di Antonio Lucio Giannone
Ciononostante, nel 1968 Bene realizzò un documentario intitolato proprio Il barocco leccese, che ancora oggi resta un po’ un oggetto misterioso, essendo assai scarse le notizie che si hanno su di esso. Nella Vita di Carmelo Bene, si legge che «utilizzando i contributi stanziati per girare tre cortometraggi nel Salento, Bene realizza il suo primo lungometraggio [Nostra Signora dei Turchi], liberamente tratto dal romanzo omonimo»[1]. Uno dei tre documentari è appunto Il barocco leccese, un cortometraggio in bianco e nero, non a colori, come ha affermato Enrico Ghezzi in occasione di un incontro svoltosi a Lecce sulle prime prove cinematografiche di Bene[2]. Prodotto dalla Nexus film, della durata di 10 minuti e 57 secondi, è totalmente privo di “crediti”, ma si sa con certezza che si avvalse della fotografia di Mario Masini, che collaborò con Bene anche in altre opere cinematografiche.
Esso consiste in una serie di inquadrature fisse su dettagli della facciata della basilica di Santa Croce di Lecce e, in particolare, sulle statue che la ornano: i prigioni e gli animali fantastici che reggono la balaustra centrale (i «guerrieri saraceni e asini dotti / con le ricche gorgiere»[3] della poesia Lecce di Bodini); la Sapienza, posta sulla voluta destra della facciata e l’Umiltà, collocata su quella sinistra; San Benedetto da Norcia e Papa Celestino V, situate nelle nicchie e, infine, i putti che portano i simboli del potere spirituale e temporale[4]. Da notare che nel cortometraggio mancano del tutto immagini panoramiche della facciata, così pure quelle di altri elementi architettonici, come lo straordinario rosone, e tanto meno dell’interno della chiesa.
Su un sottofondo musicale, di cui non è stato possibile identificare l’autore, dalla calda, riconoscibile voce di Riccardo Cucciolla, il cui nome è stato fatto, in una occasione, anche da Enrico Ghezzi[5], viene letto un testo che ha cadenza poetica e risale forse allo stesso Bene. Basato su una serie di iterazioni (non solo di singoli termini ma di intere strofe) e ricco di rime e assonanze, presenta alcune parole-chiave che non è difficile mettere in relazione con le immagini che scorrono: «figure», «pietra», «sagome», «masse», «ombre corrose», «modanature». Inoltre compaiono alcuni termini rientranti nel campo semantico del ricordare, come «memoria», «ricordi» «obliterate», come se l’io lirico volesse confessare il suo non mai rescisso legame con quelle immagini (le «care figure»), rimaste nel «fondo del suo nudo cuore» e negli «antri dell’oscura memoria», che torna a rivedere dopo una lunga (presumibile) assenza dal luogo d’origine. A mo’ d’esempio, trascriviamo una parte del testo, utilizzando la sbarra per indicare la pausa nella lettura e la doppia sbarra per una pausa più lunga: