Già il topos, da cui scaturisce l’“intreccio” dei Fibbia, quello dell’amore, e poi del matrimonio, contrastati, presenta connotati affatto tipici di una ristretta comunità del Sud d’Italia fino a qualche decennio addietro. Erano infatti ragioni di “convenienza” sociale a imporre che in una famiglia la prima a sposarsi dovesse essere la figlia maggiore. Così doveva avvenire anche nella famiglia di papà Donato, il quale per questo motivo costringe Emilio prima a fidanzarsi e poi a chiedere in sposa non Carla, della quale è innamorato, ma Elena, la maggiore delle sue figlie appunto. Da qui si dipana la vicenda che nella fabula romanzesca ha inizio con l’abbandono della sposa da parte dello sposo il giorno delle nozze. Questo episodio di modesta cronaca paesana mette in moto i successivi avvenimenti e, in primo luogo, il coinvolgimento, nella storia, del protagonista, don Gegè, che narra in prima persona, turbato a tal punto da una simile notizia da uscir fuori dalla sua lunga solitudine.
Il romanzo però, pur essendo legato a una ben definita realtà, riesce ugualmente ad avere un significato più generale, una dimensione più ampia. Proprio attraverso la figura del protagonista, viene sviluppato, ad esempio, il motivo tipicamente novecentesco della “estraneità”, definita acutamente da Giacomo Debenedetti “questa nuova condizione dell’uomo, ridotto da un invisibile scacco, del quale non sa dirsi il come e il perché, a uno straniero, un estraneo, un assente di fronte alla vita nella quale pure si agita con iniziative spesso tremende, irreparabili, rovinose; ma vi si agita con una inspiegabile alacrità sorda, passiva, apparentemente sprovveduta di ogni scopo, senso e finalità, incapace di qualsiasi progetto e programma: è insomma un muoversi per lui assurdo, in quanto non gli sembra nemmeno una risposta alla esosa, impenetrabile assurdità dell’esistenza”[vi].
Si osservi più da vicino la figura di don Gegè. Entrato quasi per caso a interessarsi di questa vicenda, egli si trova coinvolto, senza volerlo, in un ingranaggio di cui gli sfugge l’autentico significato e che rischia, a un certo punto, di travolgerlo e annullarlo, riducendolo a un oggetto sballottato in continuazione da una parte all’altra, in una sorta di “inconcludente girovagare”. Tipico “antieroe”, tormentato dal dubbio e dall’indecisione, incapace di dare un senso preciso alle proprie azioni, don Gegè appartiene alla razza degli “inetti”, alla quale ha dato vita la più alta narrativa del Novecento, da Svevo a Pirandello, da Tozzi a Borgese, per non parlare di Kafka, la cui lettura esercitò una “forte influenza” su Paolo, come egli stesso ebbe a confessare in una lettera inviata il 30 maggio 1962 dal suo paese, Carmiano, all’amico scrittore Nino Palumbo[vii] e come, d’altro canto, risulta assai evidente in questo romanzo.
Fin dalla sua prima apparizione, il protagonista si presenta come uno che era “vissuto fino allora completamente isolato”, fuori perciò dagli schemi di quella “buona società paesana”, alla quale pure apparteneva, così efficacemente descritta all’inizio da Paolo: “una società chiusa nel suo orgoglio di casta, ricca di pregiudizi nati dalla coscienza del proprio passato e che magari la presente modestia di mezzi economici, non che umiliare, rende più orgogliosa per quel naturale senso della liberalità che spesso l’allontana sdegnosamente da tutte le vili arti dell’arricchimento”. Egli era incline piuttosto a costruirsi “una vita dal di dentro, vedendo tutto con gli occhi dell’immaginazione”, vivendo cioè, quasi alla maniera di certi personaggi di Tozzi, “con gli occhi chiusi”.
“Estraneo” alle cose che lo circondano (“Mi sentii solo, completamente solo e estraneo a tutti quegli oggetti. Ebbi paura…”), alle persone che incontra (“Io ero rimasto freddo ad ascoltarlo, non ritrovando più la commozione di due ore prima. Lo sentivo estraneo, tanto estraneo che la sua stessa presenza mi ripugnava”), “straniero” nel suo stesso paese (“Camminavo come uno straniero nel mio stesso paese […] Più che estranei i muri a me, ero io estraneo a loro, e non c’è modo di essere più stranieri che sentirsi soli nel proprio paese”), don Gegè a un certo punto della vicenda si scopre, con raccapriccio, “estraneo” perfino a se stesso: “Sentivo il vuoto della mia esistenza, e come tutto mi venisse dagli altri e niente fosse mio: pensieri, volontà, passioni. Mi ripugnava sentir vivere gli altri dentro di me, e tuttavia era una realtà di cui non potevo liberarmi, essa mi veniva sempre davanti e s’immetteva nella mia vita”; e ancora: “e mi chiedevo se ero davvero io colui che pensava e agiva così, o non fosse un altro diverso da me ma che possedesse tutti i miei ricordi. Mi riversavo negli altri, mi svuotavo di me al contatto della gente che incontravo per via…”.

Né è sufficiente l’amore per Nanetta, la più giovane delle figlie di papà Donato, a farlo rientrare nei ranghi della “normalità”. Tanto è vero che il romanzo si conclude con la scelta coraggiosa, anche se sofferta, da parte del protagonista, di continuare a vivere nella solitudine piuttosto che accettare il compromesso, rifiutando di fare entrare i Fibbia a casa sua e di chiedere loro l’approvazione per le nozze con la ragazza.
Di contro a questo personaggio stanno proprio i Fibbia, che rappresentano il rigido rispetto delle convenzioni, il completo adeguamento alle norme della società al punto da diventare oppressori di coloro che vivono al di fuori di esse. Tanto più essi incutono terrore, quanto più si comportano apparentemente con estrema correttezza formale e agendo nella piena legalità. Amanti dell’ordine e della gerarchia (è significativo, a tale proposito, il brano del bambino costretto a ripetere all’infinito un gioco assurdo), nemici di coloro che si abbandonano ai sentimenti, ovviamente ipocriti (assistono con “un’aria compunta, come se fossero davvero addolorati” ai funerali della moglie di papà Donato), arrivano a negare l’evidenza dei fatti solo perché non rientrano nei loro schemi mentali, come quando si rifiutano di credere all’abbandono di Elena da parte di Emilio. E per di più possiedono una tale forza di convinzione da riuscire a plagiare anche individui più deboli, come papà Donato che a sua volta si rifiuta di riconoscere come vera la fuga della figlia Carla con Emilio, perché la ritiene “una cosa irregolare”. La loro logica, apparentemente ferrea, risulta perciò assurda a don Gegè, che ad essa si ribella proclamando le ragioni del cuore e dei sentimenti.
Anche questi personaggi, che pure assurgono a simbolo di soffocante conformismo e di insopportabile oppressione, non si spiegherebbero però senza il riferimento a certe caratteristiche strutturali della società meridionale. Chi sono infatti i Fibbia se non un vero e proprio clan familiare, cioè un raggruppamento di individui legati tra loro, come succedeva spesso nei paesi del Sud, da vincoli di parentela, ai quali spettava il compito di regolare i rapporti sociali nella comunità, come la scelta del coniuge? Essi si dimostrano perciò compatti dal punto di vista ideologico e assai “solidali” tra loro (e il nome, o soprannome, probabilmente vuole alludere proprio a questo), anche se differenziati dal lato delle possibilità economiche (“Quelli sono i Fibbia ricchi, ma non tutti i Fibbia sono ricchi, e ce ne sono molti altri oltre a quelli […] Però sono tutti solidali tra loro, e ciò che tocca uno solo di essi tocca tutti”). Così soltanto si può capire quella sorta di strana, inspiegabile a tutta prima, proliferazione della “razza maledetta” dei Fibbia “che non finisce mai”, a cui si assiste nel corso del romanzo.
Essi infatti, all’inizio, sono solo sette (“i sette beccamorti”, “i sette compari”), cioè i rappresentanti di altrettante famiglie imparentate tra loro, ma, a un certo punto, sembrano i soli abitanti di questo desolato paese, implacabili “pedinatori” del protagonista, messo in stato d’ “assedio”, per usare un’espressione di Paolo, che è anche metafora di una condizione di smarrimento esistenziale, oltre che di disadattamento sociale. Memorabile è il brano relativo alla loro prima apparizione, con la descrizione dell’ abbigliamento e dei tratti fisiognomici, così simili da farli sembrare tutti dei perfetti cloni: “Nonostante la stagione inoltrata, indossavano un vestito nero, con cappelli neri, cravatte nere, scarpe nere. Avevano la stessa testa grossa, gli stessi capelli, le stesse mascelle larghe, lo stesso sguardo cruccioso, e dimostravano una calma ostinata”. E si noti che in tutto il romanzo questi sinistri figuri agiscono sempre all’unisono, compiendo esattamente le stesse azioni e dando risposte “collettive”, anche se per bocca di un “portavoce” affetto (particolare non trascurabile) da “un tic nervoso alla palpebra sinistra”.
Ma per collegarli a un preciso ambiente, si pensi anche alla funzione di “compari d’anello” che essi avrebbero dovuto svolgere nel mancato matrimonio. Il comparatico infatti, nei piccoli paesi del Sud, comportava lo stabilirsi di obblighi e restrizioni che incidevano notevolmente nella vita della comunità, in maniera analoga per certi aspetti alla vera e propria parentela di sangue, anche se già verso la fine degli anni Cinquanta la vecchia società patriarcale e agricola meridionale andava disgregandosi sotto gli effetti dei profondi cambiamenti demografici, sociali, economici in atto nella nazione e certe istituzioni come questa incominciavano a perdere gradualmente di senso e rischiavano ormai di sembrare vestigia di uno stadio arcaico.
Gli altri personaggi del romanzo sono più vicini ai Fibbia che a don Gegè. Anche le figlie di papà Donato, le quali pure all’inizio provano un’istintiva avversione nei loro confronti (“Ma io li detesto. Già tutti li detestiamo qui, all’infuori, s’intende, di papà”, dice una di esse), alla fine accettano il compromesso, rientrando nell’ordine costituito. Pure Nanetta si rifiuta di dare ascolto fino in fondo ai suoi sentimenti, rinunziando alla progettata “fuga” con don Gegè. La sua unione infatti, come quella della sorella Carla con Emilio, avrebbe dovuto avere il consenso, oltre che del padre, anche dei Fibbia ai quali sarebbe spettato il compito di “stabilire le condizioni” del matrimonio. L’unica a opporsi veramente a loro è la moglie di papà Donato, la quale sconta per questo fino alla morte, con la vera o presunta pazzia, il suo anticonformismo e il suo desiderio di libertà e autenticità, proprio come un tragico personaggio pirandelliano.
Nel romanzo, ricco, come s’è visto,
di elementi antropologici, non è
difficile rintracciare svariati echi e suggestioni della narrativa moderna, che
vanno da Kafka e Pirandello in primo luogo, a Svevo, Tozzi, Buzzati e Camus. Pur nella sostanziale
uniformità del tessuto linguistico, esso presenta una vasta gamma di toni: il
grottesco, l’ironico, l’onirico e il patetico. Quella “accentuazione
espressionistica”[viii],
già notata da Barberi Squarotti nel Canale,
qui si fa ancor più evidente nelle descrizioni, peraltro ridotte al minimo,
dello spettrale paese in cui si svolge la vicenda, immerso in un’atmosfera
livida, carica di oscure ma incombenti minacce, e in certe sequenze da incubo,
al limite tra il sogno e la realtà. Grande rilievo infine, come nelle altre
opere di Paolo, ha il dialogo, qui finalizzato ad esprimere però,
paradossalmente, l’incapacità degli uomini a comunicare e ad intendersi
pienamente tra di loro. Tanto è vero che in certi momenti I Fibbia sembra trasformarsi in una esilarante commedia degli
equivoci e dei malintesi, segno, in fondo, dell’assurdità che caratterizza,
dall’inizio alla fine, tutta questa vicenda.
[i] Per una descrizione di questi materiali e per maggiori informazioni sul romanzo si rinvia al nostro Storia de “I Fibbia”, in “Sudpuglia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia”, a. X, n. 4, dicembre 1984, pp. 113-118; ora in A. L. GIANNONE, La “permanenza” della poesia. Studi di letteratura meridionale tra Otto e Novecento, Cavallino di Lecce, Capone, 1989, pp. 105-116.
[ii] In “Sudpuglia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia”, a. X, n. 4, dicembre 1984, pp. 47-112.
[iii] Il testo qui pubblicato riproduce fedelmente un dattiloscritto rilegato di 145 fogli numerati a mano, con lievi correzioni autografe, conservato nell’archivio privato dello scrittore a Carmiano (Lecce). Il nostro intervento si è limitato alla correzione di qualche refuso e a minimi ammodernamenti grafici.
[iv] Sull’opera di questo scrittore cfr. G. BERNARDINI, Approccio a un narratore meridionale: Salvatore Paolo, in “Sudpuglia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia”, a. X, n. 4, dicembre 1984, pp. 42-46 e N. CARDUCCI, La narrativa di Salvatore Paolo, in Scrittori salentini tra coscienza del passato e letteratura, Cavallino di Lecce, Pensa Editore, 2005, pp. 227-266.
[v] Così infatti confessava in una lettera, inviata da Carmiano il 30 maggio 1962 all’amico scrittore Nino Palumbo: “Di me ho da dirti che sono diventato indifferente a molte cose. Sono cambiati anche i miei gusti letterari, il neorealismo non mi attira più”.
[vi] G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, p. 418.
[vii] Così infatti Paolo scriveva a Palumbo in questa lettera: “È esatto che il mio nuovo orientamento estetico è d’ispirazione kafkiana, perché la lettura di Kafka ha esercitato su di me una forte influenza”. E più avanti precisava: “Comunque non credo che lasciarsi influenzare da un autore (da un grande autore, dico) sia un male. Non c’è niente di male cioè che uno faccia propri i mezzi espressivi di un altro scrittore quando sente che corrispondono al proprio mondo poetico. L’importante è che appunto questo mondo sia originale e non sia una ripetizione di quello del quale si son presi a prestito i mezzi espressivi”. E in un’altra lettera datata 5 dicembre 1962, inviata sempre dal suo paese a Palumbo, ribadiva che “quella chiave [Kafka] mi ha permesso di scrivere il romanzo che diversamente non usciva e forse non sarebbe mai uscito: trovavo infatti forti difficoltà, e alla fine le ho superate quando mi son messo su quella via. Non è stata quindi una mia intenzione o un mio proposito, ma uno sbocco spontaneo, né so dire se esso si ripeterà in altri lavori successivi”.
[viii] G. BARBERI SQUAROTTI, La narrativa italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1968, p. 149.
[Introduzione a S. Paolo, I Fibbia, a cura di A. L. Giannone, Carmiano, Calcangeli Edizioni, 2005].