non è – come in fondo non lo è mai stato – il migliore dei mondi possibili di leibniziana memoria. Però nessuno ci può assicurare che un altro mondo lo sia. D’altra parte, a voler parafrasare il proverbio, si potrebbe dire che chi lascia la terra vecchia per la nuova sa cosa lascia ma non cosa trova. Ecco. Forse Gliese può aspettare. Poi chi vivrà deciderà il da fare. Intanto potremmo cercare di rattoppare questo nostro vecchio mondo, che in certe albe e in certi tramonti e in certe notti di luna piena  ci lascia ancora increduli, stupefatti.

(“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 6 ottobre 2010)

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Il mondo giovanile è lo specchio delle nostre colpe

Tutto quello che non hanno è quello che non gli abbiamo dato e non gli diamo. Quello di cui li accusiamo sono le nostre stesse colpe, i nostri fallimenti, le nostre assenze, le omissioni, i tradimenti. Quello che non sanno è quello che non siamo stati capaci di insegnargli. Quello che non fanno è quello che non abbiamo saputo fargli fare. Diciamo che sono distanti dalla politica, dall’impegno, ma siamo stati noi ad allontanarli con le nostre proposte senza prospettiva, distanti dai loro codici, dai loro modelli. Diciamo che non hanno valori ma evitiamo di domandarci se siamo riusciti a consegnare qualche valore autentico alla loro sensibilità, alla loro intelligenza, al loro tempo. Non hanno passioni perché non abbiamo avuto motivi e capacità di appassionarli. Non hanno idee di rivoluzione perché nelle rivoluzioni non ci credono. Non si indignano. Protestano blandamente. Non hanno bandiere perché non trovano una bandiera sotto la quale difendere le loro speranze, i loro progetti: gliele abbiamo sottratte, le abbiamo ammainate, le abbiamo strappate. Non hanno santi e non hanno eroi. Hanno malinconie incredibili e stupori favolosi e una fragilità senza misura, sconfinati pudori, provocazioni innocenti. Poi hanno stanchezze tremende: sono stanchi dei nostri discorsi formali, dei pregiudizi, dei preconcetti. Sono stanchi della nostra incapacità di comprendere le loro inquietudini, le loro asprezze, le loro dolcezze.

Hanno famiglie che non riescono a capirne disagi, i turbamenti, i modi di pensare, le fantasie, i sentimenti, il loro immaginario, la loro realtà, l’ansia spesso inconsapevole per un futuro nebbioso, opaco, senza consistenze. Studiano poco perché non vedono prospettive in un mercato del lavoro intasato, aggrovigliato, cinico, feroce, cieco.

Abbiamo creato intorno ai giovani un vuoto di futuro spaventoso. Li facciamo vivere in un paese dei balocchi, in una festa effimera che si protrae incoscientemente, in un vacuo sabato del villaggio, un trompe l’oeil che li frastorna, su una giostra del niente.

Così i giovani mostrano tutto il loro disorientamento. Non sanno trovare strade, oppure non le cercano. Si abbandonano alla casualità. Si disperdono in un annoiato divertimento. Hanno esasperato la volubilità, i desideri, l’impulsività, la rabbia, gli errori che non vogliono o non sanno correggere, gli eccessi, la tracotanza, l’insofferenza, l’indifferenza nei confronti di quasi tutto, di quasi tutti, soprattutto di se stessi. Con noi parlano poco perché si rendono conto che non sappiamo capirli, ma quando si fidano, quando ci sentono vicini, allora parlano e sono oceani di storie.

Vogliono tutto e subito perché li abbiamo male educati ad avere tutto e subito, senza gradualità, senza mediazioni. Gli abbiamo rapinato anche il sapore e la bellezza dell’attesa. La macchina, subito. La moto, subito. L’apparenza delle camice firmate, le scarpe firmate, il cellulare dell’ultima generazione; tutto subito. A parte questo non vogliono niente. Non sono disponibili a fare sacrifici perché non gli abbiamo insegnato il senso e il valore del sacrificio. Non hanno quelle belle e oneste ambizioni perché non siamo stati capaci di fargli capire che le ambizioni pulite sono il lievito, la motivazione, il movente di ogni esistenza. Forse non hanno nemmeno illusioni. Nemmeno sogni, forse. Spesso i sogni si generano dai bisogni, e loro hanno bisogni quotidiani che possono soddisfare facilmente. Quelli che non riescono a soddisfare si trasformano in frustrazione. Ecco. Probabilmente l’universo degli adulti, dei padri e delle madri che hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, ha creato tutte le condizioni per inevitabili e profonde frustrazioni, per ferite che tagliano l’essere, per un indecifrabile malessere. Quell’inappagamento che dovrebbe costituire una motivazione e una tensione alla ricerca di un equilibrio, diventa invece una possibile causa di accartocciamento della personalità, di ripiegamento su se stesso, di scardinamento delle certezze.

I giovani non hanno più riferimenti. Con la crisi della famiglia, la crisi della scuola, la crisi delle ideologie, con la confusione dei ruoli e delle funzioni, si sono disintegrate le figure di riferimento dei genitori e dei maestri. Non esistono più nemmeno i cattivi maestri. Di cattivo ora c’è solo la grande rete virtuale che li imbroglia, li impiglia e li stringe in una solitudine irrimediabile, grigioscura, paurosa. Vivono in una terra di nessuno, senza un orizzonte, quella linea d’ombra conradiana che separa la giovinezza dalla maturità. Ci sono quelli che non studiano e non lavorano. Quelli che hanno rinunciato anche a cercare un lavoro. Quelli che hanno studiato ma si ritrovano le porte sbarrate davanti. Quelli che fanno lavori atipici, occasionali, che sbarcano il lunario come possono, precari, sottoccupati che arrancano lungo una salita infinita. Quelli che vanno via, quelli che rimangono.

Non hanno miti. Hanno solo gli idoli banali della televisione, starlette con un presente effimero e un futuro scaduto, il cicaleccio scomposto dei talk show, le gesta di attricette e calciatori, veline e tronisti e imbonitori che sfruttano le stupende ingenuità della giovinezza. Questo hanno perché questo gli diamo.

Forse non conoscono quell’incipit di “Aden Arabie” di Paul Nizan che dice: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Forse non lo conoscono ma lo sentono dentro, ogni giorno.

(“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 3 novembre 2010)

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Pane e cibo. La società dello spreco

Mangia il pane ammuffito che ti spuntano i denti d’oro, dicevano i vecchi. Allora i bambini mangiavano il pane ammuffito aspettando che gli spuntassero quei denti d’oro che i vecchi avevano promesso. Ma i vecchi non erano vecchi. Solo che quando si è bambini il mondo si divide in due parti, senza mediazioni: i bambini come te e i vecchi come tutti gli altri. Si aspettavano i denti d’oro che non venivano mai, però il pane ammuffito non si buttava. Quando il pane cadeva a terra, lo si raccoglieva, si baciava e si mangiava. Perché era quello, era concretamente quello, il pane quotidiano del Padre Nostro. Accadeva fino a trent’anni fa, giorno più, giorno meno. Storia antica quanto quella delle guerre puniche.

Ora invece quasi il venti per cento del pane che si produce finisce nei cassonetti. Insieme a frutta, verdura, a tutto o quasi tutto. Sono questi alcuni dati che emergono dal Libro Nero dello spreco alimentare in Italiaun dossier a cura di Luca Falasconi e Andrea Segrè per Last Minute Market.

I numeri sono così alti da fare spavento.  In agricoltura c’è una dispersione di 17. 700.586 (ho qualche difficoltà anche solo a trascrivere queste cifre) tonnellate di cibo. L’industria distrugge 2. 163. 312 tonnellate di prodotti. La distribuzione al dettaglio ne smaltisce 244.252. Le famiglie gettano nella pattumiera 515 euro di spesa all’anno. Si tratta di dati che suscitano reazioni di stupore, indignazione, vergogna. Inevitabilmente si pensa alle migliaia di persone che ogni giorno muoiono per denutrizione o malnutrizione. Inevitabilmente viene da domandarsi quante creature si potrebbero salvare solo con quello che noi buttiamo via, così, senza pensare. Continuando con le domande ci si potrebbe anche chiedere che uomini siamo, che civiltà siamo, che coscienza abbiamo. Poi: qual è il rapporto che ci lega all’altro, quale senso di solidarietà abbiamo maturato. Perché, senza andare lontano, in Italia tre milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà alimentare. Per cibo e bevande spendono in un mese meno di quanto gli altri spendano in due giorni. Un milione e mezzo di famiglie ha difficoltà a procurarsi pane, pasta, carne. Loro probabilmente mangiano anche il pane ammuffito, nonostante sappiano perfettamente che non gli spunteranno i denti d’oro. Numeri, certo. Astrazioni. Però dietro ogni numero c’è una creatura. Forse ciascuno di noi ne conosce qualcuna. Forse solo una. Oppure è così fortunato da non conoscerne nessuna. Se non la conosce la può immaginare. Ogni volta che scoperchia la pattumiera e butta il pane nel sacchetto la può immaginare. Può anche immaginare che gli somigli, quanto gli somigli. Ha gli occhi come noi, anche se i suoi sono più tristi. Le braccia come noi, anche se le sue forse sono più magre. Come noi ha un cuore, anche se il suo sente più freddo. Certamente non si tratta di andarli a trovare.  Probabilmente si tratta di organizzare o di potenziare il sistema della solidarietà nelle città e nei paesi in modo da consentire modalità efficienti di riutilizzo dell’eccedenza.

Andrea Segrè, preside della facoltà di Agraria di Bologna e responsabile di Last Minute Market, ha detto che salvando dalla spezzatura le eccedenze di cibo, in Italia sarebbe possibile fornire tre pasti al giorno a più di 636.000 persone. Si tratta di un problema di organizzazione, di economia, di solidarietà, senza dubbio, ma soprattutto è un problema di civiltà.

Perché una civiltà del benessere non può ignorare le conseguenze dello spreco incivile. L’abbondanza, per la quale si ringrazia Dio e gli uomini, non deve trasformarsi in un eccesso che peraltro traduce un’idea di scarso valore, e quindi di senso, attribuito alle cose. Se il pane si spreca vuol dire che per noi il pane ha poco valore e senso.

Nel passato tutto ciò di cui ci cibavamo era definito companatico – sostiene Predrag Matvejevic, autore di Pane nostro – un termine che già nell’etimologia indicava la subordinazione di tutto al pane. Ma da almeno cinquant’anni il pane è diventato secondario, un contorno. E se tra vent’anni saremo otto miliardi sulla Terra, di cui due senza pane, il pane nostro diventa una grande metafora della civiltà.

Non saprei dire in che misura la sopravvivenza di questa civiltà possa essere condizionata da una nuova etica del pane e del suo consumo ma probabilmente si rivelerà indispensabile ripensare e rifondare un sentimento dell’esistenza con gli altri e per gli altri, attraverso una più umana relazione tra il benessere e il bisogno di chi abita la Terra. Se non si vuole che il bisogno scateni guerre tremende contro il benessere.

(“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 10 novembre 2010)

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 Il purgatorio: ingiusto destino degli insegnanti

Sono trent’anni almeno che gli insegnanti di questo Paese vivono la condizione di un purgatorio, nell’attesa di un paradiso che non è venuto quando forse poteva venire e che molto probabilmente non verrà mai più. Confinati in una situazione di marginalità e talvolta finanche di emarginazione sociale, privati di ogni genere di riconoscimento, assediati da richieste che provengono da ogni parte e da ogni contesto, che pretendono la soluzione di problemi individuali e collettivi, sfiancati dall’ esperienza del precariato, umiliati dall’assenza di prospettive, cercano comunque di alzare argini allo straripamento del fiume di superficialità, di indifferenza, di strafottenza.

Giorno per giorno si confrontano con trasformazioni sociali, mutazioni antropologiche, culturali, etiche, con riforme strutturali. Devono sintonizzare le idee e i linguaggi su quelli delle generazioni che arrivano e si portano dietro tutto quello che hanno dentro: le visioni del mondo e della vita, ansie sempre più forti, sempre più complessi disagi, parole nuove, nuovi miti, un universo formato da immagini frantumate, da modelli fuorvianti proposti ( imposti) dai media imperanti.  Ad ogni prima classe che arriva cominciano daccapo. I pensieri dei ragazzi sono nuovi come sono nuovi i loro nomi. Diceva Pier Paolo Pasolini che il lavoro del maestro è come quello della massaia, bisogna ogni mattina ricominciare da capo: “La materia, il concreto sfuggono da tutte le parti, sono un continuo miraggio che dà illusioni di perfezione”.

A volte vorrebbero potersi permettere di lasciarsi invecchiare, e non possono. Devono capire che cosa leggono i ragazzini, che cartoni animati vedono, che film, che musica ascoltano, che cosa pensano, che cosa sognano, che cosa li illude, o li delude, li disillude. Devono capire che cosa li rende felici, che cosa gli provoca dolore. Non possono concedersi il lusso di invecchiare. Perché devono comprendere il pensiero di un bambino, di una bambina, di un giovanotto di dodici anni, di un uomo di diciotto.  Così vanno in pensione stanchi ma giovani.

Viene da domandarsi com’è che c’è una Nazione che non è mai riuscita a capire l’assoluta diversità, l’assoluta unicità di questo mestiere, la sua essenzialità.  Com’è che non è riuscita a maturare il convincimento che sono gli insegnanti che ancora riescono a formare conoscenze e competenze, che ancora si ostinano a calibrare i vecchi valori sulla realtà esistenziali dei giovani, ad educare alla verifica dei nuovi valori. Sono soltanto loro. Perché la famiglia quando non è lacerata, disgregata, è alla ricerca (spesso disperata) di un recupero, o di una ricostituzione, della propria fisionomia oppure di linguaggi che riescano a mettere in comunicazione i padri con i figli. Perché tutte quelle altre situazioni che con un brutto termine una volta si chiamavano agenzie formative si sono accartocciate su se stesse o si sono snaturate o hanno rinunciato a svolgere una funzione. Così è rimasta la scuola, sono rimasti gli insegnanti. Non eroi, non missionari. Semplicemente professionisti come tanti altri ma senza la valorizzazione della professionalità che hanno gli altri.

Insegnanti si comincia e si finisce.  Non c’è sviluppo di carriera. Non hanno nessuna soddisfazione se non quella del vecchio alunno che li saluta per strada dopo decenni, al quale hanno dato gli strumenti di pensiero, un metodo di studio, una motivazione passionale che gli ha consentito di diventare quello che è. Da sempre gli insegnanti si fanno bastare questo: l’intimo convincimento di aver contribuito a far crescere qualcuno, a farlo essere.  Si fanno bastare questo merito.

Dice Marco Imarisio nel suo libro- inchiesta intitolato Mal di scuola che a scuola si sta male. Lo dice chi ci vive, lo ribadiscono inchieste e ricerche. “Ma il malessere arriva da più lontano, arriva da fuori. E’ come se si fossero rotti gli argini e il mondo fosse tracimato nelle aule, con i suoi guai, le sue contraddizioni, i drammi, le grandi questioni che sembrano insostenibili per una piccola area protetta quale dovrebbe essere la scuola”.

E’ vero. La scuola è il luogo che risente culturalmente di qualsiasi situazione e condizione del sociale. In positivo e in negativo. Così gli insegnanti si ritrovano a dover filtrare, rielaborare, strutturare o ristrutturare contenuti, fondare o rifondare significati, ripensare e adattare metodi, sperimentare processi di insegnamento diversi. Si ritrovano a dover interpretare e ricondurre in forme pedagogiche la materia informe che si agita in molti altri settori. Si affannano a contenere il disorientamento, la dispersione, l’abbandono, la demotivazione, l’incertezza, lo scetticismo.

Però a scuola si sta anche bene, si sta benissimo. Perché a scuola ci sono gli studenti. Che hanno bisogno di definire la propria identità, di riflettere sulla loro esperienza di essere e di esistere, sul loro presente senza riferimenti e sul loro futuro dal grigio profilo. Si sta bene perché, anche se con sacrifici incredibili, si riesce – ancora – a tessere speranze, a costruire dialoghi, a suscitare interessi e qualche volta anche passioni, a coltivare – ancora – la convinzione che quelli che verranno avranno l’intenzione e l’intelligenza di non commettere gli errori che noi abbiamo commesso e continuiamo a commettere, stupidamente.

 (“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 22 novembre 2010)

***

I giovani spengono la televisione, ma i rischi restano

Fra qualche tempo – fra alcuni, pochi anni – forse rimpiangeremo anche la televisione kitsch, trash, stupida, rozza, volgare, sfacciata, becera, sguaiata.

Fra qualche tempo ci sembreranno ridicoli e finanche un po’ vili gli anatemi che abbiamo scagliato contro di essa, ci sembreranno assurde e culturalmente puerili, da infanzia della civiltà, le paure che abbiamo avuto, sciocche le sociologie che abbiamo fatto, pretestuose le argomentazioni che abbiamo elaborato per dire che stava appiattendo le menti, omologando i comportamenti, impoverendo il nostro universo di parole. I gridi di allarme di Karl Popper ci sembreranno esagerati, perché il lupo non era poi così cattivo. In fondo, era una bestia che si poteva facilmente addomesticare.

Accadrà questo fra qualche tempo, fra alcuni, pochi anni.  Quando gli adolescenti di oggi diventeranno giovani, diventeranno uomini e donne, e la televisione per loro sarà soltanto uno sbiadito ricordo di bambino, sarà quello che per gli adulti sono i cantastorie che arrivavano nelle piazze nelle malinconiche sere d’autunno, fino a quarant’ anni fa. Perché Internet sta gradualmente e rapidamente sostituendo la televisione.

E’ questa l’impressione che può suscitare il risultato di un sondaggio europeo che ha coinvolto 23 mila giovani e ragazzi, coordinato dalla London School Of Economics and Political Science e realizzato in 25 Paesi. Cominciano a usare Internet a sette anni. Il 77% lo fa ogni giorno.  Hanno un proprio blog. Chattano. Si mostrano in webcam. Danno informazioni personali a internauti sconosciuti. Stanno lì, affogati nello schermo, spesso fino a sera tardi, a quasi notte.

Ora, c’è un errore che culturalmente non possiamo e non dobbiamo commettere: quello di cambiare il volto del demonio, che non era e non è la televisione come non è e non sarà Internet. Dipende e dipenderà dall’uso che se ne fa e se ne farà, come per tutte le altre cose. Anche i libri possono essere pericolosi se vengono usati male. Non si tratta più di essere apocalittici o integrati ma di acquisire le competenze necessarie per governare un sistema di comunicazione che indubbiamente ha una forza di attrazione e un’utilità straordinaria ma che può facilmente portare sul baratro dell’eccesso, della sregolatezza, della patologia. Secondo il sondaggio, il 30% dei ragazzi tra gli undici e i sedici anni ha sintomi tipici dell’abuso che si fa della rete.  C’è una sindrome che gli psichiatri chiamano Internet Addiction Disorder: è un disordinare mentale da assuefazione. Una dipendenza. Una schiavitù. Presso il Gemelli di Roma è operativo un ambulatorio di consultazione psichiatrica per la cura della dipendenza da Facebook: quello stesso per la cura delle patologie legate al gioco d’azzardo, all’alcool, alla droga.

La comunicazione virtuale produce l’effetto di occultare la realtà; non l’annulla, non la divora, ma la occulta proponendo seducenti figurazioni fantasmatiche con cui sostituirla.

Dunque si tratta di un problema culturale, di forma mentis e quindi di formazione. Che qualcuno deve affrontare per dargli una corretta definizione, una giusta misura, per inquadrarlo in modo coerente nella dimensione psicologica, pedagogica, sociologica, filosofica, complessivamente antropologica, perché questa non è altro che una mutazione antropologica, certamente non la prima nella storia della civiltà e nemmeno l’ultima.

A questo punto ecco la domanda: chi deve fare questo, chi lo fa.

La prima risposta che viene è la famiglia, perché, come diceva mia nonna sapiente analfabeta, la migliore concimazione è la prima acqua e la migliore educazione è la famiglia. Ma erano altri tempi. Coi tempi che corrono, l’intervento dei genitori (se c’è e quando c’è) non incide in modo determinante sui comportamenti e sulle scelte.

Quindi scatta la risposta di riserva: deve provvedere la scuola.

Ma come. Semplicemente (si fa per dire) insegnando non come si usa il computer ma come non si usa, il che implica un insegnamento anche dell’etica della comunicazione virtuale. In un libro che si intitola “Confessioni di un eretico high- tech”, Clifford Stoll sostiene che è facile parlare di velocità del computer, di memoria Ram e di faccende tecnologiche. Invece è più difficile gestire le frustrazioni che generano queste cose, i loro costi diretti e indiretti, i loro effetti collaterali.  Poi si chiede: “Che cosa si perde quando si adotta una nuova tecnologia? Chi viene emarginato? Quali preziosi aspetti della realtà rischiano di venire calpestati?”. Probabilmente, come spesso accade, la verità, o almeno la virtù, sta nel mezzo.

Per la prima volta la scuola si ritrova a confrontarsi con un sapere rispetto al quale chi deve imparare possiede conoscenze, abilità e competenze più forti di chi deve insegnare.

Perché questi ragazzi, come si dice, nascono imparati; non a caso si chiamano nativi digitali; sono cresciuti – spesso in solitudine – con televisione, telefonino, Internet, playstation e giochi elettronici vari. Hanno una rapidità delle dita incredibile. Sanno manovrare qualsiasi aggeggio che abbia dei tasti anche se non l’hanno mai visto prima. Talvolta fanno invidia.

Però bisogna educarli a scegliere, a discriminare, a flettere la tecnologia sulla loro personalità e non a soggiogare la personalità alla tecnologia, a farne un’ancella e non una padrona. Già si impiega una vita intera a diventare padroni di se stessi.  Quando si riesce. Di farsi obnubilare dalle macchinette non ne vale proprio la pena. Meno che mai quando l’età promette avventure di conoscenza meravigliose.

(“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 18 dicembre 2010)

***

Una gioventù che non può fare progetti

L’uomo della strada pensa che non è certo cosa buona quando i figli stanno peggio dei padri, quando le loro condizioni economiche, le loro posizioni sociali, si arrestano su una soglia più bassa. Anche l’uomo della strada, che non sa di questioni e teorie di economia, capisce che situazioni di arretramento sociale strozzano lo sviluppo, smantellano le fondamenta del progresso, offuscano l’orizzonte del futuro.

L’uomo della strada che si guarda intorno, che legge i giornali e anche qualche libro, che a volte si sforza di capire alcuni dati forniti dalle statistiche, si accorge che in Italia   accade esattamente questo, che si è creata una barriera che ormai è difficile, quasi impossibile saltare.

Allora per verificare, per comprendere concretamente, si disegna nel pensiero scene che conosce da tempo. Come questa: il padre – a volte anche la madre – che hanno massimo sessant’anni, con una professione o comunque un lavoro consolidati; il figlio di trenta, con un titolo di studio di livello uguale o superiore a quello dei genitori, in cerca di prima occupazione, oppure che arranca in attività precaria, che ogni giorno vede ridursi le possibilità, che sbatte la faccia contro le difficoltà di creare qualcosa da sé, per sé.

Se possiede qualcosa, spesso, quasi sempre, gli viene dal genitore: la macchina, il bilocale, la settimana di vacanza, il guardaroba, le spese ordinarie e quotidiane.

Così pensa che il rapporto tra generazioni si è completamente squilibrato, che il processo di crescita si è interrotto. Quell’antico contratto sociale, dichiarato o implicito, secondo cui una generazione matura costruisce forme di tutela e basi che consentano all’altra che arriva di cominciare in modo più agevole il proprio percorso di maturità, non costituisce più un punto di riferimento, meno ancora un impegno. Sembra quasi che le comunità siano state contagiate dal morbo dell’egoismo talvolta attenuato soltanto dalla solidarietà famigliare. E’ una cosa che va contro la storia  e anche  contro la natura.

Dal dopoguerra è la prima volta che accade. Per cui, mancando d’esperienza, l’uomo della strada non sa quali esiti produrrà questa faccenda.  Se si sofferma a fare previsioni si scoraggia. Se mette un po’ più di attenzione nella lettura dei dati si deprime. Vorrebbe davvero sbagliarsi su tutto e invece ha una paura dannata di avere ragione. Non c’è nessun bisogno che sappia imbastire pensieri e discorsi su Pil, ammortizzatore sociale, debito pubblico. Che il piatto piange, e i giocatori pure, lo intuisce subito, e si deprime.  A proposito di debito pubblico da qualche parte ha trovato la notizia che è pari a 1.844,8 miliardi di euro, vale a dire 30.740 euro pro- capite, compreso il capo dei neonati. Non ha mai sopportato di avere debiti, l’uomo della strada, per cui, graziaddio, è riuscito a non farne. Però adesso si ritrova con questi trentamila sulle spalle, peraltro destinati ad aumentare, si dice.

Così legge e si deprime. Peraltro gli si rinfaccia che il debito pubblico è stato creato dalle generazioni precedenti, quindi anche dalla sua, per mantenere il livello di benessere determinatosi a partire dagli anni Sessanta. Non capisce. Non si spiega com’è che lui per mantenere il livello di benessere ha semplicemente lavorato e risparmiato, su tutto: escluso il pane e i giornali, e qualche libro, ha risparmiato su tutto: viaggi vestiti vacanze. Allora com’è che ha accumulato questo debito, si chiede; chi ha fatto questo debito per conto suo.

Ora l’uomo della strada si conforta con il pensiero della pensione che ha o che spera di avere. Abituato com’è a fare conti contadini, crede di riuscire a tirare avanti. Invece lo preoccupa il pensiero dei ragazzi. Perché l’altra cosa che ha saputo è che la Sapienza di Roma ha elaborato un rapporto sullo stato sociale del 2010 secondo il quale un lavoratore dipendente che andrà in pensione nel 2035 a sessantacinque anni e con trentacinque di contributi percepirà nemmeno il 60% dell’ultima retribuzione. Da scialare. Sempre che ci arrivino, i ragazzi, a maturare i trentacinque di contributi.

Perché i dati Ocse dicono che in Italia dagli anni Sessanta in poi il tasso di occupazione è andato progressivamente calando. Ora un giovane su tre non lavora e quello che lavora spesso lo fa in situazioni precarie, con un salario che non gli consente di fare progetti, investimenti.  Quasi il 60% dei disoccupati ha massimo 34 anni.

Ecco: è soprattutto questo che preoccupa e intristisce l’uomo della strada: che c’è una gioventù che non può fare progetti. Che deve navigare sottocosta negandosi il desiderio del mare aperto perché paralizzata dall’incertezza, dal ristagno, dalla paura di quello che sarà e che verrà domani.

E’ come se si desse fuoco ad un granaio, se si dissipasse una fortuna sterminata.

Ai giovani abbiamo creato un debito e non riusciamo a dare nemmeno la possibilità di pagarlo.

L’uomo della strada vorrebbe avere la capacità di creare, d’inventare soluzioni, ma non ce l’ha. Perché le soluzioni per questi problemi possono trovarle solo coloro che hanno un potere politico, economico, sociale, quelli che possono decidere, incidere, determinare movimenti virtuosi di crescita e di sviluppo, che hanno strumenti per trasformare i sistemi e creare benessere sostanziale, diffuso.

Lui sa solo che questa mortificazione di gioventù è un peccato mortale contro tutto il Paese.

(“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 7 dicembre 2010)

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I giovani spengono la televisione. Ma i rischi restano

Fra qualche tempo –  fra alcuni, pochi anni –  forse rimpiangeremo anche la televisione kitsch, trash, stupida, rozza, volgare, sfacciata, becera, sguaiata.

Fra qualche tempo ci sembreranno ridicoli e finanche un po’ vili gli anatemiche abbiamo scagliato contro di essa, ci sembreranno assurde e culturalmente puerili, da infanzia della civiltà, le paure che abbiamo avuto,  sciocche le sociologie che abbiamo fatto, pretestuose le argomentazioni che abbiamo elaborato per dire che stava appiattendo le menti, omologando i comportamenti, impoverendo il nostro universo di parole. I gridi di allarme di Karl Popper ci sembreranno esagerati, perché il lupo non era poi così cattivo. In fondo, era una bestia che si poteva facilmente addomesticare.

Accadrà questo fra qualche tempo, fra alcuni, pochi anni.  Quando gli adolescenti di oggi diventeranno giovani, diventeranno uomini e donne, e la televisione per loro sarà soltanto uno sbiadito ricordo di bambino, sarà quello che per gli adulti sono i cantastorie che arrivavano nelle piazze nelle malinconiche sere d’autunno, fino a quarant’ anni fa. Perché Internet sta gradualmente e rapidamente sostituendo la televisione.

E’ questa l’impressione che può suscitare il risultato di un sondaggio europeo che ha coinvolto 23 mila  giovani e ragazzi, coordinato dalla London School Of Economics and Political Science e realizzato in 25 Paesi. Cominciano a usare Internet a sette anni. Il 77% lo fa ogni giorno.  Hanno un proprio blog. Chattano. Si mostrano in webcam. Danno informazioni personali a internauti  sconosciuti. Stanno lì, affogati nello schermo, spesso fino a sera tardi, a quasi notte.

Ora, c’è un errore che culturalmente non possiamo e non dobbiamo commettere: quello di cambiare il volto del demonio, che non era e non è la televisione come non è e non sarà Internet. Dipende e dipenderà dall’uso che se ne fa e se ne farà, come per tutte le altre cose. Anche i libri possono essere pericolosi se vengono usati male. Non si tratta più di essere apocalittici o integrati ma di acquisire le competenze necessarie per governare un sistema di comunicazione che indubbiamente  ha una forza di attrazione e un’utilità straordinaria ma che  può facilmente portare sul baratro dell’eccesso, della sregolatezza, della patologia. Secondo il sondaggio, il 30% dei ragazzi tra gli undici e i sedici anni ha sintomi tipici dell’abuso che si fa della rete.  C’è una sindrome che gli psichiatri chiamano Internet Addiction Disorder: è un disordinare mentale da assuefazione. Una dipendenza. Una schiavitù. Presso il Gemelli di Roma è operativo un ambulatorio di consultazione psichiatrica per la cura della dipendenza da Facebook: quello stesso per la cura delle patologie legate al gioco d’azzardo, all’alcool, alla droga.

La comunicazione virtuale produce l’effetto di occultare la realtà; non l’annulla, non la divora, ma la occulta proponendo seducenti figurazioni fantasmatiche con cui sostituirla.

Dunque si tratta di un problema culturale, di forma mentis e quindi di formazione. Che qualcuno deve affrontare per dargli una corretta definizione, una giusta misura, per inquadrarlo in modo coerente nella dimensione psicologica, pedagogica, sociologica, filosofica, complessivamente antropologica, perché questa non è altro  che una mutazione antropologica, certamente non  la prima nella storia della civiltà e nemmeno l’ultima.

A questo punto ecco la domanda: chi deve fare questo, chi lo fa.

La prima risposta che viene è la famiglia, perché, come diceva mia nonna sapiente analfabeta, la migliore concimazione è la prima acqua e la migliore educazione è la famiglia. Ma erano altri tempi. Coi tempi che corrono,   l’intervento dei genitori (se c’è e quando c’è) non incide in modo determinante sui comportamenti e sulle scelte.

Quindi scatta la risposta di riserva: deve provvedere la scuola.

Ma come. Semplicemente (si fa per dire)  insegnando non come si usa il computer ma come non si usa, il che implica un insegnamento anche dell’etica della comunicazione virtuale. In un libro che si intitola “Confessioni di un eretico high- tech”, Clifford  Stoll sostiene che è facile parlare di velocità del computer, di memoria Ram e di faccende tecnologiche. Invece è più difficile gestire le frustrazioni che generano queste cose, i loro costi diretti e indiretti, i loro effetti collaterali.  Poi si chiede: “Che cosa si perde quando si adotta una nuova tecnologia? Chi viene emarginato? Quali preziosi aspetti della realtà rischiano di venire calpestati?”. Probabilmente, come spesso accade, la verità, o almeno la virtù,  sta nel mezzo.

Per la prima volta la scuola si ritrova a confrontarsi con un sapere rispetto al quale chi deve imparare possiede conoscenze, abilità e competenze più forti  di chi deve insegnare.

Perché questi ragazzi, come si dice, nascono imparati; non a caso si chiamano nativi digitali; sono cresciuti – spesso in solitudine – con televisione, telefonino, Internet, playstation e giochi elettronici vari. Hanno una rapidità delle dita incredibile. Sanno manovrare qualsiasi aggeggio che abbia dei tasti anche se non l’hanno mai visto prima. Talvolta fanno invidia.

Però bisogna educarli a scegliere, a discriminare, a flettere la tecnologia sulla loro personalità e non a soggiogare la personalità alla tecnologia, a farne un’ancella e non una padrona. Già si impiega una vita intera a diventare padroni di se stessi.  Quando si riesce. Di farsi obnubilare dalle macchinette non ne vale proprio la pena. Meno che mai quando l’età promette avventure di conoscenza meravigliose.

(Nuovo Quotidiano di Puglia, 18 dicembre 2010)

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