di Evgenij Permjak
Una vedova cresceva suo figlio. Quel ragazzino era talmente bello che persino i vicini di casa non riuscivano a distogliergli gli occhi di dosso, non si stancavano mai di ammirarlo. Figuriamoci la madre, per quanto lo adorava e lo curava, non gli faceva muovere neppure un dito. Faceva tutto da sé. Portava da sé la legna e l’acqua, arava da sé, seminava, mieteva e perfino si caricava di lavori presso gli altri – per guadagnare di più e poter dare al figlio degli stivali eleganti e una bella fisarmonica.
Crebbe il figlio della madre. I capelli ondulati d’oro forgiato si arricciavano. Le labbra scarlatte per conto loro sorridevano. Bello come Adone. Un buon partito. Ma non trovava una fidanzata. Nessuna ragazza voleva sposarlo.
Tutte gli giravano le spalle.
Che strano, che mistero era questo?
Ma non c’era niente di strano, né di misterioso. La faccenda era semplice. Il figlio era cresciuto come una bella erbaccia estranea e persino dannosa sul campo di lavoro. Con le braccia, ma monco, con le gambe, ma zoppo. Non sapeva né falciare il fieno, né spaccare la legna. Né forgiare, né arare. Né intrecciare le ceste, né spazzare il cortile, né pasturare il gregge.
Mentre ammucchiava il fieno sul carro, cascò dal carro. Mentre pescava, finì nello stagno, poco mancò che affogasse. Mentre portava la legna, una scheggia gli finì nel ventre. Chi mai avrebbe potuto volerlo come compagno?