La letteratura come specchio del tempo in cui si vive

di Antonio Errico

Raffaele La Capria se n’è andato alcuni giorni addietro. Aveva novantanove anni. A quell’età forse non si ha paura più di niente, di nessuno. A quell’età forse non si ha più paura nemmeno di Dio. Perché neppure Dio può toglierti il tempo che ti ha dato in dono. A quell’età si hanno i termini di paragone, si ha la possibilità di valutare perfino che cosa è bene e cosa è male, mettendo a confronto i fatti, le occasioni, i treni presi e persi, tutto quello che è stato, quello che poteva essere e non è stato. A quell’età si potrebbe essere spavaldi e invece si è umili, modesti, semplici, remissivi, essenziali. Non seduce più la gloria. Non importa degli onori. Ha scritto fino a quell’età, Raffaele La Capria. Se a quell’età si scrive, si continua a scrivere ancora, è perché si prova una fede nei confronti della scrittura. E’ per il fatto che si pensa che la parola – una parola sola- possa arrivare alla coscienza di qualcuno. A quell’età si può scrivere soltanto per vizio o per virtù. Raffaele La Capria scriveva per vizio e per virtù. A volte l’età non consente di rinunciare ai vizi e neppure di evitare l’espressione delle virtù. Quando si passano i cinquanta, tutto quello che viene è un privilegio, un biglietto ricevuto in omaggio per assistere allo spettacolo di un giorno. Scriveva per vizio e per virtù, Raffaele La Capria. Con una prosa che è un po’ saggio e un po’ racconto. Ma la distinzione in genere è sempre pretestuosa, sempre artificiosa. Una volta, in una autopresentazione che sta in una conversazione con lui, intitolata “Letteratura e sentimento del tempo”, diceva di non essere un letterato né un romanziere. Diceva di essere uno che sta in mezzo e cerca di combinare una naturale inclinazione saggistica con una naturale inclinazione narrativa.

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