Per un futuro auspicabile per il nostro Paese s’impone la necessità d’una pausa di riflessione pacata e positiva, al fine di restaurare l’unità degli spiriti e ripristinare le difese naturali della rettitudine morale, della libertà sociale e dell’etica politica. Qualità, queste, garantite soltanto dalla libertà di pensiero e dall’autonomia di giudizio morale critico. Quando, infatti, lo spirito partitico arriva a prevalere su questi punti, emerge allora cupo e minaccioso il fanatismo dei singoli e dei gruppi, con tutte le sue nefaste conseguenze. La crescita della vita delle società e degli Stati è, ovviamente, il risultato anche del progresso sociale e dell’avanzamento culturale dei popoli, i quali non vanno guidati faziosamente e, peggio, violentemente fomentati, ma tempestivamente educati e saggiamente formati, affinchè diventino un insieme di cittadini operosi, corresponsabili e coerenti, cioè un ‘popolo’. Questo compito formativo è affidato a tutte le agenzie formative: dalla famiglia alla scuola, dall’associazionismo laico e religioso ai partiti politici, dagli Enti Locali a tutte le Autorità governative e statuali.
Nel perseguimento di quest’opera di formazione sociale e politica del popolo è sempre sottesa una concezione generale di uomo, di società e di stato. Ora, da tempo ormai non si possono più invocare strutture sociali e ordinamenti statuali ispirati esclusivamente alle dottrine d’un collettivismo acritico, astratto e per certi aspetti irrealizzabile: ne deriverebbero inevitabilmente l’assolutizzazione della società e dello Stato, l’immolazione della concretezza delle individualità singole e degli organismi sociali intermedi, premessa rischiosa di svolgimenti pubblici ambigui e d’imprevedibili esiti totalitari. Ma non sono ugualmente i tempi delle altrettanto teoriche rivendicazioni delle dottrine liberali e dell’ottimistico dominio dell’economia liberista: l’entusiastica idolatria del mito del libero mercato, profeta invocato di benessere individuale e collettivo, ha già generato gravi situazioni d’ingiustizia sociale disumana e d’intollerante assoggettamento culturale.
Il cittadino delle democrazie contemporanee, di fatto, non è né il ‘socialista’ devotamente sottomesso, né il ‘liberale’ osservante senza riserve, e nemmeno il testimone d’una presunta ‘democrazia popolare’. L’odierno cittadino democratico, in realtà, è un individuo indifferente al valore delle virtù umane, sordo al richiamo degli ideali etici, insensibile alle istanze dei doveri sociali e politici. L’uomo democratico, con cui bisogna fare i conti oggi, in concreto, è sorretto e motivato unicamente dalla categoria del tornaconto privato, da raggiungere esclusivamente mediante l’astuto calcolo dell’interesse personale, prevedibile con certezza nello scambio da proporre o da valutare o da accettare. Del resto, già Alexis de Tocqueville aveva tratteggiato i connotati di questo moderno cittadino: insofferente d’ogni regola e disciplina; convinto sostenitore della spontaneità della natura e soprattutto dell’umanità; ottimistico profeta dell’autosoluzione d’ogni congiuntura; paladino eroico della singolarità d’ogni uomo, ritenuta unica titolare d’ogni diritto senza alcun corrispettivo dovere. E’ necessario, pertanto, indagare la possibilità d’una concezione, che conduca a una democrazia autentica e umana, che superi, cioè, da una parte l’idolatria dello stato e, dall’altra parte, il calcolo combinato di interessi privatistici. Si tratta di ricercare una cultura, che concili in armonia le diversità, evitando le opposte pericolose soluzioni dell’omologazione e dell’esclusione, in un contesto di condivisa solidarietà.
Il ‘popolo’ italiano, tutto considerato, potrebbe essere già ben incamminato per questa strada, grazie alla visione dell’uomo, su cui è fondata la Costituzione Repubblicana, nella quale il cittadino è valutato come persona integrale in sé e solidale con gli altri. Siccome in questi ultimi decenni essa è stata dimenticata, talora anche svilita, spesso chiamata in causa solo reclamarne la revisione e addirittura la riscrittura, forse sarebbe utile approfondirne almeno alcuni valori e principi sottesi, tenendo nella giusta considerazione che essi sono il risultato della collaborazione delle tre grandi anime culturali, che hanno contribuito alla ricostruzione fisica e morale dell’Italia dopo la guerra: l’anima socialista, quella liberale e quella cattolica. Si tratta di alcuni articoli, in cui si statuiscono in primo luogo la centralità della persona umana nell’organizzazione dello Stato in tutte le sue attività e, in secondo luogo, un sistema di partecipazione sociale ed economica ispirato a solidarietà nazionale e internazionale.
Per quest’ultimo aspetto, basta rileggere e ripensare i vari ambiti, in cui sono chiamati i cittadini a operare come singoli e come popolo. In primo luogo, il lavoro, fondamento della Repubblica Democratica Italiana, considerato sì come rapporto economico, ma rivendicato anche e soprattutto come valore umano e sociale; quindi, non come criterio di appartenenza a una delle classi sociali, ma come diritto di realizzare la propria vita personale (artt. 1 e 4) e di ottemperare, come cittadini, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell’ambito della nazione (art. 2) e nel contesto internazionale (art. 10). La solidarietà viene estesa, poi, a orizzonti sempre più vasti, fino a farli coincidere con i confini del mondo: l’Italia, “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie” per realizzare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). D’importanza non meno rilevante è, ancora, il riferimento al principio di solidarietà, richiesto proprio dalla dignità dell’uomo, a proposito della tutela della salute, dichiarata “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32) e, infine, nella dichiarazione del diritto di una “scuola aperta a tutti” (art. 34).
Il rispetto della persona umana, a sua volta, dev’essere esteso a tutti i cittadini, in quanto “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Essi, inoltre, come unitario popolo italiano, sono gli unici titolari della sovranità nazionale. E’ importante, allora, ripensare – specialmente in questi ultimi tempi – le motivazioni e le finalità inerenti agli articoli 49 e 67, in cui è sancita con chiarezza la forma di democrazia, che i Padri Costituenti hanno progettato: in Italia la democrazia non poteva essere né doveva divenire oligarchia, ma rimanere sempre e comunque “governo del popolo”, che andava posto nelle condizioni concrete di esercitare la propria sovranità in modo continuativo e in ogni occasione, e non soltanto il giorno del voto; si stabilì, allora, la norma del voto libero, uguale, personale e segreto, grazie al quale ogni cittadino, in possesso dei diritti richiesti, in condizione di libertà e di uguaglianza, può (e deve) eleggere il suo rappresentante, che legifererà per delega in ogni situazione particolare, ma sempre nella prospettiva dell’interesse dell’intera Nazione. In concreto i Costituenti immaginarono e stabilirono la libera formazione e la responsabile operosità dei partiti politici. Il combinato disposto degli articoli 49 e 67, pertanto, potrebbe costituire la chiave di lettura di tutto il tessuto strutturale della democrazia italiana: “Tutti i cittadini – è scritto nell’articolo 49 – hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; ovviamente mediante il proprio eletto, il quale, sancisce l’articolo 67, “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, essendo il suo mandato di natura esclusivamente politica.
Il partito politico, quindi, nelle intenzioni dei Costituenti, è la struttura politica realizzabile in ogni luogo dell’intero territorio nazionale, in cui i cittadini partecipano e discutono idee, proposte, iniziative, per formulare progetti di scelte politiche. Da ciò scaturiscono gli elementi costitutivi del partito politico, cioè: libertà di associazione, pluralità di associazione, adozione del metodo democratico nella vita organizzativa interna d’ogni partito e nei rapporti tra di loro e nei confronti con tutti i cittadini, libero contributo di ciascun partito per determinare la politica nazionale. La ragion d’essere dei partiti è la formazione della coscienza politica dei cittadini, che dovranno scegliere tra i più meritevoli i propri “rappresentanti”. In concreto tutto ciò è affidato alle disposizioni delle leggi ordinarie e particolarmente a quelle che disciplinano le competizioni elettorali. Se questo modello costituzionale fosse attuato, si creerebbero situazioni, in cui i dibattiti di idee e le proposte d’iniziative operative fra tutti i cittadini porterebbero sicuramente al “libero concorso” di tutti nella formazione delle scelte politiche nelle diverse istituzioni della Repubblica nell’ossequio dei tre poteri “sovrani”: legislativo, esecutivo, giudiziario. Nella realtà odierna ciò non succede. Ed è facile comprendere che, se i partiti non vivono nell’alveo delle regole democratiche, ma si trasformano in comitati d’interessi particolari, se non addirittura personali, allora, tradendo la Carta Costituzionale, diventano organizzazioni oligarchiche, guidate (e talora dominate) da gruppi dirigenti preoccupati di conservare la propria posizione egemonica. Sarà inevitabile, allora, che siano i dirigenti di partito a controllare l’accesso di nuovi ‘tesserati’, ovviamente non sempre veramente degni e capaci. Ma questo è la negazione della democrazia popolare, perché si spezza l’anello che lega la sovranità popolare alla democrazia dei partiti e questa alla democrazia delle istituzioni pubbliche. E’ il trionfo della partitocrazia, corruzione pessima della democrazia. La situazione della democrazia italiana oggi è sotto gli occhi di tutti. Aldo Moro nel 69, nel pieno di un grave sconvolgimento del sistema politico, avvertiva: «Questa crisi va fronteggiata, rendendo acuta la sensibilità dei partiti, aperta la loro azione, ricco di riflessione e di adesione il loro modo di essere nella realtà sociale. Non si tratta, dunque, di annullare i partiti, ma di renderli consapevoli del limite che scaturisce da una più grande ricchezza e vivezza della vita sociale. Riconosciuto, però, il limite, nel quale del resto è implicita una straordinaria occasione di arricchimento e di umanizzazione, dev’essere fermamente riconfermata la ragion d’essere dei partiti, il loro naturale pluralismo, la dialettica democratica della quale essi sono parte, la loro distinzione, la loro polemica, il loro convergere come il loro contrastare».
Non è compito della filosofia prevedere se e quando si possano superare e vincere errori e distorsioni. La filosofia può solo additarli e indicare la via meno incerta della verità politica. Ma tutto presuppone una trasformazione culturale radicale e un audace ritorno alle fonti vere dello spirito anche della Carta Costituzionale. Il compito tocca tutti indistintamente, come uomini e come cittadini: nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità, che richiedono coraggio, azione e lotta, ripudio d’ogni forma di neutralità e accettazione di una parte da sostenere.