di Antonio Lucio Giannone
Vittorio Bodini ha messo al centro dei suoi primi due libri di poesia, La luna dei Borboni[1] e Dopo la luna[2], nonché della sua produzione in prosa[3], per tutti gli anni Cinquanta, il motivo del Sud, andando alla ricerca delle radici, dell’identità meridionale e in particolare pugliese e salentina, attraverso l’individuazione di alcune costanti storiche, artistiche, antropologiche, sociali che l’hanno caratterizzata nel corso dei secoli. Per questo motivo il Sud di Bodini non ha niente di convenzionale o di stereotipato, ma è una sua originale invenzione, come lo scrittore rivendicava in una lettera a Oreste Macrì, datata «Lecce, 1 febbraio 1950»: «Ora questo Sud è mio; mio come le mie viscere; e io l’ho inventato»[4]. In questo Sud da lui “inventato” che, come è stato notato, è «iperonimo del Salento»[5], mito e storia, realtà e fantasia, tradizioni e leggende si fondono fino a farlo diventare metafora di una tragica condizione umana[6].
Al tempo stesso, il Sud è diventato per lui anche un motivo nuovo di poesia che gli ha permesso di superare quell’impasse in cui si dibatteva la poesia italiana nel secondo dopoguerra, stretta nella morsa tra post-ermetismo e neorealismo. Per Bodini, infatti, era necessario uscire fuori dalla «prigione di parole»[7] in cui, a suo giudizio, si erano rinchiusi gli ermetici e confrontarsi invece col reale, con la società, con il tempo, senza peraltro rinunciare allo scatto inventivo, alla fantasia, all’immaginazione, come facevano i neorealisti che si appiattivano sul livello documentario e fotografico della realtà. È questa la cosiddetta “terza via” bodiniana[8], che non è stata ancora compresa a sufficienza dalla critica.