di Antonio Devicienti
Il passo di Giacometti è quello delle sue ombre, le sue ombre sono materia scultorea – o l’avanzo, carbonizzato e irriducibile, di quello che il fuoco ha finito di bruciare e più non sa bruciare. Questa pioggia non estingue il fuoco, ma allarga il respiro, cade sulla testa e sulle spalle.
Il passo stretto di Giacometti sotto la pioggia è quello di ogni viandante che, per istinto, cerchi di bagnarsi il meno possibile o sia stato sorpreso dall’acquazzone. Però sembra ben più sorpreso d’essere inquadrato dall’obiettivo dell’amico fotografo.
La pioggia che bagna e fa luccicare l’asfalto, il nome della strada sulla targa smaltata al muro sono Parigi in un giorno di pioggia – – – ma Parigi di Giacometti, di Cartier Bresson.
Il passo raccolto di Giacometti è l’umano passo di chi cammina, senza l’ombrello, sotto la pioggia.
Il passo della pioggia in Rue d’Alésia porta probabilmente a un caffè, a un tavolo al quale sedere, solo o in compagnia, oppure riporta all’atelier, quello stanzone ingombro di frammenti e pennelli incrostati, bottiglie appannate mezzo svuotate dei colori, pareti ricoperte di segni, l’intonaco sbreccato, i finestroni opachi di polvere mineralizzata.
Il passo di questa scrittura vuole essere il passo di Giacometti nella pioggia parigina e la cadenza dello sguardo di Cartier Bresson che, all’angolo, attende l’amico.