Signorile ad un certo punto afferma di non aver condiviso la fine di Moro, ma di non aver voluto parlare, allora, perché parlare, e parlare dall’alta tribuna del parlamento, avrebbe significato minare anzitutto la traballante unità politica della nazione, ma scrive ora, dopo quasi mezzo secolo. Gesto che ritengo significativo e rivelatore, in particolare oggi, quando assistiamo ininterrottamente al tentativo opposto di usare la storia per una rendita di posizione in politica. La morte di Moro, per i due autori, e anche per altri, viene da lontano. Il libro propone un contesto largo di eventi nel tempo e nello spazio, una quantità di fatti, tutti estremamente noti: il dissidio nel mondo allora comunista tra Cina e URSS, l’acuirsi negli anni Settanta della vena atlantista e della guerra fredda, certo non attenuata a fondo dai primissimi anni della presidenza Carter, l’anticomunismo planetario di Kissinger, la fine premonitrice (1973) di Allende in Cile e altro ancora. Questi episodi, e altri, sono tutti estremamente noti, e non potremmo definirli una novità, ma tessuti sapientemente insieme proiettano un fascio di luce inaspettata sul massacro di via Fani e sulla morte di Moro, e la proiettano da uno scacchiere di eventi internazionale, la cui logica d’insieme è eminentemente politica, ma di una logica politica che vuole farsi storia e perciò non asseconda nessuno dei percorsi di ‘intelligence’ (le ‘spy stories’ dice Signorile) e di agenti stranieri in Italia, variamente ipotizzati e anche attestati, in modo talora agghiacciante, ad esempio in varie tornate della Commissione parlamentare ‘stragi’, che dall’agosto del 1994 è stata autorevolmente presieduta dal sen. Pellegrino. Intendiamoci, queste sono storie purtroppo vere ed efficienti, ma se Colarizi e Signorile scelgono di non indulgere a narrarle, è perché sono esse stesse comprensibili solo attraverso quel congegno largo delle relazioni internazionali e del confronto tra blocchi di Occidente e di Oriente, ch’è lo sfondo prescelto per spiegare la morte di Moro. Le domande essenziali su questo profilo, quelle cioè che prescindono dalle singole persone in azione, sono però poste, e ci si chiede se questi agenti, nei cruciali 55 giorni del rapimento Moro, avessero soltanto funzione di controllo di quel convulso movimento politico, o piuttosto ne fossero attori e, a un certo punto addirittura protagonisti. Ed anzi, da questo punto di vista viene inserito un tassello fondamentale, che acquista nel volume uno spazio rilevante: l’interesse ostile per Moro, e, in concreto, per il compromesso storico, non è stato solo degli agenti atlantici, ma anche, con movenze eguali e contrarie, degli agenti orientali del KGB, dei loro sostituti bulgari, e altri. Questo è uno dei contributi notevoli del libro, perché ripristina centralmente quello che fu un effettivo gioco delle parti, dando spazio e significato ad un evento che la interpretazione ‘sacrificale’ della morte di Moro, ha a lungo tenuto in ombra, e cioè l’attentato a Berlinguer dell’ottobre 1973 in Bulgaria che, secondo Berlinguer stesso, fu un vero tentativo di omicidio. È dunque il ‘compromesso storico’, ed è ovvio, che lo sia, e in questo non c’è nulla di nuovo, a fibrare ora il tessuto narrativo. Fu Berlinguer a proporre una partecipazione del PCI al governo e a motivare un incontro con la DC, e lo fece proprio attraverso un celebre parallelo (edito nel settembre del 1973 su Rinascita) tra la fine di Allende e del socialismo cileno e l’Italia di allora, e il fine era di emarginare la ‘violenza reazionaria’ che era in quel tempo, reazionaria o meno, ben presente in Italia, con segno ancipite di destra e di sinistra, e che dagli estremi eversivi appunto di destra e di sinistra osteggiava certamente il compromesso. In realtà Berlinguer riproponeva in un contesto nuovo, quella che era stata la scelta di Togliatti, il vero maestro di Berlinguer, fin dal famoso Ottavo congresso (1956) del PCI, e cioè la scelta della ‘via italiana al comunismo’ con tanto di rifiuto di prassi rivoluzionarie e di dittature del proletariato, ma con professione di parlamentarismo e di progressive ‘riforme di strutture’. Nel 1956 Stalin era morto da poco, ma Stalin stesso, quando nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale Togliatti rientrò in Italia (marzo 1944) condivideva l’idea di una lotta comune in Italia tra le forze antifasciste e antinaziste, e perciò proprio Togliatti, appena sbarcato a Napoli, aveva esortato i giovani del Regno del Sud ad arruolarsi nel Regio Esercito italiano, che, dall’ottobre del 1943, aveva dichiarato guerra alla Germania. A questa tradizione di partecipazione parlamentare (ed anche governativa) antifascista, evidentemente Berlinguer si richiamava, ma con un coraggio eccezionale, dato il contesto a lui coevo, e venne la celebre dichiarazione di lealtà atlantica (giugno 1976) e il suo viaggio a Mosca (novembre 1977), che Signorile sottolinea con estremo rilievo. In realtà, la stagione del leninismo come sostanza del marxismo era ormai tramontata sia dal punto di vista ‘storico’, proprio con la proposte di Berlinguer di compromesso e di eurocomunismo, sia dal punto di vista ‘dialettico’ (teorico) e basterà ricordare i celebri dibattiti su Past and Present, dove gli economisti inglesi provavano che una politica economica tesa a migliorare le condizioni di vita delle classi subalterne, in effetti oltretutto dimostrava, contro la vulgata paleomarxista, anche la pretesa fallace di una natura sovrastrutturale delle politica, con enormi conseguenze concettuali. La Democrazia Cristiana, indubbiamente, non aveva questo complesso patrimonio culturale alle spalle. Condivideva, certamente, la tradizione popolare e antifascista della sua migliore storia recente, ma vi agiva potentemente anche il fattore K (Kommunizm), cioè il veto atlantico all’ingresso del PCI nella compagine governativa. Moro, di suo, è stato una figura intellettuale di alto profilo: i suoi interventi di giovane giurista alla Costituente e le sue monografie di diritto penale (spesso ispirate dall’esigenza di ripensare gli istituti penalistici di tutela in base al principio di sussidiarietà delle norme) mostrano una coerenza profonda della sua ispirazione cattolica. Anche l’adesione alla proposta di compromesso proveniente da Berlinguer, sembrò corrispondere – ricordo i dibattiti di allora- al suo ecumenismo cristiano. Tuttavia Signorile, e sono pagine importanti del suo libro, spinge più a fondo l’analisi e sostiene che per Moro il compromesso storico era semplicemente il vestimentum, l’abito teorico, non per questo pretestuoso, per conservare al suo partito, la DC, l’egemonia della vita politica e democratica in Italia, che in quegli anni aveva visto i successi elettorali del PCI crescere ben oltre il 30%. Soprattutto in Italia s’era mostrata, in particolare con il referendum sul divorzio del 1974, una forza sociale maggioritaria, promossa da laici di tradizione risorgimentalista (liberali, repubblicani, radicali), socialisti e comunisti, e ben capace d’imporsi su un partito cattolico fermo all’impostazione confessionale. Dunque Moro, e Signorile ne parla in pagine semplici e chiare, vede bene che per evitare altre sconfitte elettorali ed altre alleanze escludenti, il partito democristiano ha necessità di un dialogo con la maggiore forza di opposizione, il Pci, ormai entrato in più orizzonti partecipativi, e di accreditarlo con forza -quella di un partito cattolico ancora maggioritario- in una prospettiva di governo, articolando con la propria stessa presenza le prospettive d’insieme dell’alternanza democratica o, se si vuole, dell’alternanza in democrazia. Si fa presto a capire che, su questi presupposti, il dialogo tra Moro e Berlinguer è divenuto presto capitale e strutturante di quel contesto politico. Però, al tempo stesso, questo equivaleva a circondare il partito di avversari extraparlamentari e violenti, sia interni: gli estremisti di destra e di sinistra (che già nel ‘69 rampognavano il togliattismo nonleninista del Pci); sia esterni: gli agenti atlantici e orientali. Sicché, scrive Signorile, racchiuso il dialogo del compromesso in questa doppia morsa, «Moro comincia a morire molto tempo prima» del suo rapimento, al 16 marzo del 1978. Da questo giorno però data la storia meno nota e più umana narrata da questo volume, e cioè il tentativo voluto dalla segreteria del partito socialista, e cioè di Craxi e di Signorile, di aprire una trattativa con ‘gli uomini delle Brigate Rosse’ per salvare Moro, l’uomo ‘buono e giusto’ tenuto prigioniero. Sono pagine cariche di pathos e di angoscia, quelle che descrivono questo tentativo – messo in campo in particolare da Signorile-; e lentamente, ma operativamente, in quei cinquanta giorni, l’azione erode le due muraglie granitiche dell’intransigenza: quella democristiana, impersonata da Andreotti e da Cossiga (allora ministro dell’Interno), e quella comunista di Berlinguer. Si pronuncia per la salvezza il presidente Leone, di cui Moro, appena laureato, era stato assistente a Bari, nella cattedra di diritto penale; anche Cossiga accenna a un ‘ammorbidimento’ e così gli stessi comunisti, per voce di Pecchioli. Si pronuncia con grande nobiltà per la salvezza anche Fanfani, ch’era stato avversario politico di Moro, e ne avrebbe parlato alla Direzione del partito democristiano il 9 maggio, e con esiti, data l’autorevolezza del personaggio, probabilmente positivi. Invece Moro viene assassinato dai brigatisti la notte tra l’otto e il nove maggio, quasi a precorrere, dice Signorile, quell’esito positivo, e forse per l’intervento «di altri protagonisti, entrati prepotentemente sulla scena nelle ore finali, portatori di morte». Sono parole amare e rivelatrici; rivelatrici, cioè, non solo del fatto che l’Italia di allora era una democrazia a sovranità limitata, ma rivelatrici di quello ch’è essenziale nella verità: l’indicazione netta, non mordace, non pettegola, del bene e del male. Parole più forti, forse, di quelle analoghe di Cossiga, che col suo narcisismo icastico fino all’autolesionismo, dirà più volte: «decisi che doveva prevalere la ragione di stato anche a scapito della sua vita. Stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive dell’Alleanza Atlantica… sono stato io a decidere la morte di Moro». L’etica hegeliana dello stato non concede spazio alcuno alla vita, e all’animo, di un singolo; ma Kant, il filosofo della pace universale, pensa diversamente, e Signorile non accetta, né ha accettato che «il principio di legalità, superiore a quello di salvaguardare un’esistenza umana in estremo pericolo, resti un totem intoccabile». Io ne penserei allo stesso modo, ed anche per tale motivo, per essere favorevole alla dignità della vita, questo libro va letto.
[“Il Galatino” anno LVII – n. 12 – 28 giugno 2024, p. 4]