L’altro predicatore è il cappuccino fra Girolamo da Narni, al secolo Girolamo Mautini (Narni 1560 – Roma 1634), con la sua opera Prediche fatte nel palazzo apostolico (Roma 1632)[6]. «Con Girolamo da Narni la tarantola diventa protagonista di una predica tenuta nel palazzo apostolico vaticano, addirittura nella “corte Romana”, alla presenza del pontefice, in un mercoledì della terza domenica d’Avvento di un anno dei primi del Seicento. Argomento della predica è l’insuperabíl costanza del Battista, il quale, richiesto se fosse lui il Messia che gli Ebrei attendevano, seppe resistere con fermezza alle lusinghe dell’adulazione come un monte intorniato da venti da gli Euri da gli Austri. È proprio sulla suggestione che l’adulazione può provocare nell’animo umano, al punto da far perdere la reale consapevolezza delle proprie virtù, capacità e limiti che si inserisce la lunga digressione sulla tarantola»[7].
Quindi Mario de Bignoni (Venezia, 1601- 1660), noto anche come Mario da Venezia, predicatore cappuccino del Seicento, il quale scrive, fra le tante opere, I Serafici splendori[8]. Da quest’opera è tratto il brano dedicato alla tarantola, “precisamente dalla predica dal titolo: IL MARE CONGELATO. Gieroglifico de’ danni del Peccato, recitata nella terza Domenica di Quaresima”[9].
Ancora un altro autore è Luciano Montifontano (Lucien de Montafunertal, 1630-1716) frate cappuccino, che si occupa della tarantola nel libro di Sermoni domenicali e del Quaresimale[10]. Si tratta di un “discorso tenuto il mercoledì dopo la domenica di Passione sul tema: Tarantulae malum in viduis (la malattia della tarantola nelle vedove) sulla base di una citazione tratta dalla prima lettera di S. Paolo a Timoteo: Vidua quae in deliciis est vivens mortua est (la vedova che è nei piaceri è una morta vivente)”[11].
Veramente interessante notare come l’omiletica si fosse impossessata di un argomento che certo di sacro aveva ben poco, curvandolo a fini teologici.
E tuttavia Quaranta non cita il brano qui presentato[12].
Il milanese Ortensio Pallavicino (1608-1691) entrò nella Compagnia di Gesù nel 1624, insegnò retorica, filosofia e teologia nel collegio di Brera; compose panegirici latini e trattatelli dottrinali e devozionali[13]. In tutte le sue prediche raccolte nel libro spesso fa riferimento alla musica a fini retorici, in particolare nella predica Pregio XXV in cui, dopo essersi sinteticamente soffermato sugli elementi musicoterapici negli autori classici a partire da Pitagora, “Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè”, giunge poi a descrivere efficacemente il fenomeno del tarantismo – “stravagante e prodigioso il morso di quel ragno pugliese”-, attraverso un climax retorico che partendo dagli effetti malefici del morso della taranta e curativi della musica, procede con l’instaurare una similitudine tra la taranta e il peccato fino ad approdare ad una costruzione allegorica secondo cui vita è uguale a ragnatela dove s’annida perniciosa la taranta (ovvero il diavolo): “questa a vita una tela di ragni velenosi”. I mortali vengono aggettivati come “attarantati” che in quanto tali necessitano del suono salvifico della parola “Gesù”: “habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV in aure melos”. La musica è quindi la più efficace cura nel tarantismo. Rimanendo nell’ambito semantico-medico,Pallavicino più oltre scrive: “Et è l’istesso essere GIESU Salvatore e Salute che l’essere Medico e Medicina di tutti i nostri mali”[14].
Pallavicino spiega nella sua trattazione come il suono del nome Gesù sia per lui dolcissimo più di qualunque altro, paragonandolo ai cori angelici e lasciandosi trasportare nella sua esposizione dalla contemplazione estatica del mistero divino che gli fa trovare vibranti espressioni di giubilo. “È ammirabile il santissimo nome di GIESU, come melodia d’ogni harmonia all’orecchio”. Fa una lunga disgressione sugli effetti benefici della musica nei padri della chiesa [pp. 318- 321] e parlando dei filosofi, appunto dice:
Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè, che nella sua divina storia haveva descritto nella creatione del mondo la fabrica de’cieli fatta dall’onnipotente archetypo amore, concepì altissimo sentimento delle cose celesti. Ammirava il bell’ordine della successione della notte al giorno, la corrispondenza del maggiore, e minor luminare, la bellezza di quelli eterni pyropi, il pregio di quelle sfere d’incorrottibile zaffiro, gl’influssi, e movimenti di quel mondo fourano intorno a noi sempre pellegrinante, il regolato concerto di tanti maravigliosi oggetti, e gli pareva di sentire una sò quale harmonia, che di continuo gli feriva l’orecchio, e che quelle intelligenze motrici fossero innocenti cantatrici sirene. Ma in realtà, era un’intellettuale, e non sensibile harmonia sentita, e goduta dall’anima, a cui porgeva sommo diletto l’harmonioso concerto della providenza creatrice delle celesti maraviglie. Altra harmonia più che celeste fa sentire il nome sagratissimo di GIESV, mentre rappresenta non quello, quello, che dies diei eructat verbum, non quella, che nox nocti indicat scientiam, ma l’istesso Verbo increato fatto huomo, in quo sunt omnes thesauri sapientia,&scientia Dei , sussistente in due nature divina , & humana , quel Verbo ineffabile, che ha portato in un certo modo il cielo interra, e la terra in cielo: non il continuo pellegrinaggio delle sovrane sfere, mà l’immenso giro de’ meriti infiniti dell’unigenito Figlio di Dio [p. 322].
Una prosa infervorata, ridondante, barocca, come si può constatare, nello stile dei più ispirati predicatori del passato, i quali puntavano proprio sugli artifici retorici per colpire l’uditorio. Se pensiamo che il primo obiettivo dei predicatori era l’ammaestramento dei fedeli e che l’arma principale di cui essi disponevano era proprio l’ars oratoria, si comprenderà facilmente come i più bravi di essi fossero coloro che meglio padroneggiavano una simile arte, codificata in famosi trattati nella letteratura latina a partire da Cicerone e Quintiliano, fino a Sant’Agostino.
Pallavicino procede analizzando i riferimenti musicologici-musicoterapici in San Francesco e nella Grecia classica: Platone, Orfeo, Timotheo, Alessandro il Grande, Origene, ma sempre come contrappunto al “melodioso nome di Gesu” [pp. 323-328]. Scrive:
È stravagante, e prodigioso il morso di quel ragno pugliese, che con nome di tarantola comunemente s’ apella. Fà una ferita tanto occulta, e infonde un veleno tanto traditore, che il ferito, e avvelenato non se ne accorge. E veleno mortale sì, ma di longa vita: violento sì, perche micidiale, mà lento, viaggiando longo tempo prima d’arrivare al cuore: maligno, mà tanto codardo, e poltrone, che non vi uccide, anzi non dà segno, se non dopo molti / mesi de’ suoi interni assassinamenti fatti alla strada contra incauti, e sopiti passaggieri Mà più maravigliosa è la cura, curandosi i colpi mortali di questo picciolo malefico assassino di strada con l’harmonia del suono, ogni volta, che si truova una tale melodia, che sia sympatica col misero infermo, e si confaccia al suo genio; quasi che con un’ incantesimo innocente si disfaccia il nocevole. Siamo tutti miseri figli de gl’huomini nel pellegrinaggio per lo deserto infelice di questa vita attarantati mentre in particolare stiamo poco cauti, e in qualche modo sonnacchiosi. Ella è questa a vita una tela di ragni velenosi. Ova aspidum dice il santo, profeta ruperunt, telas aranearum texuerunt. Ogni anno della nostra vita è una tarantola che ci da un morfo homicida. co’l veleno a tempo. Ma quel, che è peggio, se non siamo svegliati, e cauti, resta anche l’anima attarantata da morsi scelerati, e maligni delle infernali suggestioni. Si che habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV in aure melos, ogni volta amiamo l’istesso GIESV; non essendo altro la sympathia, che il concorso di due vicendevoli amori, e se non manca il nostro, il suo non può mancare, perche egli è tutto infinito amore verso di noi. Eius nominis potentiam dice S. Giustino Martyre dæmones tremunt, e meglio la bocca d’oro di Giovanni Chrysostomo. Huiiusmodi incantatio non folum draconem a spelunca abigit, e in ignem coniicit, fed & vulneribus quoque medetur. Ufi pure l’astuto nemico con buggiardo, e traditore veleno tutta la malignità dell’arte sua. Si mens parata reperiatur disse quel Santo vescovo, Ut nomen Domini IESV serventi memoria retineat, et hoc sancto, gloriosoque nomine, tanquam armis adversus dolos usa fuerit, recedet diabolus fallax. S’hanno da vincere i demoni dell’inferno, come gl’effeminati Sibariti, con la melodia del canto, e del suono del dolcissimo, e potentissimo nome di GIESV. E che scioperaggine è la nostra havere nel solo nome di GIESV piamente proferito, e santamente invocato una bellissima musica di paradiso insegnataci dal divino amore, un’ harmonia più che celeste, che rallegra l’anima in qualunque stato d’afflittione, ch’ella sia, e la solleva alla melodia sovrana della trionfante città di Dio che accorda in’ pacifica consonanza gl’affetti nostri fra se più discordi, e di noi giurati nemici: che ci libera con pio, & innocente incanto dall’occulto veleno dei serpenti infernali che tutti i nostri nemici abbatte, e vince; e trascurare ingratamente favore sì segnalato, e gratia si incomparabile lo mi maraviglio più tosto, che ciascuno non desideri d’essere tutto anima, e lingua per amare, e lodare continuamente questo santissimo nome del Signore Iddio; almanco come con tutte le potenze dell’anima sua, tutti gl’affetti, tutti i pensieri, e tutte le membra del corpo, come con tante bocche eloquenti sempre non lo benedica co’l santo profeta Davide dicendo. Benedic anima mea Domino, & omnia, que intra me sunt nomini sancto eius. Facciamo dunque conforme il santo avviso al defimo, psallite nomini eius, quoniam fuave. Egli è il nome santissimo di ĠIESV soave, cioè una soavissima melodia d’ogni più ben concertata harmonia, diamoli perpetue lodi, e benedittioni, & assicuriamoci, che goderemo un’anticipato paradiso anche in questa terra; perche altro esercitio nõn hanno i beati cittadini delle celeste Sione, che lodare, e benedire il nome del suo Signore, & il nome di GIESV, che è il più dolce, & il più sagrosanto de ‘loro eterni cantici ; intimandosi a tutti, quando stanno per entrare in quella patria d’ogni bene, che questa farà la loro gloriosissima occupatione per tutti i secoli de’ secoli[15].
Fra oratoria biblica e citazioni latine Pallavicino mira a convincere il lettore di quanto sia melodioso il nome santissimo di Gesù, alla cui invocazione spira una musica di paradiso che riporta la serenità all’anima travagliata. Il suono di questo nome libera l’uomo dalle pene e dalle afflizioni quotidiane, perfino dal peccato, “l’occulto veleno dei serpenti infernali”, tanto che il religioso si chiede come mai ciascuno non desideri essere tutto anima e lingua per potere questo nome continuamente santificare. C’è la lezione di Basilio, Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa, Crisostomo, tutti per altro citati, certamente quella di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino, ma si avverte soprattutto l’influenza della grande predicazione cristiana dovuta agli ordini religiosi medievali, su tutti i domenicani ed i francescani, grazie alla cui opera l’omiletica raggiunge la più alta perfezione, diviene prosa d’arte, in massima parte per l’interpretazione allegorica dei testi sacri: si pensi solo a Sant’Alberto Magno o a San Bonaventura da Bagnoregio, campioni di stile in questo campo. I sermoni che vibrano sulle bocche ispirate dei predicatori del Cinquecento e del Seicento sanno toccare le corde giuste di un uditorio predisposto, con un misto di esaltazione e ammonimento, sono come delle macchine di alta precisione, colpiscono nel segno, centrano l’obbiettivo della catechesi. Forse un punto di riferimento per il Pallavicino fu Egidio da Viterbo (1469–1532), cardinale agostiniano, il più grande predicatore dei suoi tempi, il quale grazie ad una straordinaria cultura multidisciplinare riusciva a confezionare dei sermoni che erano capolavori di oratoria sacra in cui disseminava citazioni dalle più svariate fonti, sacre e pagane, sortendo un effetto di corrispondenza ed entusiasmo nei suoi ascoltatori.
Non mancano altri passi in cui il gesuita, rifacendosi alla letteratura patristica, riprende il paragone Gesù-medico[16].
Un altro esempio di uso omiletico del tarantismo ci è fornito dal gesuita francese Etienne Binet (1569-1639) che nel 1615 pubblica in Francia I fiori dei salmi, tradotto in italiano nel 1661. In quest’opera, che è un commento dei salmi, il religioso invita il lettore a scegliere il versetto che si addice al proprio peccato ed è qui che si instaura la similitudine con il tarantismo: quanti versetti, tante herbe medicinali per guarire le malatie dell’Anime nostre, che sono le passioni: Sciegliete quelle, che fanno à proposito per voi, e per il vostro humore peccante. Quelli, che sono morsicati dalla Tarantola, non guariscono, che per mano dell’harmonia pare un miracoloso ragguaglio il raccontarlo; e pure egli è verissimo, che talhora un bravo suonatore di liuto doppo, che hà fatto parlarė li suoi deti,e toccate mille ricercate, e canzoncine, se fi avviene in una per buona. forte che ferisce lo spirito della malato, lo guarisce, e ciascuno amalato vuole un suono particolare per il suo male”. Crea quindi il paragone peccato-demonio-tarantola:“noi tutti siamo stati morsicati mortalmente dalla Tarantola d’Inferno colà nel Paradiso, e che il peccato originale hà sconcertata tutta la bella, e dolce harmonia dei nostri corpi & anime?.
Il profetaDavide viene presentato come un dono di dio che con i salmi cura i peccatori come il musico cura gli attarantati[17]. Tra i mali indicati dal gesuita da sanare con i salmi appunto “vi sono divotioni bellisime per i Cartusiani” [Cartesiani][18].
Un caso di uso poetico barocco dell’exemplum del tarantismo ci è fornito dal gesuita e panegirista napoletano Giacomo Lubrano (1619-1693). Sotto lo pseudonimo di Paolo Brinacio, Lubrano, nelle sue Scintille poetiche, pubblica il sonetto La Musica Rimedia in parte a lor tossico[19]. Dello stesso Lubrano è un sonetto, Stravaganza velenosa della tarantola, che sempre in forma poetica ma senza finalità retoriche descrive gli effetti del morso della taranta pugliese: “De l’Appulo terren rettile maga, / picciola Erinni in velenosi umori,/ onde apprendesti ad eternar la piaga ,/ viva al ferire e postuma ai dolori ?// Mordi insiem e tradisci ; e pur non paga / di tesser bave e vomitar malori/ fai che di novi spasmi presaga/ […] Oh di strega natura empi dispetti !”[20]. Osserva Mina che il poeta “affianca il tossico dei ragni alle potenti fiamme estive, mostrando infine le piaghe della Ragione, la vana ambizione di ridurre fedelmentela realtà, che invece sfugge con inganni e i suoi enigmi”[21]. Va tenuto presente, come osserva Santoro, che la «cultura barocca considerava le malattie fisiche e mentali come l’espressione della presenza e “dissonanze” che facevano del corpo degli uomini una sorta di strumento male -accordato da sanare con una giusta intonazione coreutico-musicale»[22].
Un altro predicatore e apprezzato teorico, stavolta teatino, è il vescovo di Tortona Paolo Aresi. Si deve a lui, come evidenzia Doglio, l’ “archetipo” della “«predica a impresa» […] costruita su una «immagine significativa», simbolo o oggetto simbolico a valenza metaforica multipla”[23]. Aresi nel 1624 riprende il tema degli effetti del morso della taranta, “nelle parti della Puglia”,che si cura con la musica, che per l’infermo “ha diversa simpatia per diversi suoni”, quindi instaura l’analogia “tribolatione”- taranta: “Ne tutte con una sorte di suoni si risanano, altra canzone suonar bisogna al povero altra all’infermo”, e il predicatore si presenta al pari di un musico che sperimenta i vari suoni per infine concludere sull’unico suono salvifico:
ho fatto sentire varie corde hor il canto dell’amor divino , hor il basso della sua giustizia, hor il tenore della sua providenza, e hor l’altre dei suoni diversi attributi, Vi ho cercato diverse canzoni , della charità, della speranza, della fede, dell’utile, del dilettevole e dell’honesto, Non credo dunque vi sarà attarantato, che non habbia udito suono corrispondente al suo male”[24].
Il tema demonio-taranta non è certo originale, come segnala Luisa Cosi; lo ritroviamo in una tarantella a cinque voci con violini: Per la Nascita del Verbo di Cristoforo Caresana (Napoli 1670), quando era universalmente riconosciuta l’efficacia della iatromusica: “Il ragno apulo viene identificato con Lucifero, tarantola d’abisso tarantola ribelle, con suggestiva insistenza di certe relazioni simboliche (nido, ragno d’oscurità, pianti, tremori …) fra demonologia e rito attarantato. Dimostrazione efficace di certa capacità controriformistica di accomodarsi alla cultura del popolo, attuando un traslazione di significati”[25]. A p. 120, nota 22, è riportato il testo: “Tarantola d’abisso, empio serpente [ …] Tarantola ch’in cielo il nido avesti ma per troppo volar cadesti […] Tarantola ribelle, fulminata or che in terra la luce è nata”.Le cantate natalizie, come osserva Catello, “fanno esplicito riferimento al ritmo della tarantella e della tarantola, metafora dello spirito infernale che verrà cacciato sprofondando negli abissi”[26].
Anche nella letteratura spagnola si assiste ad una progressiva trasposizione retorica che unisce il tarantolato al demonioche nella drammaturgia del XVI secolo avrà grande fortuna, come documenta Casciano, tanto da fare della tarantata “un possibile archetipo”[27]. Spedicato individua nella presenza dell’episcopato spagnolo la via di trasmissione delle conoscenze del tarantismo pugliese in Spagna[28]. Tralasciando le molteplici trasposizioni drammaturgiche, che come è facile supporre sono il più naturale approdo delle manifestazioni del tarantismo, scevre di ogni implicazione clinico-patologica, il tarantismo stesso si può sinteticamente definire, come fa De Giorgi, una specie di “dramma sacro teatrico”[29].
Possiamo ora prendere in considerazione un certo uso retorico del fenomeno che ci è presentato da Scipione Ammirato, in due contesti differenti, quello poetico e quello della trattatistica. Il poeta, la cui ispirazione è sopita da altri impegni mondani, secondo un topos letterario, si rianima per aver ricevuto una lettera -il mittente è Angelo di Costanzo- con l’invito di portarsi a Napoli e intraprendere la redazione dell’opera Delle famiglie nobili napoletane, e come succede per un tarantato all’udire una certa melodia, anche in lui si ridesta l’ispirazione: “Vedeste un qua quì vui / Vecchio , o fanciul ,che mai l’avesse morso/Quel verme che taranta appeliam nui ; quando gran tempo è già passato e scorso,/se avvien poi che la cornamusa intenda, / Quasi Baccante agevolarsi al corso, /e porsi in sul ballar ? Simil comprenda / Chi’io mi divenni: e saltellarmi il core /sentì più di una volta entro sua tenda”[30].Ma Ammirato ricorre all’analogia suono-taranta in un’altra sua opera, i Discorsi intorno a Cornelio Tacito (Libro III, Discorso II), laddove il buon governante è paragonato a un medico in grado di saper diagnosticare il male e curarlo con gli opportuni rimendi: “Conviene esser ricco di rimedi, perche cosi non nuoca coi troppo leggieri, come farebbe coi troppo aspri; nella qual quantità di rimedi ; mi occorre di raccontare per ispiegar bene il mio intendimento, come si medica il mai della tarantola in terra d’Otranto”, e continua “Cerchi dunque, & procuri la carità del buon Principe di trovare il suono , & il modo appropriato a i gravi mali onde giace inferma la sua Repubblica”[31].
Un’altra drammatizzazione, che trae origine da situazioni reali, è quella del tarantolato che si finge tale per accattonaggio e per ottenere elemosine, fenomeno molto diffuso anche in Italia, come scrive il domenicano Giacinto Di Nobili (1594-? ), sotto lo pseudonimo di Frionoro:
Fingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio di Taranto (da cui son nominati), ed esser caduti in quella infirmità, che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa, tremano con le ginocchia; spesso al suono cantano o ballano”, quindi chiosa amareggiato l’autore: “piacesse a Dio che io avessi guadagnato tanto in questo anno con li miei sudori, studj e fatiche, quanto questi furbi si portano alla patria [Puglia]”[32].
Infatti, in particolare nel teatro del XVIII secolo è frequente il personaggio che per opportunismo si finge tarantato/a mentre nel contempo diventa sempre più ricca la letteratura negazionista del tarantismo[33]. Pini e Frionoro ci offrono un esempio di approccio critico al fenomeno del tarantismo attraverso un’ottica satirica: anche in questo caso non mancano esempi d’autore di approcci agli effetti del morso della tarantola ad incominciare da Anton Francesco Doni che, attraverso il topos del viaggio nell’oltretomba e la visione del mondo ultraterreno, denuncia “gli inganni e i pericoli del mondo, in una prosa eccentrica e umoristica, volta alla rappresentazione allegorica della condizione umana”[34]. Per il nostro studio, è interessane un cameo sul tarantismo che ritroviamo nelle pagine dell’Inferno de’ mal Maritati e delli amanti. L’oggetto di “burla” è il matrimonio mal riuscito di chi non più giovane sposa una donna di piacevoli fattezze, tra satira e velati doppi sensi. Il tarantismo diventa metafora dell’amore non sempre disinteressato:
Ella è una mira che ciascuno vi radrizza l’occhio, tutti sospiran per lei [giovani, i ricchi , i galantuomini] i poeti con parole che espugnano il cielo , non che una donna aguzza l’ingegno di qua, e chi di là; tanto il suono della sua tartantola ; perché i versi son tanti che egli è forza che fa salti per qualche uno la liberalità, e un balletto dilettevole, l’oro ha il diavolo addosso, la giovinezza piace la bellezza non si disprezza”[35].
Un anonimo autore pubblica nel 1738 La rete de’ matti ordita (96 pagine) che con tono chiaramente ironico se non satirico dileggia l’astrologia e gli astrologi. Nel titolo stesso troviamo un primo riferimento al tarantismo, la “rete”, ma dopo l’avviso al lettore si promette l’uso della “Sapienza e della perfetta morale” che sono l’antidoto contro il veleno della Pazzia; anche qui i rimandi all’armamentario del tarantismo sono impliciti. Apre la sua trattazione dichiarando l’analogia tarantati-astrologi come due categorie di “Matti”:“Evvi una specie d’ insetto, che chiamasi da Latini Falangium, e dagl’ Italiani comunemente, Tarantola Si genera in qualche Paese caldo in specie nella nostra Puglia”. Quindi descrive le manifestazioni coreutiche del fenomeno soffermandosi sul fatto che tali manifestazioni spesso si concentrano in un dato giorno dell’anno: “Qui però non è tutto il mirabile di questi avvelenati, perchè ogni Anno, almeno per una volta, da lor risentesi il furore medesimo”: qui l’autore scrive di aver visto egli stesso degli “ attarantati “che ho vedu to anch’ io gli Attarantati, ed holli veduti annualmente replicare i furiosi lor balli”; ma, come chiarisce dopo, questi tarantati sono gli astrologi agitati all’approssimarsi della periodica apparizione di una certa formazione astrale[36].
Un esempio di dramma sacro, La Fenice d’Avila Teresa di Giesù, di Giuseppe Castaldo, musiche di Francesco Provenzale, in 3 atti, ripercorre la vicenda della monacazione contrastata di Teresa D’Avila. Tra i personaggi, il demonio tentatore che assume varie sembianze, ma anche Rodrigo, “un amante che in segreto soffre tace”, due popolani, ovvero Ciccotto Napolitano e Giampetro calabrese, i quali, sparsasi la voce del futuro matrimonio di Teresa, si preparano a recarsi alle nozze per approfittare del pranzo – “s’unchia la panza”-, presentandosi come musici. Passano in rassegna i vari balli e strumenti musicali per l’occorrenza e poi, per bocca di Giampetro, “Vajia la tarantiella/ che è la più bella”. Con la “Tarantella” eseguita da Ciccotto, Giampetro e il coro, si conclude, con la scena XVI, l’atto II:
Tarantola d’amore è un bel sembiante/Che lo core mi va pungendo /Tirititiritommola, /Che lo core mi và pungendo, e non le piante, / E lo punge senza pietà, /Tirititiritommola,/Tarantola mmardetta, e quando Scumpe?/E lo cuollo non te lo rumpe, /Tirititiritommola, /E lo cuollo non te lo rumpe, /Mamma mia, ca ntroppeca: / Chi me lega m’asciogliarrà, /Tirititiritommola. /Tarantula m’afferra a lu ienucchiu,/ Lu talluni mi muzzicau, /Tirititiritummula. /Lu taluni mi muzzicau, e mo gunucchiu/Non mi pozzu chiú frizzicà, Tirititiritummola./Tarantola d’amore è gelosia,/Che pian piano rodendo và, /Tirititiritommola./Che pian piano rodendo và la vita mia, /Gran veleno è la beltà. Tirititiritommola/ Tarantola me sciacca, e vò, ch’abballa, /Statte fitto te rumpe la spalla, /Tirititiritommola/ Amore me fa mpazzire, ahi cecavoccola /Me fa fà capotommola,/ Tirititiritommola. /Taranta mi grattughia a cuzzicuni, /E mi vinni la smangiasumi, /Tirititiritummula./E mi vinni la smangiasumi a li piduni, /Non mi stari chiù a stridià, /Tirititiritummula./ Tarantola vi batte, e dà tormento. /N’è tarantola nò, tirititiritommola, /N’è tarantola nò, ch’è abbattemiento: /Singhi aucisu. /M’havifte à sciacca, Tiritiritommola/[37].
Il testo di Castaldo non è che un esempio del fenomeno di “spettacolarizzazione che ha portato a Napoli i santi a teatro, soprattutto nella seconda metà del Seicento”[38]. La scena della tarantella era già stata da Castaldo rappresentata nella commedia dedicata a santa Rosalia (1670), ovvero La colomba ferita, che ambientava le vicende di Rosalia nella fastosa corte di Ruggero II. Anche in questo caso le musiche sono di Francesco Antonio Provenzale (1632-1704), “uno dei maggiori compositori d’opera e musica sacra del Seicento e tra i maestri più influenti nella catena didattica napoletana”[39].
Quelli proposti sono solo testi
esemplificativi della capacità pervasiva del tarantismo che ben si presta a
svariati usi e strumentalizzazioni[40]. La bibliografia è sempre in
aggiornamento ed è facile restare impigliati nella sua rete tra dotte
citazioni, plagiari di ogni epoca e sorte e contemporanei “tarantologi”, per finire di malavoglia come
novelli Padron ’Ntoni
andando “ tutto il giorno di qua e di là, come se [si ] avesse il male
della tarantola”[41].
[1] Il lunghissimo titolo dell’opera è I PREGI MARAVIGLIOSI DEL SANTISSIMO NOME DI GIESV ESPOSTI DAL P. ORTENSIO PALLAVICINO Della Compagnia di GIESV. Per eccitare tutti ad una divota riverenza, e pia invocatione di questo augustissimo nome. S’AGGIVNGONO I PARERII FRA IL NOME DI GIESV, E DI MARIA, Et alcune divotioni insigni pratticate da Santi ad honore del santissimo nome di GIESV, Milano, Filippo Ghisolfi, 1661, pp. 318-330. Dell’opera conosciamo anche un’edizione ottocentesca: O. Pallavicino, I pregi maravigliosi del santissimo nome di Gesù e la rassomiglianza tra il nome di Gesù e quello di Maria non che alcune divozioni insigni praticate dai santi ad onore del SS. nome di Gesù / esposti dal p. Ortensio Pallavicino, Napoli, Stab. Tip. Dell’Ancora, 1869.
[2] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII) https://www.academia.edu/30804409/Rosario_Quaranta_LA_TARANTOLA_NELLA_PREDICAZIONE_SACRA_SECC_XVII_XVIII_pdf
[3] Conciones Academicae In Praecipua totius Anni Festa: Ad primariam Nobilitatem, populumque Academicum, Pragae In Auditorio Academico, ab Authore dictae: Opus posthumum (Pragae 1707, 1711, 1718, 1722).
[4] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 2.
[5] Il curioso discorso sul “salto” della Tarantola del gesuita Caspar Knittel anche in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/25/un-curioso-discorso-sacro-sul-salto-della-tarantola/
[6] Prediche fatte nel palazzo apostolico dal M. R. padre F. Girolamo Mautini da Narni vicario generale dell’ordine de frati minori cappuccini terza editione Romana, 1639. Il libro, oltre a quella del 1632, ebbe diverse ristampe: a Venezia (1637) a Roma (1639) e a Parigi (1637).
[7] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 9.
[8] I Serafici splendori da gli opachi delle più celebri accademie e rilucenti tra l’ombre di vaghi geroglifici compartiti in concetti tratti dalle divine lettere, contrapuntati dalle professioni humane per li giorni ordinari di quaresima, noto anche come Quadragesimale, edito a Venezia nel 1649 e poi nel 1651, 1654, 1660, pp. 183-196.
[9] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 12.
[10] Sacrarum moralium concionum Dominicale, nec non Quadragesimale, quae tanquam aera minuta duo cum vidua paupere in ecclesiae Gazophjlacium primo deponit humiliter a. v. p. lucianus montifontánus Ord. FFr. Min. S. Francisci Capucinorum in Provincia Anterioris Austriae Sacerdos Concionator, Typis Ducalis Monasterij Campidonensis, Anno 1688, pp. 107-113.
[11] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p.15.
[12] Come pure non è citato in D. Rota, I Gesuiti e le Tarantole, Lucca, Libreria musicale italiana, 2012. Nella lettura del tarantismo anche in ambito musicale, imprescindibile riferimento è il gesuita Athanasius Kircker (1602-1680), di cui si occupa la stessa Rota.
[13] Si veda: C. Sommervogel, Bibliothèque, IV, coll. 115-117, e XII, col. 1176, cit. in G. Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L’eresia di Santa Pelagia, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 217, nota 6.Ortensio Pallavicino fu chiamato a gestire la difficile posizione dei correligionari padri gesuiti vicini al movimento quietista dei Pelagini, che era stato tacciato di eresia. Questo movimento spirituale fu fondato dal laico Giacomo Filippo Casolo presso l’oratorio milanese di Santa Pelagia a metà del Seicento e si diffuse in Veneto e in Lombardia, caratterizzandosi per un’intensa attività devozionale basata sull’esercizio collettivo: Cfr. L. Roscioni, L’eresia della preghiera. Gesuiti e Pelagini tra Lombardia e Veneto nel Seicento, Ediz. Critica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021.
[14] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.
[15] Nelle trascrizioni si riporta esattamente la grafia originale del testo, senza alcun emendamento.
[16] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.
[17] La figura evocata dai predicatori è sempre Davide con riferimento alle valenze terapeutiche della musica, secondo quanto riporta il Primo libro di Samuele: “quando dunque lo spirito sovraumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui”.Samuele, I, cap .16, v. 23, in La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale CEI, Roma, Edizioni San Paolo, 1980, p. 246. Quanto invece a San Paolo, è ben noto l’episodio che ne giustifica il ruolo nel tarantismo ed è riportato negli Atti degli Apostoli, cap. 28, vv. 3-5: “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: «Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male”. La Sacra Bibbia, cit., p. 1116. Su tale episodio si innesta il rapporto San Paolo –Taranta: Cazzato e Vallone evidenziano come tale “equazione” si afferma nel Settecento e consolida nell’Ottocento a scapito di San Pietro che come documentano i due studiosi era in passato riconosciuto come protettore dai morsi della tarantola. M. Cazzato, Da San Pietro a San Paolo. La cappella delle “tarante” a Galatina, Galatina, Congedo Editore, s.d., p. 27, e G. Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso: dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Pref. di G. Galasso, Galatina, Congedo, 2004.
[18] [Petronio Ferrifiori], Fiori De’Salmi, Et Affetti D’un’Anima Santa. Con Due Modi Per Viuere in Gratia Di Dio, & Essere Sempre Contento. Composti Dal P. Stefano Binetti Della Compagnia Di Giesu’, Venezia Appresso Nicolò Pezzana, 1661. Scrittore gesuita, nato a Dijon, Francia, nel 1569, Binet morì a Parigi nel 1639. Entrò nella Compagnia di Gesù nel 1690 e fu rettore dei collegi di Rouen e Parigi, e provinciale di Parigi, Lione e Champagne. Fu amico di San Francesco di Sales: Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) bio-gráfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Madrid, Universidad Pontificia Comillas, Roma, Insititutum Historicum Societatis Iesu, 2001, p. 950. Come scrive Pellandra, “Binet è uno di quegli autori gesuiti sui quali grava ancora la riprovazione di Pascal”, che lo cita nella lettera IX delle Provinciali: C. Pellandra, L’usage de la maladie chez le Père Étienne Binet, in Littérature et pathologie, Saint-Denis: Presses universitairesde Vincennes, 1989 <http://books.openedition.org/puv/1236>.
[19] P. Brinacio, Scintille poetiche, o poesie sacre, e morali di Paolo Brinacio Napoletano. In Napoli, Con licenza de‘ Superiori, 1692, p. 65. Il primo testo a stampa del Lubrano era uscito molto tempo prima. Nell’opera Le egloghe simboliche (Lecce 1642) di Ascanio Grandi infatti, si trova un suo Elogium dell’autore. “Nonostante esprima una netta condanna degli eccessi della poesia marinista, il Lubrano delle Scintille si inserisce a pieno titolo in quel filone, di cui estremizza molti aspetti, riuscendo nel compito non facile di dare un’interpretazione molto originale di uno stile ormai giunto al tramonto. Supportato da un’inventività linguistica straordinaria (grazie alla quale conia un grandissimo numero di neologismi), mette in atto un’accorta strategia retorica, avvalendosi di figure già molto sfruttate nella poesia barocca [..]. Dal punto di vista formale va notata la grande ricchezza delle soluzioni retoriche (particolarmente sfruttata è la figura dell’antitesi), ben in linea con la tradizione della predicazione barocca”: Giacomo Lubrano, a cura di Luigi Matt, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 66, 2006 (on line).
[20] G. G. Ferrero, La Letteratura Italiana. Storia e Testi. Volume 37. Marino e i Marinisti, Milano, Ricciardi, 1954, p.1041. M. Niola, Il corpo mirabile. Miracolo, sangue, estasi nella Napoli barocca, Roma, Meltemi, 2002.
[21] G. Mina, Introduzione, in W. Katner, L’enigma del Tarantismo. La malattia del ballo, a cura di Gabriele Mina, Nardò, Besa, 2002, p.18.
[22] V. Santoro, Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Alessano, ItinerArti Edizioni, 2021, p. 76.
[23] M.L. Doglio, Premessa, in Predicare nel Seicento, a cura di M.L. Doglio e C. Delcorno, Bologna, Il Mulino, 2011, p.11.
[24] Lettioni di monsignor Paolo Aresi vescovo di Tortona nelle quali discorrendosi dell’essere, natura, cagioni et effetti della tribulatione, molti curiosi dubbi si risolvono, Appresso Nicolò Viola, 1624, pp. 817-818. Paolo Aresi (1574-1644) “è anche autore di Arte di predicare bene (Venezia 1611), edita più volte, anche nel compendio del confratello G. Morandi (Roma 1664)”: Paolo Aresi, a cura di Francisco Andreu, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 4, 1962 (on line).
[25] L. Cosi, Tarantole, folie e antidoti musicali del sec. XVII fra tradizione popolare ed esperienza colta, in Tarantismo, transe e possesione, musica, a cura di Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2001, pp. 57-58. Della Cosi, «Tirar con esca alla devozione». Musica e strategia missionaria dei Gesuiti nel Seicento, fra Napoli e Terra d’Otranto, in «L’Idomeneo», Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia – sezione di Lecce, n. 10, 2008, Galatina, Panico, 2008, pp.
[26] R. Catello, Il successo mondiale della tradizione del Presepe, in Patrimoni intangibili dell’umanità: il distretto culturale del presepe a Napoli, a cura di Stefano De Caro, Walter Santagata e Massimo Marrelli, Napoli, Guida, 2008, p. 175.
[27] B. Casciano, Tarantole e Tarantolati e tarantelle nella Spagna del “Siglo de oro”, Elison Paperback, 2021, p. 85.
[28] M. Spedicato, Chiesa e trasgressione: il tarantolismo in Terra d’Otranto in età post-tridentina, in Rimorso, La tarantola tra scienza e letteratura. Atti del convegno del 28-29 maggio 1991 a San Vito dei Normanni, Nardò, Besa, 2001, pp. 9-2. Si veda inoltre B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, Roma, Carocci editore, 2019, pp. 20-41.
[29] P. De Giorgi, Tarantismo e rinascita, Lecce, Argo, 1999, p. 89. Non è forse un caso che in era moderna prima della missione di Carpitella e De Martino del 1959, il tarantismo ritornò alla ribalta nazionale con il fotodocumentario Le invasate di Chiara Samugheo e testo di Emilio Tadini sulla rivista «Cinema Nuovo» del 1955.
[30] S. Ammirato, Costanzo non è forse ancora un mese, in Le Rime d’Angelo di Costanzo, Cavaliere Napoletano. Quinta edizione delle passate molto più illustrata, ed accresciuta. Si sono aggiunte le Rime di Galeazzo di Tarsia, Autore contemporaneo in Padova: appresso Giuseppe Comino, 1738, p. 114 (Alle pp. 114-124 si trovano le rime dell’Ammirato dedicate a Costanzo). Su Scipione Ammirato (1531-1601) si vedano tra gli altri, la voce a cura di Rodolfo De Mattei, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 3, 1961 (on line); R. De Mattei, Varia fortuna di Scipione Ammirato; Opere a stampa di Scipione Ammirato; Codici di Scipione Ammirato, in «Studi salentini», n. 8, 1960, pp. 352-407; Idem, Scipione Ammirato «Il vecchio» e Scipione Ammirato «Il giovane», in «Archivio Storico Italiano», vol. 119, n. 1, 1961, pp. 63-76, F. Tateo, Divagazioni sul Tacito di Scipione Ammirato, in «Esperienze Letterarie», vol. 28, n. 3, 2003, pp. 4-18; S. Ammirato, I trasformati, a cura di Paola Andrioli Nemola, Galatina, Congedo Editore, 2004; C. Vasoli, Note sugli «Opuscoli» di Scipione Ammirato, in Nunc alia tempora, alii mores. Storici e storia in età postridentina, Atti del Convegno internazionale, Torino, 2003, a cura di Massimo Firpo, Firenze, 2005, pp. 373-396; Idem, Unità e disunione dell’Italia? Uno storiografo della Controriforma. Scipione Ammirato e la sua replica al Machiavelli, in Le sentiment national dans l’Europe méridionale aux XVIe et XVIIe siècles, a cura di Alain Tallon, Madrid, 2007, pp. 189-203; I. Nuovo, Otium e negotium: da Petrarca a Scipione Ammirato, Bari, Palomar, 2007, pp. 361-387; C. Continisio, Federico Borromeo lettore di Scipione Ammirato (con 17 lettere), in Storia, rivoluzione e tradizione. Studi in onore di Paolo Pastori, a cura di Sandro Ciurlia, Firenze, Edizioni del Poligrafico Fiorentino, 2011, pp. 311-338,
[31] S. Ammirato, Opere, a cura di Martino Capucci e Marco Leone, Galatina, Congedo Editore, 2002, p. 122.
[32] R. Frionoro, Il vagabondo, overo sferza de’ bianti, e vagabondi. Opera nuova, nella quale si scoprono le fraudi, malitie, & inganni di coloro che vanno girando per il mondo alle spese altrui. Et vi si raccontano molti casi in diversi luoghi, e tempi successi. Data in luce per avertimento de’ semplici, In Venetia, appresso Anzolo Reghettini, 1627, pp. 51-52. Si riportano i testi sempre in trascrizione paleografica. L’opera, che avrà ampia fortuna anche fuori d’Italia, è una traduzione/rimaneggiamento dello Speculum cerretanorum di Teseo Pini, scritto probabilmente fra il 1484 ed il 1486, che conobbe solo circolazione manoscritta: T. Pini, Speculum cerretanorum, in Il libro dei vagabondi, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi,1980, pp. 39-40. Diversamente, Tommaso Campanella riteneva i tarantati non dei simulatori («io non credo che quei poverelli pagassero tanto l’anno per finzione a sonatori»): T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, p. 260, cit. in M. Combi, Tommaso Campanella, il morso della tarantola e la magia naturalis, in Antropologia e scienze sociali a Napoli in età moderna, a cura di Roberta Mazzola, Roma, Aracne editrice, 2012, pp. 20-21. Come scrive Di Mitri, il Frionoro ci trasmette un’immagine del falso tarantato “tra il picaresco e l’oleografico quasi che i protagonisti del racconto uscissero dalla commedia dell’arte o da una corte dei miracoli”: G.L. Di Mitri, Storia biomedica de tarantismo nel XVIII secolo, Firenze, Olschki, 2006,p.3.
[33] G. L. Di Mitri, Storia biomedica del tarantismo, cit., p. 2. Per un raffronto tra teatro e interpretazione del fenomeno: B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, cit., pp. 43-60. P. Sisto, La metafora della tarantola: storia e leggenda dello stellione fra antichi e moderni, in «Esperienze letterarie», Pisa- Roma, Fabrizio Serra editore, XLIII, n. 4, 2018, pp. 53-65.
[34] L. Spalanca, Il potere della parola. Gli Inferni di Anton Francesco Doni, inDNA – Di Nulla AcademiaRivista di studi camporesiani, Vol. 2, n. 2 (2021), p. 30: Inferno e Post-Inferno I DOI: 10.6092/issn.2724-5179/ e A.F. Doni, I mondi e gli inferni / Anton Francesco Doni, a cura di Patrizia Pellizzari; introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994.
[35] Ibidem. Su Doni si veda Il segreto della Commedia dell’arte: la memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII. Secolo, a cura di Ferdinando Taviani, Mirella Schino, Firenze, La Casa Usher, 1986, p. 357.
[36] La rete de’ matti ordita da deliri del grande stolto celeste calcolata al meridiano, ed orizonte di Brescia, sopra l’anno bisestile 1738, In Brescia: per Giacomo Turlino, 1738, pp. 9-10.
[37] La Fenice d’Avila Teresa di Giesù melodrama sacro, del dottor Giuseppe Castaldo, Nella stampa di Michele Luigi Mutio (senza data), pp. 41-42.Croce ci fornisce alcune informazioni sulla fortuna di quest’opera da fonti d’epoca: B. Croce, I teatri napoletani: sec XV –XVII, Napoli, Presso Luigi Pierro 1891, p. 156; inoltre V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida editori, 1969, p. 202. Come osserva Surian, l’introduzione di elementi farseschi e di personaggi di carattere comico e coreografico e l’accostamento dell’aspetto agiografico spettacolare saranno fra i tratti tipici del teatro dal Seicento: E. Surian, Manuale di Storia della musica Vol. I Dalle origini alla musica vocale del Cinquecento, terza edizione riveduta, Milano, Rugginenti editore, 2002, p. 283. Su Castaldo: F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri: i santi nel teatro musicale sacro del Seicento a Napoli, in «Sanctorum: rivista dell’Associazione Italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia», n. 6, 2009, pp.116-119.
[38] F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri, cit., p. 93.
[39] Voce, a cura di Fabris Dinko, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 85, 2016 (on line).
[40] Vari sono i riferimenti al tarantismo riportati in F. M. Attanasi, Il tarantismo in musica: preliminari storici per un’indentificazione musicologica, in L’eredità di Diego Carpitella. Etnomusicologia, antropologia e ricerca storica nel Salento e nell’Area Mediterranea, Atti del convegno Galatina 21-23 giugno 2002, a cura di Maurizio Agamennone e Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2003, pp. 243-250. I. Nuovo, Presenze del tarantismo nella produzione letteraria umanistico–rinascimentale, in La Magia e le arti nel Mezzogiorno, a cura di Raffaele Cavalluzzi, Bari, Ed. B. A. Graphis, 2009, pp. 49-69. Una ottima bibliografia del tarantismo in G. Mina, La tela infinita: bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo, 1945-2006, Nardò, Besa, 2006.
[41] G. Verga, I Malavoglia, Introduzione e note di Nicola Merola, Milano, Garzanti, 1983, p. 47.
[in Non omnis moriar. Studi in memoria di Giacomo Filippo Cerfeda, a cura di Mario Spedicato, Società Storia Patria Sezione Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2024]