di Pietro Giannini
Nel mese di agosto si è svolta la ritirata dei soldati occidentali (usiamo l’aggettivo e il sostantivo corrispondente per pura comodità riassuntiva) che per circa 20 anni hanno operato sul suolo afgano. È stata una presenza che possiamo definire come vogliamo a seconda della diversa prospettiva ideologica (invasione, operazione umanitaria, giusta ritorsione, esportazione della democrazia) ma è indubbio che questa presenza ha avuto una profonda incidenza sul popolo afghano.
L’evacuazione è avvenuta in modo disordinato e affrettato anche per le errate previsioni sull’arrivo dei talebani a Kabul: due o tre mesi nei calcoli di luglio, appena una settimana nelle effettive vicende di agosto. Abbiamo tutti assistito alla precarietà con cui i soldati occidentali e gli afghani collaboratori sono stati imbarcati sugli aerei e trasportati nei vari paesi. Questa confusione e questo trambusto sono stati variamente definiti: “sconfitta” dell’Occidente”, “vergognosa ritirata”, “fuga” precipitosa, con l’evocazione degli elicotteri che “fuggivano” dai tetti dell’ambasciata americana di Saigon a conclusione della campagna vietnamita.
Quest’ultima comparazione è decisamente impropria perché, pur nel trambusto segnalato, le operazioni di sgombero sono avvenute in sicurezza e gli aerei sono regolarmente partiti.