Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 8. L’autunno del 1943

Inforchiamo le biciclette, e via a Galatina, per attingere notizie più dettagliate. Lungo la strada, però, ci rendiamo conto che qualcosa non va. Qualche viandante ha il volto rannuvolato, e dopo Noha vigili urbani e carabinieri impongono ai contadini di spegnere i falò nei campi. Un melènso tutore dell’ordine aggiunge che bisogna, invece, pensare a rinfonzare i valli, i famosi valli della propaganda fascista che, o non sono mai esistiti, o non sono mai serviti a niente. In città ogni segno d’allegrezza è spento, ogni certezza si è infievolita o è venuta meno. Il bollettino della sera, riascoltato con acribìa, cancella ogni dubbio laddove esso parla di “soverchiante forza avversaria”, riferita a quella degli angloamericani che le nostre popolazioni, invece, più avanti della loro classe dirigente, considerano già da tempo come liberatori. D’altra parte, in capo ad una settimana, il 15 settembre, Badoglio fuggiasco da Roma col re e con la Stato maggiore, dirà che “la vittoria, di fronte alle soverchianti forze angloamericane, non è assolutamente più raggiungibile”. Diventa allora chiaro per tutti che per la Corte e lo Stato maggiore non è stata mai concepibile la rottura con la Germania, ritenuta sin da allora elemento di ordine e di equilibrio in un’Europa antibolscevica, e che l’unica vittoria, postulata dall’infelice frase “la guerra continua” sin dal primo proclama badogliano del 25 luglio 1943, ha continuato ad essere sempre quella di Hitler.

A Galatina, luminarie qua e là per i vari quartieri cittadini, così come, in segno di festa, luci nelle vetrine dei negozi, vengono impedite dalle forze dell’ordine. E si va avanti così, nell’incertezza che qualcosa debba accadere.

Intanto fino alla fine del 1943 a Galatina i partiti antifascisti vivono lo stato embrionale del loro processo di costituzione. Il solo partito comunista, raccolto intorno all’avvocato Carlo Mauro, dopo l’8 settembre continua con successo un’azione organizzata e diretta stabilmente dal Centro. E’ la conseguenza positiva dell’organizzazione clandestina del PCI mai intermessa durante il Ventennio.

2. Fronte di liberazione nazionale

Gli altri partiti, invece, vengono colti da quell’evento in piena disorganizzazione. Entro la fine del 1943 si ricostituiscono il Partito Socialista per iniziativa dell’avv. Gaetano Cesari, la Democrazia Cristiana, ad opera dell’avv. Achille Fedele fu Vincenzo cui subentrerà l’on. Beniamino De Maria in seguito ad una improvvisa votazione che coglie tutti di sorpresa e mette in minoranza i precedenti dirigenti, ed inoltre il Partito Liberale a cui danno vita lo scrivente e l’avv. Luigi Ferrol. Il Partito d’Azione, sorto sul piano nazionale dalla confluenza di vecchi militanti di “Giustizia e Libertà” con gruppi di liberalsocialisti e di democratici liberali, vivrà a Galatina l’espace d’un matin nel corso del 1944 ad opera dell’avv. Achille Fedele fu Salvatore. Il Partito Repubblicano, di lunga e gloriosa tradizione a Galatina, resterà senza seguito come partito d’opinione, a vantaggio dei partiti di massa.

Per converso è cresciuto a Galatina il numero degli studenti che dalla fine degli anni Trenta hanno portato nella vita dei gruppi universitari fascisti (i GUF) un bisogno di conoscenza ed un desiderio di libertà, che li ha spinti ben presto alla ricerca del collegamento con le organizzazioni clandestine durante il regime. Purtroppo queste forze non hanno trovato a Galatina un grande aiuto nelle organizzazioni tradizionali dell’antifascismo, ed hanno dovuto cercare da sé la propria strada. E proprio in mezzo a questo gruppo prende coscienza il convincimento che le tesi alternative della cesura o della continuità dello Stato dopo l’8 settembre 1943 che sono al centro del dibattito culturale del momento, sono destinate ad essere un punto di riferimento obbligato nella storia dell’Italia contemporanea. Nasce così un manifesto programmatico dal titolo La nostra via, che è un documento dell’impegno civile in quegli anni – per altro un po’ confuso –  della più avanzata e progressista gioventù galatinese. Si propone in quel manifesto una tregua tra i partiti in città fino alla liberazione di Roma.

Inizia intanto a Galatina il processo di civile riorganizzazione, vincolato al ruolo svolto nell’apparato statale italiano dall’amministrazione militare alleata.

Galatina fa parte della regione 3a, comprendente la zona di Napoli e la Puglia. Le regioni 1a e 2a sono costituite da Sicilia, Calabria, Lucania e Salerno. L’attività politica si svolge ad opera del FLN (Fronte di liberazione nazionale). A Galatina esso tiene le sue sedute in piazza San Lorenzo ed  è un organismo unitario e paritetico di tutti i partiti antifascisti e rappresenta il modo reale in cui l’antifascismo italiano si va faticosamente organizzando nei singoli Comuni, assumendo man mano forza e capacità di iniziativa. In esso, inoltre, si prefigura l’articolazione ancora in fieri della vita politica comunale, nel solo modo in cui ciò è possibile in una democrazia moderna, quando le grandi masse entrano direttamente nella lotta. Il FLN non può postulare rivendicazioni di operante libertà, perché, anche se gli alleati consentono ampiamente organismi liberali, questi hanno il solo fine di far sì che l’associazionismo delle categorie lavoratrici disciplini la produzione e riattivi il tessuto sociale.

Restano difatti ancora validi per tutto il 1943 e parte del 1944 i contratti collettivi di lavoro stipulati durante il fascismo, mentre la serrata e lo sciopero sono del tutto impediti. Bisognerà aspettare il 1 maggio 1944, perché si riveda sfilare per la nostra città il primo libero corteo di lavoratori dopo l’epoca prefascista, e la sera, in segno di gioia per il ritorno di un rito sociale e popolare tanto atteso, lumi di fiaccole fra suoni di banda e canti corali creano un ‘atmosfera di festa e di liberazione.

Intanto al Comune si insedia come Commissario il Colonnello Cohen, un galantuomo che non avvia alcuna iniziativa senza essersi prima consultato con i rappresentanti del FLN. La nomina del Commissario Cohen di origine ebraica è già una prima, significativa apertura di libertà,  maggiormente apprezzata dopo le leggi razziali del regime.

Tre sono i problemi essenziali: 1) garantire l’ordine e gli approvvigionamenti in città; 2) bloccare l’afflusso dei profughi per evitare che si formino numerosi gruppi di senza tetto; 3) rafforzare il controllo dei prezzi e la lotta al mercato nero. Quanto al primo problema, carabinieri, vigili urbani ed il corpo delle guardie notturne e rurali (il Commissariato di polizia non è ancora stato costituito) fanno quanto è in loro potere, alleviati nel loro compito dal comportamento corretto della popolazione. Tra i generi alimentari, le carenze maggiori riguardano i grassi in genere, mentre dilaga la macellazione clandestina.

Il crescente numero di profughi impone la requisizione di alloggi per i senza tetto. Vi provvede un Commissario, nella persona del Signor Augusto Carrozzini. Il vecchio convento dei Cappuccini, nei pressi del Cimitero, diventa un vero e proprio ghetto di profughi. Costoro, provenienti dai vari fronti di guerra, vivono in promiscuità, con mezzi di fortuna e con espedienti, giacché non è sufficiente al loro sostentamento il sussidio del Comune. Qualcuno in occasione della vendemmia, viene assunto da privati a lavorare nei locali stabilimenti vinicoli in un rapporto di scambievole solidarietà e simpatia, foriero di tempi nuovi. Nel convento dei Cappuccini un assito divide in due ciascuna di quelle che furono le vetuste celle dei monaci che ora fungono da camere da letto e da pranzo, senza infissi e finestre, esposte al vento ed alla pioggia, e con i muri ammuffiti e grondanti umidità. Chi ha visitato in quei mesi il ghetto del convento, sa per quali ingiuste vie l’umanità si degrada. La mattina i profughi vengono in città, si uniscono agli altri cittadini e formano lunghe code davanti ai negozi di generi alimentari per la distribuzione della pasta, del pane e del riso e talora dello zucchero e di altro. Ed è proprio qui che si crea un’umanità nuova, in queste teorie di persone in attesa, così come nelle mense popolari o nei tram affollati delle grandi città, dove la gente parla dei suoi bisogni, lamenta le sue sofferenze, ascolta ed è ascoltata, e nasce così una solidarietà tanto più apprezzata quanto i tempi sono più duri.

Intanto l’opera più difficile del FLN e del Commissario Cohen si rivela quella di controllare i prezzi. A Galatina tutti hanno capito che senza il mercato nero non è possibile assicurare agli strati meno provveduti della popolazione le condizioni minime della sopravvivenza. Il controllo dei prezzi viene operato, nei limiti consentiti dallo stato post-bellico, mediante una misurata politica fiscale concordata in una memorabile seduta del FLN che ha avuto come protagonisti gli avvocati Carlo Mauro e Luigi Ferrol. Si decide difatti di tassare i redditi da lavoro per una cifra non superiore a L. 200 (duecento) annue con un minimo di L. 60 (sessanta), e successivamente si delibera l’eliminazione di tutti i piccoli redditi e l’elevamento del minimo imponibile a L. 35.000 (trentacinquemila). In un periodo in cui il canone annuo per le radioaudizioni è fissato a L. 420 (quattrocentoventi), non è possibile altra politica tributaria, pena la discordia tra le classi, che in quel momento va evitata ad ogni costo. E’ sempre vivo, infatti, e all’ordine del giorno, il problema della defascistizzazione dell’apparato amministrativo.

Secondo i documenti della Missione militare alleata e della Commissione Interalleata di Controllo venuti alla luce dopo la fine della guerra, che Agostino degli Espinosa non ha potuto utilizzare per il suo Il Regno del Sud, in una amministrazione restata fascista come quella italiana, anche e soprattutto sul piano degli enti locali, l’adeguamento a moduli di tipo democratico si realizza, da parte degli alleati, con interventi parziali e concreti sulle autorità italiane, piuttosto che con l’abrogazione di leggi e regolamenti, come sarebbe stato più giusto ed opportuno. In questa incertezza, difatti, affonda le sue radici il mancato rinnovamento che ha caratterizzato il secondo dopoguerra.

Fin dal novembre del 1943 viene allestita una scheda personale dei singoli funzionari sulla cui base procedere all’epurazione di tutti i gerarchi fascisti fino al livello dei segretari dei fasci locali, che ricoprono cariche amministrative. Dopo un mese, nel dicembre 1943 alcune istruzioni impongono di non trattenere in carcere cittadini per lunghi mesi prima del processo.

La demolizione del processo defascistizzante in Italia è così cominciata ad opera di Inghilterra e Stati Uniti. Nel marzo successivo un’ordinanza dell’AMG della Campania prescrive il rilascio dei detenuti in carcere da più di trenta giorni senza una formale incriminazione. Queste contraddizioni vanno acquistando sempre maggiore evidenza, ed alla fine mettono a nudo un sostegno aperto, da parte degli angloamericani, alle forze più conservatrici e meno sensibili all’esistenza d’un quadro democratico. Per convincersene, basta scorrere i criteri con cui si propugna, ad esempio, in Sicilia la scelta di uomini per restaurare, tra il 30 ottobre e l’11 novembre 1943, gli organi di governo locale di epoca prefascista. Questi criteri suggeriscono che nelle liste siano rappresentate “le diverse sfumature dell’opinione pubblica, con esclusione degli estremisti, e devono essere adeguatamente rappresentati lavoro e agricoltura”.

Dalla Sicilia, cioè dalla 1a regione, queste istruzioni passano alla regione 3a e toccano quindi anche Galatina. Così si spiega perché anche a Galatina  il processo di defascistizzazione sia rimasto strozzato, nonostante che proprio l’avv. Carlo Mauro sia stato in quel periodo Alto Commissario per l’epurazione in Puglia, ed in definitiva sia rimasto inalterato anche l’apparato amministrativo galatinese, sostanzialmente operante secondo una logica clientelare e localistica.

Eppure, malgrado questo immobilismo della vita politica, a Galatina, oltre che in altre città della Puglia, sin dalla fine del settembre 1943, ha inizio l’organizzazione di un reparto dell’esercito per la partecipazione alla guerra al fianco delle Nazioni Unite contro la Germania. Gli ostacoli da superare sono molti: la sfiducia nei capi, lo sbandamento degli spiriti, la stanchezza per una guerra non voluta, non sentita e sfortunata. Il compito è arduo. Tuttavia il reparto prende corpo, superando deficienze di qualità e di quantità nell’armamento e nell’equipaggiamento, e vincendo anche il riserbo degli Alleati. Lo organizza il generale Beguzzi, utilizzando come caserma la casa paterna Bardoscia; il merito, però, va per larga parte alla nostra gente che in quei mesi ridona con comprensione e rispetto al nostro soldato una nuova dignità, riabilitandolo dinanzi al mondo civile e facendone lo strumento per impegnare l’Italia di fronte all’estero e gli Italiani di fronte alla legge. Noi non sappiamo se l’8 dicembre 1943, a tre mesi di distanza dall’8 settembre, tra i primi reparti italiani che subiscono a Monte Lungo nel Salernitano il battesimo del fuoco a fianco dei soldati delle Nazioni Unite, ci siano stati anche elementi provenienti da Galatina. Sappiamo però che il piccolo reparto che qui si è formato ha avuto un enorme valore perché anch’esso ha dato agli Alleati la prova che gli Italiani sanno e vogliono battersi per la liberazione del proprio paese. Ci sembra questo un titolo di vanto di Galatina, indebitamente dimenticato dalle Autorità locali, che può essere un efficace antidoto contro ogni deprecabile ritorno di barbarie.

3. Esperienze ideologiche a Galatina

Il 5 maggio 1943 Carlo Scorza, nominato pochi giorni prima segretario del PNF, tiene un rapporto alle gerarchie nazionali e provinciali del partito nel teatro Adriano di Roma. In esso si avverte la novità della critica e dell’autocritica: “Farò un rapporto che potremo chiamare il rapporto della forza, della dignità, dell’onore, dell’intransigenza rivoluzionaria. Vincerà la guerra e la pace il popolo fascista che crede nella religione cattolica; il popolo fascista che riconosce nella dinastia sabauda il simbolo della continuità e della gloria; il popolo fascista che obbedisce, crede, giura nel genio del duce”. Si legge in queste parole un tentativo unitario tendente a riguadagnare tempo e spazio nei confronti delle latenti dissidenze dei giovani, ma anche delle forze concorrenti come la classe operaia, la Chiesa e la Monarchia. E subito dopo affiora un inevitabile margine velleitario: “Se dovremo cadere, giuriamo di cadere in bellezza, con dignità, con onore, affinché quelli che verranno dopo di noi possano continuare a vivere con dignità e con onore”. E circa un mese dopo, nel Discorso agli italiani tenuto in Campidoglio il 24 giugno, durante una manifestazione indetta dalla federazione fascista di Roma, Giovanni Gentile così si esprime: “Nessun Italiano ha oggi il diritto di dire: “Questa non è la mia guerra; io non l’ho voluta”.” Di qui l’appello agli Italiani “fedeli alla madre antica; disciplinati, concordi […] risoluti di resistere, di combattere, di non smobilitare gli animi “rinviando” le dispute e le dissensioni a dopo”. La parola di Gentile poi si stempera in una sorta di nostalgia del passato ed in un presentimento di catastrofe: “Noi che siamo sulla china degli anni e che siamo vissuti dell’eredità dei padri, sentendo sempre l’obbligo di conservarla […], non sappiamo pensare che essa non abbia a potersi consegnare nelle mani dei giovani, capaci di sollevarla in alto col vigore delle loro braccia al di sopra delle passeggere discordie […]”.

Nonostante queste dichiarazioni, i dirigenti del regime sanno in cuor loro di dover fare i conti con dei centri di agitazione e di cospirazione che tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 non hanno fatto mancare i primi segni di un loro moltiplicarsi. Si tratta di un antifascismo tendenziale di giovani intellettuali e di studenti che trova un primo sbocco, sia pure limitato, nel dicembre del 1939 in un embrione di organizzazione politica autonoma, diramata in buona parte del paese, fondata da Ruggero Zangrandi e dai suoi amici col nome di Partito socialista rivoluzionario. Essa promuove un’azione per spingere ad una certa interpretazione di sinistra del fascismo, tanto che si è parlato di fascismo antifascista. Nello stesso tempo si legge Croce in chiave antifascista, ed anche se le sue ristampe delle opere di Antonio Labriola giovano ad aprire le menti alla riscoperta del marxismo italiano e non italiano, le concessioni di Croce alle dottrine che sono sorte alla svolta del secolo, per dare una sanzione di legittimità alle campagne di discredito della democrazia e di attivismo antidemocratico, fanno venire alla luce la contraddittorietà e la crisi interna delle dottrine idealistiche. Viene poi la guerra di Spagna, ed un gruppo di giovani pone in cima ai suoi pensieri e alle sue passioni quell’evento che appare loro come un’occasione decisiva, per l’Italia e per l’Europa, di battersi per rovesciare Hitler e Mussolini. E’ il momento in cui Mario Alicata e una schiera giovanile (Pietro Ingrao, Paolo Bufalini e altri) che partecipa ai Littoriali della cultura per farne uno strumento di azione antifascista, si staccano dall’associazione di Zangrandi. Sono le giovani leve intellettuali dell’antifascismo di sinistra che si saldano poi durante la lotta alle cospirazioni dei vecchi antifascisti e finiscono in carcere nel 1940.

In questo modo si estingue in Italia il fascismo come fenomeno culturale organico, specialmente quando, in seguito agli insuccessi del 1941- 1942 in guerra e poi alle sconfitte del 1942-1943, si determinano sempre più accentuati movimenti di distacco dal regime, al vertice ed alla base delle Forze Armate, e quando i centri cospirativi dell’antifascismo di sinistra si intrecciano al malcontento ed alla delusione di strati popolari sempre più larghi dopo lo sforzo produttivo e le crescenti difficoltà salariali ed alimentari, ed infine dopo l’ingresso del territorio nazionale nel teatro della guerra aerea.

Tutto ciò accade sul piano nazionale, ma merita di essere rilevato che, specialmente i giovani avvertono la presenza di una molteplicità di possibilità ideali e di alternative concettuali in cui trovano espressione allora le poche dinamiche sociali.

4. Giovani senza maestri

A Galatina vi è sempre stato, lungo i decenni del secolo e prima della scuola di massa, un numeroso studentato borghese e medio borghese venuto al confronto con la vita dai banchi del Liceo “Pietro Colonna”. Fra quelle leve studentesche non ci sono stati dissidenti fascisti o giovani antifascisti, se si fa eccezione della spregiudicatezza di un giovane, scanzonato e generoso, Nello Galluccio-Mezio, che proprio negli anni di maggiore popolarità del fascismo è stato in quotidiana dimestichezza con Agesilao Flora, l’artista pittore di Latiano, cospiratore e vigilato dalla polizia fascista. Conoscere Flora, ha significato per Nello avere a disposizione una parvenza di biblioteca politica su cui buttarsi con furore. Grazie a Nello, esplodono tra alcuni giovani universitari della nostra città dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943, i temi liberali della critica allo stato assolutistico e le critiche di sinistra alla società borghese. E’ stato come voler cercare la verità italiana dell’ultimo ventennio che abita in noi, una forma di rispecchiamento ed un embrione di autocritica collettiva aclassista sull’orma inconscia di quelle idee che hanno fatto del fascismo una rivelazione di antichi mali e di antiche insufficienze. E così si costituisce a Galatina, per autogenesi, un gruppo di giovani universitari (Aldo Andriani, Vincenzo Carrozzini, Nicola Ruggero, Mario Montinari, Primaldo Cioffi, Alfredo Antonica, Quintino Mauro, Raffaele Stasi, Donatello Sabato) che la guerra ha costretto ad interrompere provvisoriamente gli studi perché li tiene lontani dalle sedi accademiche di iscrizione, e su opuscoli, su estratti da vecchie riviste, su saggi politici emersi chissà come da fondi dimenticati di antiche librerie di famiglia, quei giovani vengono scoprendo il pensiero liberale prefascista che li stimola a sprofondarsi nella lettura dei Doveri dell’uomo di G. Mazzini, del Saggio sulla rivoluzione di C. Pisacane, del Primato di V. Gioberti (Gramsci ancora non è stato scoperto), ma anche su opuscoli che riproducono discorsi di Luigi Sturzo e di Claudio Treves e di Filippo Turati, ed avviene così lo scambio di una feconda conversazione. E’ la prima prova nella vita di quei giovani che si sublima nella costruzione della ragione comprendente la totalità dell’esperienza. Triste è l’ora e tragiche sono le condizione dell’Italia. Per la maggior parte di quei ventenni in quel momento il sentimento monarchico diviene una necessità spirituale, un punto di appoggio insostituibile, ed il re e la patria si fondono ai loro occhi sempre più intimamente. La sera dell’11 settembre 1943 la stazione radio di Bari ha trasmesso le prime parole del re agli Italiani, dopo la fuga da Roma, con le quali egli ha annunciato il suo trasferimento in una zona libera del territorio nazionale e, tra il dissenso di altri, qualcuno del gruppo argomenta che è stato necessario per il re allontanarsi da Roma tre giorni prima, proprio per poter lanciare quel proclama che giorno 12 la “Gazzetta del Mezzogiorno” ha diffuso. Non c’è dubbio invero che nei giorni successivi, diffusasi la notizia che da una radio ignota il re e Badoglio hanno parlato agli Italiani, una speranza si sia riaccesa nello stupore disperato degli animi. Ed ecco il 19 settembre il passaggio alle dipendenze del generale MckFarlane dei funzionari dell’Amgot con compiti non esecutivi, ma di collegamento col governo italiano, il che significa che le quattro provincie pugliesi di Lecce, Taranto, Brindisi e Bari, vengono riconosciute indipendenti dall’amministrazione militare alleata. E così il monarchico irriducibile del gruppo ha buon motivo di dire: “E’ nata in tal modo l’Italia del Re”.

5. L’antifascismo galatinese sui banchi del Liceo

La doccia fredda, invece, viene il 29 settembre, allorché, a bordo della corazzata britannica Nelson in Malta, Badoglio apprende da Eisenhover le clausole del documento previsto dall’articolo 12 dell’atto firmato il 3 settembre dal generale Castellano. Il documento s’intitola Strumento di resa e, firmandolo, Badoglio ha aperto un nuovo ciclo nella nostra storia.

E siamo così al tempo del maggiore disorientamento dei giovani studenti di Galatina. Essi vengono tutti dalle esperienze universitarie, dopo gli studi liceali, ed hanno visto crollare intorno a sé quel sistema di certezze in cui hanno creduto, costituito dai valori oggettivi della verità, della scienza, del progresso e della morale. Ora invece si accorgono che credere nella storia come forza portante della vita e come criterio del suo significato, comporta sacrificare le energie più genuine dell’uomo ad un’astratta ed inesistente idea di umanità in generale, tagliando alla radice ogni possibilità di un autentico futuro. Nasce di qui il loro atteggiamento critico, con intento di rottura, di fronte alla storia, specialmente di quella più recente rappresentata dal fascismo, dal re e dalla sua corte; un atteggiamento che vuole radicalmente distinguersi da tutte le opinioni correnti.

Si passa così al piano operativo e si concretizza quel fermento ideale e quel crogiuolo di aspirazioni e di pensieri, che ora si destano in misura attivistica ed ora si assopiscono in modo nichilistico, in un volantino stampato a spese del gruppo, pur se i singoli componenti di esso appaiono allora tanto ricchi in testa quanto poveri in tasca. Il volantino ha per titolo La nostra via, e chi scrive viene delegato ad illustrarlo in un’aula del vecchio Liceo “Colonna”, messa a disposizione dal preside prof. Pantaleo Duma, un intellettuale che durante il ventennio è vissuto rimemorando nostalgicamente l’Italia prefascista ed i sapidi umori municipalistici sempre presenti nelle vecchie battaglie politiche. E’ una domenica del tardo autunno del 1943. L’aula è gremita. Su di un banco in prima fila siede il nucleo storico dell’antifascismo galatinese, distinto in un antifascismo di facciata, rappresentato dal dottor Carmine D’Amico, un socialista riformista che ha sempre speso la sua opera di medico a favore della povera gente con abnegazione, e dall’avvocato Gaetano Cesari, un socialista massimalista, scontroso anzichenò, e predisposto a polemiche radicali sul “Tribuno salentino”; ed in un radicalismo militante comunista, rappresentato dall’avvocato Carlo Mauro. Per parte liberale è presente l’avvocato Luigi Fedele, e per parte democristiana l’avvocato Achille Fedele fu Vincenzo, non essendo ancora apparso all’orizzonte di quel partito in Galatina l’on. Beniamino De Maria.

Lo scritto La nostra via non presenta una evoluzione di posizioni ideali dei giovani galatinesi – e ciò si spiega perché nessuno di essi ha dietro di sé un curriculum ed un’esperienza di milizia ideologica -. Nell’illustrarlo all’uditorio, chi scrive lo ha però presentato come il documento provante un lungo e tormentato processo – forse un po’ confuso ed oscuro – di elaborazione critica e di conquista ideale a partire dall’interno stesso del fascismo, con la dichiarata ammissione, tuttavia, che la gioventù non ha trovato aiuti sul suo cammino, o ne ha trovati pochi all’interno della scuola, e non sempre della natura che sarebbe stata necessaria, e quei pochi certamente inidonei ed insufficienti ad aprire la via ed a dare slancio ad un’opposizione vasta e combattiva.  Niente è stato fatto nella scuola e nel rapporto tra docenti e discenti per liberarci dalla schiavitù politica e morale, per metterci in guardia e per mostrarci una strada per un risveglio delle idee, per una nuova tensione morale e soprattutto per un modo nuovo di guardare alla realtà della vita sociale. Il bisogno  di avviare una nuova ricerca e il sentimento che all’orizzonte balenavano nuovi valori e nuove certezze e nel contempo la sensazione che le rotture avvengono sempre in termini di salto generazionale, hanno trovato conferma nell’intelletto e nell’animo dei giovani studenti di Galatina a posteriori, di lì a poco, quando hanno letto le domande di Gramsci ai riformisti italiani nell’ottobre 1920: “Cosa avete fatto per rischiararci le dottrine socialiste? Quali sono i vostri libri? Dove sono le vostre ricerche sulle condizioni economiche della nazione italiana? Avete studiato, vi siete curati di ricercare e di studiare come si è svolta la storia economica e politica del popolo italiano?” Forse è rimasto nei giovani il rimpianto di non aver avuto maestri cui formulare, nel rapporto di vita quotidiana negli anni del Liceo, uguali domande che, per toccare la sfera politica, li avrebbero immessi in quella morale.

E poiché in quel momento a Galatina il dibattito sulla ricostruzione dei partiti e sul dilemma monarchia-repubblica si viene svolgendo in modo molto caotico, i giovani studenti propongono di rinviare il dibattito medesimo e le relative conclusioni a dopo la liberazione di Roma, evento che essi interpretavano come primo atto politico di recupero dell’unità della nazione per una feconda dialettica democratica.

Queste argomentazioni hanno senza dubbio suscitato amarezza, ma non risentimento nei rappresentanti dell’antifascismo storico galatinese, e tuttavia il dottor D’Amico e gli avvocati Cesari e Mauro vi hanno letto anche un atto di accusa che, se mai c’è stato, ha espresso soltanto una forma di esigenza morale; ed allora, con ostentazione, tra lo sconcerto generale, quegli uomini con cui quei giovani hanno avuto di mira di instaurare un colloquio, hanno abbandonato l’aula del raduno. Ed i giovani sono rimasti soli più di prima e, perduta una importante occasione di confronto, soli si sono messi a cercare la loro via.

Hanno cominciato ad indagare dapprima fatti e dottrina dell’antifascismo pugliese, come si è svolto nel circolo crociano della libreria e della villa Laterza a Bari, hanno meditato sull’attività clandestina dei professori Tommaso Fiore e Fabrizio Canfora, e degli avvocati Nicola e Domenico Pàstina, per passare al comunista De Leonardis, compagno di cella di Gramsci, al socialista onorevole Assennato di Brindisi, al quale i fascisti hanno impedito perfino le passeggiate sul Lungomare, al liberale avvocato Giuseppe Perrone-Capano di Trani ed agli onorevoli Grassi e Fumarola ed ai fratelli Reale di Lecce, ed all’avvocato Agilulfo Caramia di Taranto. Quindi hanno chiesto alla storia i documenti per la soluzione del problema monarchico, e la storia ha affermato di non dover mai dimenticare che l’Italia ha accettato una monarchia nel 1860 sulla base di un contratto con i monarchici i quali hanno dichiarato sul loro onore di conservare sempre le nostre libertà; contratto che dai monarchici è stato per vent’anni violato.

[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 51-59]

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