Icilio Vecchiotti

di Gianluca Virgilio

Lezione alle nove del mattino, d’inverno, in una stanza dove sedeva non più di una decina di studenti. Puntuale, il professore, di fronte a noi, dietro la cattedra, con sigaro semispento in bocca, intento a sistemarsi la pettorina bianca sotto il gilet, legata sugli omeri e dietro le spalle, si preparava per la lezione. Avevo l’impressione che stesse ultimando la toilette mattutina, iniziata in una stanza attigua dove forse aveva trascorso la notte. Che abitasse lì il professor Icilio Vecchiotti? Appena pronto, apriva davanti a sé l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio e un quaderno di appunti; poi, con l’indice della mano destra premeva il pulsante d’un suo giocattolo elettrico, un vecchio registratore dalle grandi bobine, che subito cominciavano a ruotare come giostre panoramiche su cui rimaneva incisa la sua voce.

Solo allora la lezione aveva inizio. Tra mille passaggi da una posizione ad un’altra, secondo le distinzioni del metodo dialettico, progrediva la vita dello spirito; promanava da un corpo appesantito dagli anni e dall’immobilità e nutrito di saggezza orientale. Fuori, nello specchio della finestra, un noce alto e spoglio lanciava verso di noi i suoi rami.

Poi, alle undici del mattino, mentre sostavamo in Piazza della Repubblica, da Via Vittorio Veneto lo vedevo scendere lento e pesante, a passi larghi e cadenzati, trasandato nell’abbigliamento, col cappotto sempre aperto e una sciarpona intorno al collo, tutt’uno con la borsa piena di libri. Lo immaginavo trent’anni prima, giovane bohemien, per le strade di Parigi, nel quartiere latino.

[Quel che posso dire, Edit Santoro, Galatina 2016, pp. 165-166]

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