di Rosario Coluccia
Il 18 gennaio 2024, a Roma, in via delle Coppelle, nel Palazzo Baldassini (oggi sede dell’Istituto Luigi Sturzo) è stata collocata una lapide che riproduco integralmente: «In questo palazzo / a lui offerto nel 1544 / dall’amico Giovanni della Casa / il 18 gennaio 1547 morì / Pietro Bembo / che nel Rinascimento / fece grande / la nostra lingua / agli occhi di tutta Europa. / S.P.Q.R. Accademia della Crusca». Il Comune di Roma (S.P.Q.R.) e l’Accademia della Crusca, congiuntamente, dedicano una lapide a Pietro Bembo, che in quel palazzo trascorse gli ultimi anni di vita. All’inizio della cerimonia, le motivazioni dell’iniziativa sono state illustrate da Giulia Silvia Ghia, assessora alla Cultura, allo Sport e alle Politiche giovanili del I° Municipio, da Nicola Antonetti, presidente dell’Istituto Sturzo, da Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca, da Miguel Gotor, assessore alla Cultura di Roma Capitale.
È suggestivo che la lapide di Bembo sia stata collocata di fronte ad una preesistente lapide che ricorda un breve soggiorno in quello stesso palazzo di Giuseppe Garibaldi che «tornava festeggiato in Roma» nel gennaio 1875, per sollecitare l’avvio di lavori pubblici in grado di preservare la capitale dalle frequenti, a volte disastrose, inondazioni del Tevere. Garibaldi e Bembo idealmente affiancati, pur nella diversità dei grandi risultati da entrambi conseguiti a beneficio del nostro Paese. Celeberrimo uomo d’azione il primo, grammatico e letterato il secondo, che con gli strumenti a lui consoni indicò agli italiani del Cinquecento e dei secoli successivi la strada per raggiungere l’unità linguistica, allora lontanissima: la storia d’Italia è attraversata da tradizioni linguistiche molteplici e da dialetti diversi, straordinari nella loro vivacità e nel loro fascino, ma anche ostacolo per la formazione di un’unica lingua nazionale. Bembo indicò all’Italia la strada dell’unità linguistica e additò gli esempi da seguire: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa, non sempre Dante che aveva accolto nella «Divina Commedia» forme poco auliche, poco rispondenti alle esigenze di una lingua elevata tutta da costruire. Dunque un modello elitario, difficile per la maggioranza degli italiani, allora poco o per nulla istruiti; ma l’unico modello possibile (e per questo vincente) nella situazione di allora, tanto diversa da quella attuale.