di Antonio Devicienti
È scrittura anche l’architettura, scrittura di un luogo, scrittura per un luogo: Vittorio Gregotti progetta il complesso del Centro cultural de Belém, dialogando con luoghi dove i muri più antichi sono pietra esposta allo sguardo, al sole e alla salsedine e le finestre, quadrate, portano con sé anche il ricordo del Mediterraneo in un luogo che, lungo il Tago e di fronte alla torre famosa, preannuncia il dilatarsi dello spazio nell’Oceano.
Álvaro Siza, chiamato a risistemare una porzione del quartiere Chiado devastata nel 1988 da un incendio, intreccia, discreto e amoroso, il suo testo contemporaneo a quello pensato dal Marchese di Pombal dopo il terremoto del 1775. Impiega il cemento secondo i criteri antisismici della “gaiola pombalina” (un reticolo di legno ispirato alla carena delle navi e inserito dentro i muri dei palazzi), progetta la terrazza dell’Igreja do Carmo che guida lo sguardo verso l’Elevador de Santa Justa nella Baixa, ridisegna cortili e ambienti interni degl’isolati distrutti dall’incendio dando continuità all’idea originaria in base alla quale il marchese di Pombal aveva progettato la ricostruzione di Lisbona: un unico, armonioso insieme di spazi in cui abitare, commerciare, incontrarsi.
Eduardo Souto de Moura sa che Lisbona è miracolo per lo sguardo, tessitura di visioni, per questo disegna l’auditorium annesso alla Santa Casa da Misericórdia come un gigantesco occhio quadrato che guarda sulla città e sul Castelo de São Jorge: orecchio e occhio s’affratellano qui, tra le facciate bianche e la profusione delle finestre lo slancio dell’edificio dell’auditorium e il suo colore scuro rendono visibile quello che migliaia di occhi fanno, ogni giorno, a Lisbona: guardare verso spazi che si dilatano – il fiume, il cielo, l’Atlantico…