di Rosario Coluccia
«[Federico II] volle sperimentare quale lingua e idioma avessero i bambini, arrivando all’adolescenza, senza mai aver potuto parlare con nessuno. E perciò diede ordine alle balie di dar latte agli infanti […] e con la proibizione di parlare loro. Voleva infatti conoscere se parlassero la lingua ebrea, che fu la prima, oppure la greca, o la latina, o l’arabica; o se non parlassero sempre la lingua dei propri genitori, da cui erano nati. Ma s’affaticò senza risultato, perché i bambini o infanti morivano tutti». Così scrive Salimbene de Adam, un cronista parmense del Duecento, a cui dobbiamo molte notizie sull’Italia di quel tempo. Federico II, il grandissimo imperatore svevo dalle mille iniziative e dalle mille prospettive, cercava quindi di capire quale sarebbe stata la lingua spontaneamente sorta nella mente di fanciulli cresciuti nell’isolamento totale. Ma la lingua è un fatto sociale, il bimbo apprende la lingua (o le lingue) che sente parlare intorno a lui, fin dai primi istanti di vita. Proprio la mancanza della socialità, l’inesistenza di rapporti con altri esseri umani, la chiusura in monadi asfittiche senza contatti con l’esterno, conducevano alla morte i fanciulli di cui scrive Salimbene.
Naturalmente Federico II sapeva bene, anche per esperienza diretta, che al mondo esistono molte lingue. La sua corte era strutturalmente plurilingue, accoglieva collaboratori e funzionari di varia provenienza: arabi, bizantini, ebrei, germanici, italiani meridionali (dell’isola e del continente), toscani, settentrionali, selezionati in base alle loro capacità (senza preclusioni legate al luogo di nascita o all’appartenenza religiosa, questo non sembra interessasse molto) e accomunati dalla fedeltà assoluta all’imperatore. Condizione imprescindibile, quest’ultima, se si voleva restare in vita, come dimostra inequivocabilmente la vicenda di Piero della Vigna, dapprima nel cuore di Federico e poi spinto al suicidio perché sospettato di tradimento, a causa delle insinuazioni sollevate dalla malevolenza di altri cortigiani invidiosi. Ne scrive Dante nel canto xiii dell’«Inferno». Piero della Vigna, confinato nella selva delle Arpie, secondo girone del settimo cerchio, attribuisce le disgrazie che lo colpirono da vivo all’invidia, «meretrice [dagli] occhi putti, morte comune e de le corti vizio»; per difendere il suo onore violato, nel girone infernale continua proclamare la sua fedeltà assoluta al sovrano: «vi giuro che già mai non ruppi fede / al mio segnor, che fu d’onor sì degno». E spera che la sua difesa raggiunga il mondo dei vivi.