Al mercato dell’usato si fanno buoni affari

È vero, Paolo, tempus fugit «perché la vita è breve e affretta il passo», tu scrivi,  e «perché s’apra ognor picchia alla tomba» completa il poeta secentesco Ciro di Pers, mentre Francisco de Quevedo si rivolge alla clessidra rimproverandola «che hai tu da contar, clessidra fastidiosa?»; addirittura, ti rivolgi direttamente alle Parche sperando di poterle fermare: «intanto, fila Cloto imperterrita—————everyday and everynight———-il filo della mia finita vita», «Lachesi distribuisce il filo» «fino a quando non reciderà quel filo———this is the end———-alla fine del mio tempo, stanca, Atropo crudele…».

E allora, se la vita è breve, è «meglio vivere alla che me ne fotto» e così «l’Erebo/ noi, giocando, potremo rimandare»; «sono tutto e il contrario di tutto», scrive il Poeta in questa sorta di vagabondaggio spirituale alla maniera di quello dei protagonisti del Satyricon di Petronio, dove non manca anche il  pastiche linguistico che riproduce l’enfasi goliardica e il  richiamo irriverente al Vangelo: «Iacco, tu sei la vite, noi i tralci», che riporta alla memoria anche la parodia di tutte le religioni presente nel capolavoro della letteratura latina, dove l’uomo vive nel deserto della mancanza di prospettive, anche quelle ultraterrene.

E «anche il naufragare/ in quest’estate di voglie e sole / mi è dolce in questo mare», dove la prospettiva immaginifica di Leopardi viene brutalmente atterrata dal carpe diem in cui compare la figura femminile; «che voglia di farti mia», esordisce Vincenti, e poi, «hey, mitico Orfeo, svelami i segreti della notte/ prestami le chiavi/ e fammi ballare con le tue mignotte»; in un altro testo, calcando le impronte di Giovenale, definisce la donna una ‘megera’  e il matrimonio ‘un ergastolo volontario’.

Qui trovo che il ricorso all’immagine della donna come strumento, insieme al vino, per vivere la frenesia dell’abbandono ai piaceri dei sensi appaia un po’ fuori luogo in quanto compatibile solamente col contesto del mondo classico, all’interno di una cultura patriarcale oggi fortemente messa in discussione; come scrive  Louise Bruit Zaidman nel suo articolo Le figlie di Pandora, «le donne folli di Dioniso, le Baccanti, sono innanzitutto, nell’immaginario dei greci, figure mitiche, che esprimono il rovesciamento dell’ordine della città e della famiglia»[1].

La visione estremamente disincantata che il poeta ha della vita non lascia spazio ad alcuna via d’uscita all’orizzonte e per sfuggire alla prospettiva in cui «è solo la vita/ niente», «è solo la vita che non dura», e dove è «la verità, scacciata dalla città, mendica e lacera», oltre all’abbandono orgiastico ai piaceri della vita, un altro rimedio potrebbe esserci, anche se momentaneo, ovvero il distacco dalle cose: «ho deciso, è indifferenza/ quella che lascio passare», la Divina Indifferenza montaliana ci verrebbe da ricordare.

Ecco che le «inquietudini non placate» lo portano alla disperazione e allora «potessi strapparmi questa morte dal cuore», scrive nel componimento di evidente memoria dannunziana:

Sera

Ancora, come sempre, si scioglie in pianto la sera

Ahhh, potessi strapparmi questa morte dal cuore

​e farne cosa viva, farne cosa vera

Un canto tenebroso salito chissà da dove

si impossessa dei miei pensieri

e piove ancora, piove, come una disperazione

sui fiori di oggi, sui fiori miei di ieri

ahhh, potessi strapparmi questa morte dal cuore

e riprendermi i miei dolci crepuscolari vent’anni

oppure, se è più forte la maledizione,

farli finalmente finire, finire, questi affanni

In un altro testo, inoltre, si tocca il tono elegiaco autentico e, questa volta, egli sembra evocare lo spirito della sua anima che finalmente gli parla, come nella poesia

Tramontalba

Il tramonto, come miele, spande la malinconia su questo orizzonte

che diventa disperazione, se penso che a questo tramonto rosso sangue

seguirà una nuova alba, fresco magica, bianca d’uovo, riveniente

una chiara dolce aurora, come sempre, per noi salirà da levante

e, come sempre, mi troverà disteso su questo letto di dolore reiterante

La sera, come fiele, spande una tenebrosa malinconia all’orizzonte

Ahhh, potesse questo tramonto traditore essere l’ultimo, e poi più niente

solo la notte mistica, la notte dell’increato, della non morte, dell’indefinito

Allora, sì, sarei il niente più felice del mondo, in tutto quell’immenso vuoto.

Ancora una volta gli vengono in soccorso i classici, i buoni amici fidati, quelli che non tradiscono mai, in particolare un personaggio della mitologia: «Orfeo, prestami le chiavi per uscire dal corpo prigione», ma non gli basta, ha bisogno di rivolgersi a qualcun altro nella poesia

Al Bivio

O Signore, Signore Gesù

ti prego salvami, salvami tu!

Fra il discorso giusto e quello ingiusto

provo solo dentro un gran disgusto

e non so se dico il vero o mento

ma sento solo un grande smarrimento

e come Eracle al bivio, fra         Aretè e Kakia

io non so quale sia la strada mia

e dondolandomi fra vizio e virtù

ho perso il ritmo andando su e giù

e dondolandomi fra onestà e depravazione

ho dimenticato quale sia la mia inclinazione

​e fra un impulso naturale e uno contro natura                                                                        non so dare un senso a questa paura

O Signore, Signore Gesù

ti prego salvami, salvami tu!

Non so dire fra il come e il perché

e mi interrogo fra me e me

e dondolandomi fra empirico ed ideale

sono combattuto tra il dire e il fare

e fra il dire e il fare ciò che sia

così si dibatte l’anima mia

e fra un giorno che viene e uno che va

so solo rimpiangere la mia età

fra quello che ero e quello che sarò

non so dire se sto bene come sto

e per quello che ero e non più sono

mi viene di chiedere perdono

fra quello che ero e quello che sarò

non so se mi piace quel che ho

O Signore, Signore Gesù

ti prego salvami, salvami tu!

E quando la poesia si nutre nuovamente di illusioni per cui egli scrive: «forgia Efesto, una nuova umanità», allora, nel camaleontico modus scribendi di Vincenti, abbiamo scoperto la sua vera anima?

Georgi Gospodinov, in Fisica della malinconia, scrive che «il giorno dopo l’Apocalisse non uscirà nessun giornale. Che ironia! L’avvenimento più importante della storia mondiale non sarà divulgato. Ma ora è ancora prima e devo affrettarmi per finire il mio lavoro».

E qual è il lavoro che deve fare il nostro Poeta? Sarà quello di concedersi una sorta di miracolo, ovvero sentire il suono del tamburo «e quando di crescere deciderò/ io non lo so, se lo farò/ ma il mio tamburo, sempre con me/ fedele compagno, porterò» in cui, oltre all’evidente citazione da Gunter Grass, mi pare di sentire l’urlo dell’uomo dei curli, di Antonio Verri, quello de La betissa per intenderci: «grida adesso che gridare apre alla vita/grida e di nuovo col tamburo squassa l’aria», per cui il rumore del tamburo diventa, e qui sta l’incanto, quel quid che ci permetterebbe di sganciare la catena della disillusione e del nulla.

E Vincenti, come Verri, non se ne può stare certo tranquillo a vivere la sonnacchiosa vita di provincia, ha bisogno di smuovere le acque, di cercare sempre qualcosa; soprattutto, il suo lavoro è anche quello di evocare il territorio, un Salento mitico bodiniano, mitizzato e addormentato come appare nella poesia

Pomeridiana

Attraversano queste strade, nell’afoso silenzio pomeridiano, neri morti di ritorno dalle urne incenerite del tempo… Attraversano queste strade, nella luce abbacinante di agosto, nudi morti in lenta processione, fra i filari di tabacco e le vigne, pregne di quel rosso umore, che allieterà, fra non molto, cantine e palmenti, nell’aria appena rinfrescata di settembre … Attraversano queste  strade, fra cave di tufo e fichi stesi ad essiccare, desolati morti, non visti, inascoltati, nel paese bruciato dal sole, e la controra, quando volano streghe sulle loro scope leggere, e monacelli saltano fuori dalle calcare, è solo dei bambini che, sottratti ai loro manga da grosse madri dialettali, sono costretti a quel sonno, che non vorrebbero dormire..

Tuttavia, a differenza di Bodini, che scrive «quando tornai al mio paese nel Sud/ io mi sentivo morire», Vincenti cerca in esso una sorta di riscatto dall’angoscia: «in queste terre abbruciate dal sole…dove, è per rinascere, che si muore» e compare anche l’audace cavaliere salentino che avrà spezzato l’incantesimo voluto da Atena: è forse il cavaliere di Bodini che vorrebbe essere un ‘guerriero catafratto’?

Il filo di Aracne

Dagli ultimi scampoli del tempo mitico

torna Aracne, a tessere quella tela

che non si è mai interrotta

qui, nella terra dei santi che volano

Dalle luminose cattedrali del tempo aureo

Aracne, tesse il filo della nostra vita

di una trama meravigliosa e insaputa

in questa terra licoside, di menta e rosmarino

Quando l’audace cavaliere salentino

avrà spezzato l’incantesimo voluto da Athena

tutta la sua bellezza si libererà

nell’aria dei cieli di scirocco e tramontana

nel profumo dei viburni e dei fichi selvatici

tutta la sua bellezza si sprigionerà

nella magia di una sera del sud

in questa terra licoside, di asparagi ed asfodeli

Ma fino ad allora, con tocco lieve

tesse, Aracne, questa tela infinita

per noi, ulissidi marinai e contadini

e per le nostre penelopi sospiranti

dalle luminose cattedrali del tempo ancestrale

alla nostra ultima illusione

Così, tra i canti alla stisa, citati nella poesia Periodo ipotetico e le neviere e i muretti che compaiono nella poesia Ai vecchi tempi e il rito del gheranòs che si fonde con quello delle tarantate ne Il ballo di Teseo e Arianna e Morsi e ri-morsi si manifesta una sorta di catarsi che può trovare luogo solo nella poesia.

Viene così riproposto dall’Autore il tema del legame tra tarantismo e la pratica antica della possessione indotta dalla danza e dalla musica, un tema interessante dibattuto, tra gli altri, da Paolo Pecere nell’interessante libro Il dio che danza il quale, sulle orme di Ernesto de Martino, racconta i suoi viaggi sulle tracce di questo fenomeno antichissimo.

E il tema del ricordo, poi, è in grado di materializzare quel sentimento di nostalgia che non può che sedurre il lettore:

Mi ricordo, si, mi ricordo

Mi ricordo, quell’euforia di uscire il sabato sera, mentre una canzone d’autunno mi addolciva la gola, mi ricordo, sì mi ricordo, era il tempo da farsi, era il tempo che si sarebbe fatto, era il tempo da avere, era il tempo che avremmo avuto, era quel tempo desiderato, mai prima cantato, era il tempo incorrotto, mai manomesso, era il tempo, lo stesso di adesso, ma non era ancora saputo, i gesti consueti e quella calda famigliarità, le frasi fatte, mezzo e mezzo cattiveria e bontà, la strada per la scuola, emozioni col cuore in gola, un caffè la mattina scioglieva il freddo della brina, e tutti

scienziati, tutti poeti, tutti cantanti o uomini navigati, mi ricordo, era il tempo voluto, abbracciato, accarezzato, preso e portato, mi ricordo, sì, mi ricordo, era il tempo da attraversare, il tempo che avremmo attraversato,  come quel grande mare che avremmo navigato, era il tempo stellato, fortunato, il tempo di avere, non ancora quello di dare, il tempo di avere, che è poi anche quello di dare, solo che allora non lo sapevamo, non lo potevamo sapere, come potrei scordare, quella precarietà che ci faceva star bene, quando il dolore era un ospite inatteso e l’ansia, un dolce peso da

portare sulle spalle, mi ricordo, sì, quando il dolore era un ospite indesiderato e lo si lasciava sempre fuori e l’ansia, una dolce inquietudine, la leggerezza, un’attitudine, come un abito mentale che si indossa, quando ci stringevano forti braccia e ci accarezzavano rugose mani, era il tempo di amare, quel tempo che avremmo amato, rimpianto, perduto, sconsacrato, quando tutte le cattedrali nel deserto sarebbero state profanate, ripudiato, quando la fede sarebbe stata tradita dalla paura di perdere, dalla paura di restare nudi, soli con se stessi, di fronte a quell’enorme cielo che non si può

più volare, era il tempo da ricordare, il tempo che avremmo ricordato, era il tempo di dire, quello che avremmo scordato, era il tempo da mangiare e da bere, era il tempo di vincere, il tempo che avremmo perduto, sì, mi ricordo, forse non ti ricordi tu, era quel tempo che non torna più, smascherato, indebitato, risaputo, solo che allora non lo sapevamo, il tempo che si sarebbe corrotto e pentito, era il tempo da finire, quello che avremmo finito, il tempo nascosto nelle pieghe di un dolore, amato, nel tempo dell’amore, il tempo suonato nei pomeriggi di inverno, il tempo da versare,  quello preciso e identico che avremmo versato, il tempo di allora, ovvero il tempo di

adesso, il tempo che è sempre lo stesso,  cosa che avremmo saputo dopo aver messo fine a quel tempo sottile, il tempo che passa e noi avremmo fatto passare, il tempo che c’è e quello da aspettare, era il tempo da perdere, quello che avremmo perduto, spostato, incartato, frugato fra i piccoli desideri quotidiani, scippato, arreso, mollato, il tempo defraudato, quello che avremmo rivalutato, sconsolato, era il tempo di sempre, cioè il tempo di mai, quello che noi avremmo affaticato, il tempo stancato, quello che avremmo portato come magra consolazione per una sera piovosa di aprile, come scusa banale per non scendere di nuovo le scale, come alibi per restare,

come mordente per partire, il tempo di sentire di dovere e che chi ha avuto ormai è partito, mentre chi deve avere è ancora qui, che aspetta un segnale, il tempo che si accomoda nella nostra casa e non ne vuole sapere di uscire, il tempo da chiarire,  il tempo che avremmo chiarito… mi ricordo, sì mi ricordo, e come potrei scordare…

Possiamo, quindi, finalmente smentire il nostro Autore e dirgli che certe volte, quando ci si reca dal rigattiere, prima di tutto bisogna saper cercare bene per poter fiutare l’affare ma solo se sei consapevole del valore di ciò che hai comprato puoi dargli nuova linfa e farlo rivivere quel pezzo, tirarlo di lucido, rifargli il trucco; allora, grazie al proprio estro creativo e a una sensibilità non comune, Vincenti ha dato nuova vita a ciò che era destinato a rimanere confinato nell’ambito sterile di chi si accosta ai classici solo con l’occhio del traduttore e dell’esegeta accademico.

Qui, in poche parole, non parliamo più di riscrittura, ma di un sapiente lavoro di filtraggio della vasta materia a cui attingere per dare corpo ai fantasmi di uno spirito inquieto, curioso e avido di letture.

Un’ultima osservazione, Paolo, ti vorrei fare: tu hai detto «scrivo perché non so giocare a calcio» ma non dimentichiamo che Pier Paolo Pasolini era un ottimo giocatore eppure sapeva scrivere, quindi, fai ancora in tempo a prendere in mano un pallone.

                                                                                                                    


[1] Louise Bruit Zaidman, Le figlie di Pandora, in “Storia delle donne: l’antichità”, a cura di G. Duby e M.      Perrot, Laterza, Bari, 1990, pag. 322.

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