Non sarà stata casuale la scelta di Gifuni di tornare a Gadda sulle scene del Piccolo Teatro milanese, il primo teatro stabile italiano fondato il 14 maggio 1947 da Paolo Grassi (il cui cognome è oggi opportunamente confluito nell’intestazione del teatro), da Strelher e da altri, animati dal desiderio di dare vita a un Teatro inteso come servizio pubblico, pensato a vantaggio della cittadinanza. «Teatro d’Arte per Tutti» è il motto che distingue il Piccolo, marchio identitario che esplicita la missione di produrre spettacoli di qualità indirizzati a un pubblico ampio. Proposito lungimirante in quegli anni dell’immediato dopoguerra percorsi da un operoso fervore ideale (oggi dimenticato o spento) che segnò la vita del paese dopo il ventennio fascista e dopo la guerra. La scelta del luogo fu emblematica. Una lapide collocata sulla facciata dell’edificio ricorda: «Qui tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 hanno subito torture e trovato la morte centinaia di combattenti della libertà prigionieri dei fascisti. Il Piccolo Teatro ha fatto di questo edificio un centro e un simbolo della rinascita culturale e della vita democratica di Milano».
È impossibile elencare i risultati raggiunti dal Piccolo Teatro in oltre settant’anni di attività, gli spettacoli eccellenti proposti da quella fucina, le produzioni di altissimo livello all’interno di una politica culturale caratterizzata da apertura alle energie nuove, progettualità, internazionalizzazione, sforzo di collegare ambiente, politica, economia e società, con nuove forme di partecipazione e consapevolezza da parte del territorio e delle comunità che lo abitano. La storia e i risultati non si possono cancellare. E pertanto non potranno essere ignorati neanche da Antonino Geronimo La Russa, figlio del Presidente del Senato, titolare con il padre di un florido studio legale milanese, membro di svariati Consigli di Amministrazione privati e pubblici, da pochi giorni nominato nel Consiglio d’Amministrazione del Piccolo Teatro da Gennaro Sangiuliano, ministro della cultura. Questa rubrica non si interessa delle posizioni politiche dell’avvocato Antonino Geronimo La Russa, non si chiede quali competenze teatrali specifiche questi abbia per il nuovo incarico a cui viene designato. Questa rubrica si occupa di lingua e di cultura, e inoltre dei fenomeni connessi alle stesse. Ma nessuno si provi a modificare l’impronta originaria del Piccolo Teatro. Nessuna nuova narrazione (come oggi si usa dire, usando a sproposito la parola narrazione) potrà cancellarne il passato e condizionarne il futuro.
Torniamo allo spettacolo di Gifuni da cui siamo partiti e alla sua predilezione per Gadda, prosatore capace di inventare una lingua che non ha uguali nella nostra storia linguistica, esponente della linea espressionistica che caratterizza la letteratura lombarda, dal duecentesco Bonvesin da la Riva fino al novecentesco Carlo Emilio Gadda, come ebbe a scrivere Gianfranco Contini, sintetizzando in poche parole, mirabili per efficacia, fenomeni storici di lunga durata. Nello spettacolo emerge la fantasmagoria del mondo gaddiano che comprende diari di guerra e di prigionia (Gadda era stato al fronte durante il primo conflitto mondiale), racconti, romanzi, furiose invettive, squarci che fotografano la psicopatologia collettiva erotica che caratterizzò il rapporto delle masse con il Capo durante il ventennio fascista.
Gifuni racconta che nel 2010 alcuni spettatori erano convinti che l’attore avesse ritoccato il testo di Gadda per adattarlo al Presidente del Consiglio di allora, al rapporto prerazionale e a volte adorante che una parte degli elettori manifestava verso quel Presidente. Alla fine del monologo che chiudeva lo spettacolo molti spettatori andavano a chiedere se il testo non fosse stato riscritto e riferito al presente. Fu necessario affiggere nei foyer un’avvertenza: «Ogni parola è dell’Autore. Nessuna modifica è stata apportata ai testi di Gadda». Alcuni, non convinti, abbandonavano lo spettacolo, rifiutavano la realtà. Anche il 10 novembre, a quanto pare, uno spettatore infastidito è uscito a metà, rapportando alla situazione attuale le parole che Gadda aveva scritto decenni prima, per descrivere il rapporto Capo~massa durante il periodo fascista.
Non solo linea lombarda in Gadda. «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» è un romanzo di Gadda del 1957, poi un film del 1959 diretto da Pietro Germi (con il titolo «Un maledetto imbroglio»), oggi anche uno splendido audiolibro di tredici ore letto da Gifuni. A Roma, durante i primi anni del fascismo, Francesco Ingravallo (detto “don Ciccio”), arguto e orgoglioso molisano, commissario della Squadra Mobile di Polizia, è incaricato di indagare su un furto di gioielli ai danni di un’anziana donna, la vedova Menegazzi. Indagine difficile e intricata, vero «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo».
Il romanesco «gnommero» discende dal latino «glomerus» ‘gomitolo’: una vicenda difficile da sbrogliare fa venire in mente un gomitolo. La stessa etimologia ha la voce napoletana «gliommero», componimento poetico in cui si affastellano argomenti varî, allusioni a fatti del giorno, vecchie storie, proverbî, elenchi di cibi, ecc. Insomma, ancora un groviglio. Compose gliommeri anche Jacopo Sannazaro, il più importante poeta napoletano del Quattrocento e del primo Cinquecento. Nasce dalla medesima base latina lo «gnummareddo», pietanza tradizionale di alcune località salentine. Gli «gnummareddi» sono involtini di forma cilindrica, interiora di agnello o di capretto avvolti in un budello. Somigliano a gomitoli, perciò si chiamano così. In altre zone quel cibo assume un altro nome: «turcinieddi» a Lecce e a Brindisi, «turcinelli» nel foggiano, «turcenelle» a Chieti, ecc. Il nome è diverso ma il processo mentale è il medesimo; la base è «torquere» ‘torcere’, indica l’attorcigliamento dei budelli animali. Nella zona di Nardò e Gallipoli si chiamano «mboti». Il nome, che nasce da «involvere» ‘avvolgere’, evoca la medesima operazione manuale che dà origine al cibo.
Parole in sequenza. Dall’indagine difficile del commissario Ingravallo, passando attraverso un genere poetico, si arriva a un cibo della cucina povera meridionale. La sequenza non deve stupire: così lavora il nostro cervello, il bene più prezioso di cui la natura ha dotato l’uomo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 novembre 2023]