Vi è poi convergenza di vedute sul fatto che la guerra in Ucraina, alimentando l’incertezza, potrà peggiorare l’andamento del Pil. E’ bene chiarire che da trent’anni l’Italia cresce meno della media europea e che questo risultato dipende dalla maggiore accentuazione, da noi rispetto ad altri Paesi, del segno liberista delle politiche economiche. Ci si riferisce, in particolare, alla svolta dei primi anni novanta: le cosiddette politiche lacrime e sangue dei Governi Amato e Ciampi. La riduzione della spesa pubblica combinata, in quella fase, con un aumento dell’imposizione fiscale soprattutto a danno dei percettori di redditi bassi – manovra motivata con l’obiettivo di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil – peggiora la distribuzione del reddito e, soprattutto, influisce negativamente sul tasso di crescita della produttività del lavoro. Quest’ultima infatti, come risulta da numerose ricerche teoriche ed empiriche, è fortemente sensibile agli andamenti della domanda aggregata: fenomeno noto in letteratura come legge di Kaldor-Verdoorn. Nei primi anni duemila, la caduta della domanda interna e della produttività è accentuata dalle ‘riforme’ del mercato del lavoro e dalla crescente precarietà: la flessibilità contrattuale, infatti, si associa a salari e stipendi bassi e in riduzione (e dunque a consumi bassi e in riduzione) e disincentiva gli investimenti in innovazione. Potendo competere riducendo i salari le imprese non trovano conveniente innovare. Cade dunque la produttività del lavoro e, per conseguenza, il tasso di crescita.
Il resto è storia recente, fatta di rinuncia all’attuazione di politiche industriali e di molte sovvenzioni monetarie alle imprese. Queste ultime si rivolvono, soprattutto in condizioni di incertezza, in tesoreggiamento e non danno luogo a nuovi investimenti. La rinuncia alle politiche industriali significa rinuncia a far sì che lo Stato sia impegnato in prima battuta come datore di lavoro e come soggetto promotore di innovazioni. La principale misura messa in atto dal Governo per contrastare l’impoverimento indotto dall’inflazione – il bonus dei 200 euro – è del tutto insufficiente. Con riferimento agli effetti dell’inflazione, si calcola che se, ad esempio, il contratto per il trasporto pubblico fosse stato rinnovato alla scadenza, ciascun lavoratore del settore avrebbe oggi quasi 5000 euro in più, ovvero quasi dieci volte più dell’una tantum da 500 euro per la vacanza contrattuale. Inoltre l’Italia non dispone né di un salario minimo né di meccanismi di adeguamento dei salari ai prezzi. Laddove, come in Francia, questi strumenti esistono la perdita di potere d’acquisto è assai limitata (il 4.5% a fronte del 6%). Il bonus non dà sollievo: l’Unione dei consumatori calcola che l’inflazione è una tassa pari 2118euro su base annua, equivalente a 5 volte il bonus.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 28 maggio 2022]