Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 11. Agilulfo Caramia e Carlo Mauro tra storia e problema istituzionale. Il 29 marzo 1946.

1. Agilulfo Caramia e lo Statuto Albertino


Agilulfo Caramia

Sono argomenti di alto contenuto giuridico, costituzionalistico e storico-culturale, ma gli uomini chiamati a dibatterli sono all’altezza della situazione e, tra di essi, due in particolare sono attesi la sera di Venerdì 29 marzo dalla folla galatinese con molta ansia ed incontenibile frenesia: l’avvocato Agilulfo Caramia, dotto penalista di Taranto, per la lista dell’Orologio, e il galatinese avvocato Carlo Mauro, anch’egli penalista colto ed agguerrito, per la lista popolare di sinistra.

L’avvocato Caramia conclude il suo applauditissimo discorso in piazza San Pietro nereggiante di folla alle ore 20. Fa seguito subito dopo uno spettacolo inconsueto nella cronaca cittadina: la moltitudine come in festa, uomini, donne, giovani, vecchi, anziani, si snoda come un serpente e dalla piazza scivola via per corso Garibaldi verso piazza Santo Stefano, oggi piazza Libertà, il luogo d’incontro dei populares, nella storia cittadina, per ascoltare l’avvocato Carlo Mauro.

Nella mente e nel cuore di ogni cittadino vibra ancora la parola lucida per razionalità e di timbro scattante dell’avvocato Caramìa il quale ha anche il dono di trovare talora nelle pieghe oratorie forme mimetiche di teatralità che, rigirandosi su sé medesime, rintronano l’anima e stordiscono l’ascoltatore. Agilulfo Caramìa in gioventù ha studiato presso il Liceo “P. Colonna”, ospite di alcune famiglie facoltose di Galatina. E’ un massone e, secondo i testi delle diverse Costituzioni massoniche pubblicate a partire dal secolo XVIII, l’affiliato alla massoneria in fatto di religione è obbligato dalla sua professione ad obbedire alla legge morale; egli, per il magistrato civile, deve essere il suddito pacifico, sottomesso ai poteri civili del luogo dove risiede e lavora, e non deve immischiarsi in complotti contro lo Stato. Coerentemente con questi princìpi, che appaiono come un regolamento atto a proteggere il potere regio e ad impedire la facoltà di cospirare contro di esso, tutto il discorso di Caramìa, la sera del 29 maggio 1946 a Galatina, è stato una difesa della monarchia attraverso la difesa dello Statuto albertino. Di questo Statuto l’avvocato Caramìa ha esaltato l’elasticità, che ha permesso, secondo l’oratore, in un primo tempo il consolidarsi in Italia di una forma di governo costituzionale – parlamentare, nonostante che nel testo dello Statuto medesimo essa forma non sia stata affatto contemplata, e tanto meno sia stata nelle intenzioni del legislatore. A partire dai primi anni del nuovo secolo, lo Statuto avrebbe consentito un progressivo allargamento delle basi della vita pubblica italiana in una direzione più democratica, e cioè il suffragio elettorale, dapprima ristrettissimo come nel 1882, poi assai vicino al suffragio universale con la riforma del 1912 ed un ulteriore allargamento nel 1918, restandone tuttavia sempre escluse le donne. Il sistema della proporzionale del 1919, infine, ha contribuito a sua volta a rinvigorire la lotta politica, che troppo spesso si è venuta esaurendo per l’innanzi, in molte parti d’Italia, in meschine competizioni di persone e di cricche locali.

La folla che ha ascoltato Caramia comprende in sé una buona parte di tutto quanto le vecchie classi dominanti hanno potuto mobilitare di arretrato, di non educato al dibattito delle idee e di conservatore in una grande disgregazione sociale e politica, tutto il peso, insomma, di una tradizione secolare di soggezione, di miseria e di ignoranza che giunge fino al limite della sottomissione del lavoratore al padrone; che può apparire quasi spontanea, in certe condizioni di disorganizzazione sindacale e politica, proprie di vaste zone meridionali, Galatina non esclusa. Non solo il padrone chiama il contadino, l’operaio, il servo, e gli dice come si vota e per chi si deve votare; di più, il servo stesso va dal padrone, e chiede per chi deve votare, perché già suo padre ha votato per chi ha detto il padrone.

2. Gli argomenti dialettici dell’avvocato Carlo Mauro

Così le classi abbienti e conservatrici, paurose di ogni trasformazione progressiva ed ossessionate dallo spettro di una rivoluzione che crei maggiore giustizia nel rapporto tra ricchi e poveri, tra sfruttatori e sfruttati, si sono presentate portando nella lotta come elementi essenziali dell’organizzazione non soltanto i quadri delle Forze Armate e dell’apparato dello Stato, ma anche i quadri della Chiesa cattolica, i vescovi, i sacerdoti, dappertutto schierati a difesa dell’istituto monarchico e decisi a fare uso ed abuso, per questa difesa, dei mezzi spirituali a loro disposizione. E l’eco di questa ossessione rimbalza nella musa dialettale, se il vecchio maestro elementare Cesare Monastero, immaginando un dialogo in piazza tra due popolani, viene poetando così:

Cumpare, se de nu latru passi

a nu latrone

ci è mmeiu tte cumanda?

E senza mancu ppensu a lla  raggione,

“lu latru, dissi, corpu de na bbanda!”

dove il ladro figurerebbe il re, ed il ladrone il misterioso e di là da venire grande ufficiale della Repubblica. Chi ben rifletta, sente vibrare nei versi dialettali l’anima popolare che, Monarchia o Repubblica, vive come il suo stesso respiro, come il ritmo normale della sua stessa vita, la sua condizione di subalternità. Perciò tra le centinaia di lavoratori presenti nella piazza San Pietro a Galatina la sera del 29 marzo 1946 durante il comizio di Caramìa, uomini e donne, noi ricordiamo di averne osservati molti, alcuni attenti e diffidenti, altri chiusi e riservati, parchi negli applausi ma fermi, con una volontà ostinata di comprendere e di essere convinti. Il compito di stabilire quel contatto umano, indispensabile oltre tutto ad operare una reciproca comprensione, è toccato quella sera all’avvocato Carlo Mauro, allora Consultore nazionale ed Alto Commissario per l’epurazione fascista in Puglia.

E’ l’ultimo discorso dell’uomo, quello che chiude la sua milizia e la sua vita spesa tutta in difesa dei lavoratori. Egli infatti muore nel giugno di quello stesso anno.

L’esordio di Mauro ripete il più classico degli accorgimenti retorici, quello che riprende l’ultimo argomento dell’interlocutore per dimostrarne l’inconsistenza e vanificarlo. La peroratio di Caramìa centralizza l’elasticità dello Statuto albertino come forma e strumento di evoluzione democratica, ma, argomenta Mauro, se l’elasticità dello Statuto ha consentito il consolidarsi di una forma di governo costituzionale-parlamentare nel Regno d’Italia, ha permesso anche, per converso, l’instaurazione della dittatura fascista, la quale ha potuto sovvertire a poco a poco i tradizionali princìpi democratici e sostituire al sistema parlamentare la tirannide dell’esecutivo e giungere fino all’introduzione dell’ordinamento razziale, alla soppressione di ogni forma elettiva per la Camera e per gli enti locali, senza dover mai abrogare il vecchio Statuto.

Siamo appena all’esordio. Subito dopo Mauro si addentra in una rivisitazione storica della genesi e delle origini dello Statuto albertino. Esse, egli dice, sono segnate dal conflitto tra iniziativa regia ed iniziativa popolare, se è vero che lo spirito con cui Carlo Alberto ed i suoi consiglieri, o parte di essi, si sono decisi ad emanarlo, è stato uno spirito di ansia e di angoscia di fronte al crescere e al dilagare della spinta rivoluzionaria in ogni parte d’Italia.

3. La fuga del re

E’ mancata quindi allo Statuto una consacrazione popolare, trattandosi di una carta che i costituzionalisti chiamano octroyée, cioè concessa graziosamente dal sovrano di sua iniziativa e senza alcuna ratifica popolare, a differenza di quelle che si presentano invece come il risultato di un accordo, quasi di un contratto, tra principe  e popolo. E’ vero che ci sono stati i plebisciti, ma il movimento plebiscitario per la formazione del Regno d’Italia ha presentato come elemento centrale  e dominante l’annessione, non già l’opzione in condizioni di libertà idonea a determinare una forma di governo a preferenza di un’altra, senza dire che la proclamazione stessa del Regno d’Italia è avvenuta a Torino nel 1961 per opera di un Parlamento eletto a suffragio molto ristretto, e Vittorio Emanuele è rimasto secondo e non è stato chiamato primo, come pure hanno voluto larghe correnti della pubblica opinione, circostanza questa assai importante perché ha segnato la volontà di dare continuità al principio legittimista.

Il lettore si avvede trattarsi di argomenti di alto livello intellettuale a cui sarebbe ingiusto credere che non abbia corrisposto il livello medio di razionale partecipazione dell’uditorio.

D’altra parte Carlo Mauro, rotto a tutte le scaltrezze ed audacie tribunizie, riserva per ultimo la trattazione dell’argomento idoneo a suscitare in una platea di cultura media , nonché consenso, immediata e diretta adesione. Alludiamo all’argomento della fuga del re da Roma a Brindisi con tutta la famiglia reale, la corte e Badoglio nell’estate del 1943.

Mentre Caramìa ha piegato la sua parola a tutte le esperienze dell’arte oratoria idonee a vivificare la psicologia della folla, per esempio ricorrendo ad un’opulenza di suoni e di colori verbali, Carlo Mauro, invece, fa ricorso all’umorismo che scaturisce sempre da fede profonda. Dove invero manca questo centro etico, l’umorismo rischia di diventare civetteria o bizzarria, ma dove esso è assorbito con sensibilità e scaltra sollecitudine da una humus letteraria, non perde mai il suo equilibrio e diventa un fatto sempre più umano. Nella parola di Mauro la folla sente inverarsi e trascendere il potenziale riscatto della propria subalternità.

Così quella sera è accaduto che nell’anima popolare galatinese il re in fuga è passato attraverso la reminiscenza manzoniana delle brache di Ambrogio il sagrestano, dove quelle brache di per sé non sono state ridicole nella loro intimità, ma lo sono diventate perché hanno richiamato a sé l’attenzione degli ascoltatori, assai più della persona stessa che le indossa. Se poi, come fa Mauro, quell’arnese – le brache – si accoppia ad altra reminiscenza letteraria, quella tassoniana del Conte di Culagna che, significando il re

“aveva quasi perduto la parola,

e per tanti rimedi era già lasso;

quand’ecco un’improvvisa cacarola

che con tanto furor proruppe a basso,

che l’ambra scoppiò fuor per li calzoni

e scorse per le gambe in su i talloni”

l’umorismo diventa comicità grassa e scurrile, ma con un suo particolare rigore, perché le brache nelle parole di Mauro sono molto più grandi del re a tal punto che il contrasto necessariamente si risolve in una gioiosa ma anche feroce risata di tutta la straripante folla in ascolto. E quel riso, che ancora oggi simboleggia per noi la natura sana, schietta e spontanea della parte migliore del nostro popolo, quella che prontamente reagisce all’inganno – in questo caso all’inganno del re contro i suoi sudditi -, quella che nella parola di Mauro ha sentito vibrare le ragioni ed i moniti di una cultura mai destituita di un sentimento morale della vita, ed anzi sempre pronta a denunziare chi si fa complice della iniquità e strumento di oppressione e di incoraggiamento al servilismo, quel riso chiude quella memorabile tornata elettorale che ha segnato certamente il momento più alto della storia civile di Galatina nel corso di questo secolo.

[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 69-72]

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