di Antonio Devicienti
Ho vissuto in antiche case che avevano tutte delle nicchie nei muri: esse erano dipinte a calce bianca, qualcuna aveva un ripiano di legno, spesso una stoffa di lino bianco posava sulle parti orizzontali della nicchia che ospitava il pane della settimana o le farine, i legumi o le conserve; una tendina proteggeva l’incavo nella parete e il suo contenuto.
Un significato particolare possedeva la nicchia (mi piace pensarla direttamente derivata dal larario romano) con le foto e i ritratti dei defunti della famiglia; spesso vi ardeva un lumino o una lampadina votiva.
Quello spazio-nicchia ancora mi invita ospitale assumendo, ai miei occhi, il sacro valore di umile e nobilissimo luogo di memoria contadina: ricordando quattro versi di Vittorio Bodini tratti dalla Luna dei Borboni e che amo moltissimo (sulle soglie, in ascolto, antiche donne sedute / (o macchie che la luna ripercuote nell’aria) / socchiudono pupille di un’astratta durezza / dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi) li trascrivo in questo virtuale foglio-messaggio ripiegato in quattro parti accanto al quale immagino posato un sasso, in ascolto.
Attende di essere preso, dispiegato, letto, ripiegato, riposto nello spazio-tempo della nicchia.